Solennità di Sant’Alessandro – Pontificale

26-08-2012
Cari fratelli e sorelle, con diversi di voi e altri abbiamo condiviso ieri la gioia dell’inaugurazione degli scavi che mettono in luce la storia delle nostre Cattedrali, una storia ricca, una storia anche complessa che ci sprona ulteriormente non soltanto a studiare, ma a capire come la comunità cristiana sia stata significativa in questa nostra città e in questa nostra provincia.
 
È una soddisfazione che si unisce a tante altre e di cui personalmente ringrazio il Signore e ringrazio anche tutta la comunità.
 
Penso ai 50 anni della missione in Bolivia della nostra diocesi, senza dimenticare le altre missioni che si sono aperte successivamente. Questa che ho potuto riconoscere e rinnovare, nella visita recente, è una storia meravigliosa di dedizione e di fede.
 
Insieme a questo c’è un altro motivo di grande gioia: ci accingiamo ad aprire l’Anno della Fede nel ricordo dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e ci prepariamo nel 2013 a commemorare, ancora una volta, la carissima figura di Papa Giovanni nel 50mo della sua morte.
 
Peraltro, ripeto, quanti motivi per ringraziare il Signore! Quest’anno siamo messi a parte addirittura di tre decreti di beatificazione firmati dal Santo Padre che riguardano persone della nostra terra: Tommaso da Olera, Bartolomeo Dalsone, padre francescano di Ponte San Pietro morto martire a Praga; don Luca Passi, sacerdote bergamasco di grande intensità di vita e di testimonianza. Insieme a questi che vengono riconosciuti come Santi, ieri ho fatto visita a Premolo ricordando la bellissima figura di don Antonio Seghezzi, e in questi giorni proprio in concomitanza con Sant’Alessandro commemoriamo sempre anche la morte di un altro sacerdote, che riteniamo veramente martire della fede e della vicinanza al popolo, che è don Sandro Dordi.
 
È la storia della nostra Chiesa e momenti come questi, alla luce anche di quello che ieri abbiamo potuto vedere, meritano di essere ricordati. È una storia di luci, ma è anche una storia di ombre, perché il peccato sta in agguato anche nella Chiesa. È la storia di un mistero che Paolo VI, appunto nel testo che ieri evocavamo, indica sotto il termine «il segreto della cattedrale». Il «segreto della cattedrale» è Cristo vivo. È il segreto della Chiesa, è il suo mistero.
 
È quello che stiamo vivendo in questo momento di celebrazione e di preghiera: noi invochiamo sulla nostra città, sulla nostra terra e sulla nostra diocesi l’intercessione di Sant’Alessandro martire. È un momento che rinnova anche la nostra responsabilità di cristiani e la coscienza di come non solo nella storia, ma anche oggi la vita cristiana si dispiega all’interno della vita di tutti gli uomini e quindi il rapporto tra la Chiesa, la vita della Chiesa e la società nel suo insieme è un rapporto ineludibile.
 
La Chiesa è una presenza consistente, pervasiva, influente, autorevole. Tutto questo significa una grandissima responsabilità, soprattutto nei confronti di coloro che non si riconoscono nella Chiesa, di coloro che perseguono vie diverse, anche convinzioni diverse.
 
Ma penso alla responsabilità che la Chiesa ha nei confronti dei giovani, delle giovani generazioni; non solo dei giovani credenti, ma dei giovani tutti, nelle loro attese e nelle loro speranze. Sì, la testimonianza di fede della Chiesa deve essere per i giovani accompagnata inevitabilmente – lo è per tutti, ma soprattutto per loro – da una provata credibilità, altrimenti anche uno splendido messaggio rischia di essere insignificante per loro.
 
Ma questa responsabilità è una responsabilità che la Chiesa ha innanzitutto nei confronti di se stessa e di quel mistero che racchiude, che è Cristo vivo in mezzo a noi. Una responsabilità quindi nei confronti della propria identità e della propria missione.
 
Ecco perché, cari fratelli e sorelle, il passato pur degno, pur glorioso, pur affascinante, non ci basta. Ecco perché la Chiesa ha il dovere di testimoniare nel presente la sua speranza irriducibile che neppure la morte può demolire, che Sant’Alessandro narra con la sua vita e anche con la sua morte.
 
Ed ecco quindi la necessità per la Chiesa di rigenerarsi continuamente. Bellissima questa immagine dei diversi strati di chiesa, che non soltanto si sovrappongono; uno strato diventa non soltanto il basamento di quello successivo, ma il materiale dello strato precedente entra per costruire lo strato successivo. Quindi questa rigenerazione è qualche cosa che continuamente attinge alla viva tradizione della Chiesa, che non è soltanto memoria di un passato, ma è vicenda vissuta di fedeltà al Vangelo.
 
E allora, abbiamo il coraggio di parlare di trasformazione: come vediamo chiese diverse, per quanto riguarda la loro architettura nel succedersi dei secoli, così è necessario che la Chiesa continuamente si trasformi, si rinnovi per essere fedele al Signore che è vivo e non è soltanto un grande del passato.
 
E la prima trasformazione è proprio questa: che la Chiesa sia sempre relativa a Cristo, quel Signore in cui crede e a cui è chiamata a dare ascolto, a dare obbedienza e quindi a seguirlo.
 
Ciò significa che ogni parola della Chiesa, ogni gesto della Chiesa deve attingere, rimandare e rivelare Cristo e la sua opera per tutti gli uomini: la Chiesa non è fine a se stessa. La sua efficienza pure apprezzabile e apprezzata – penso al vasto mondo della carità, della solidarietà con tutti e a ciò che questo rappresenta in una società che si scopre continuamente vulnerabile – ebbene, anche l’efficienza della Chiesa sotto il profilo più apprezzato che è quello della carità non è comunque misurabile solo dai risultati, ma è misurabile dalla sua fedeltà al Vangelo e alla logica della croce e della resurrezione di Cristo.
 
Proprio per questo la rigenerazione della Chiesa e la sua trasformazione esige di riscoprire l’essenziale, e l’essenziale è la fede in Cristo Gesù.
 
Sì, dobbiamo dire, e io lo dico sempre con grande stupore, la nostra è una grande Diocesi: penso alle 390 parrocchie, penso agli istituti religiosi, penso alle iniziative laicali, penso alle centinaia di opere che scaturiscono dalla storia della vita della Chiesa, della nostra Chiesa. Penso anche ai mezzi di cui dispone la nostra diocesi. In tutti, cominciando proprio da noi, deve brillare la convinzione della fede in Cristo. Non basta dirsi cristiani, mantenere la nostra tradizione, invocare le nostre radici, se non rendiamo vive e vere queste affermazioni, lasciando che siano attraversate dalla linfa della fede.
 
È una trasformazione, questa, che persegue necessariamente forme nuove, necessarie perché quella prossimità di Dio con la vita degli uomini che si è manifestata in Gesù possa continuamente manifestarsi, cominciando dai più piccoli, dai più deboli, dai più disprezzati, per giungere alla vita di tutti, che è esposta comunque al male, al peccato, alla precarietà.
 
Questo secondo me richiede una coscienza comunitaria più viva. Sì, per tanto tempo abbiamo identificato parrocchie e comunità con i sacerdoti, e io li ringrazio di tutto cuore. Sì, ringrazio i sacerdoti per il servizio che rendono ad ogni comunità cristiana: ma proprio questo noi oggi vogliamo percepire, non perché vengono a mancare numericamente i sacerdoti, ma perché avvertiamo questa vitalità della fede che oggi sprona l’intera comunità cristiana e ogni comunità cristiana a farsi soggetto responsabile, comunitario appunto, della testimonianza evangelica. Non si tratta di sottovalutare la responsabilità dei pastori, senza i pastori non ci può essere Chiesa, ma piuttosto comprendere che il servizio dei pastori è al popolo di Dio, alla fede di quel popolo, perché il popolo di Dio, la comunità cristiana nel suo insieme sia un segno di speranza per tutti gli uomini, anche quelli che ritengono di non appartenere a questa comunità.
 
Questa trasformazione, perché la Chiesa sia sempre fedele al suo Signore, si alimenta alla logica del Signore che è la logica della Croce. Non spaventiamoci. Vale a dire, è la logica di un amore che si manifesta anche in un contesto di male, è la logica della verità che si manifesta anche in contesti che possono essere connotati dalla menzogna, è la logica della condivisione con tutti i crocifissi che sono innalzati lungo le strade della storia o vengono nascosti dietro i muri dell’indifferenza, dell’egoismo, del disprezzo.
 
Cari fratelli, è una trasformazione che richiede coraggio, il coraggio della fedeltà al Vangelo come quello di Sant’Alessandro, e insieme al coraggio richiede l’umiltà. Sì, l’umiltà di chi con gioia non conta su se stesso e sui propri successi. “Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria”.
 
(trascrizione da registrazione)