26-08-2015
Cari sorelle e fratelli,
celebriamo insieme la festa del nostro patrono, martire antico che evoca tanti martiri nostri contemporanei, martiri cristiani che vogliamo ricordare insieme con Sant’Alessandro: sono molti, sono sparsi in tanti Paesi del mondo, sono testimoni della fede in Gesù, e per questo subiscono il martirio. Così è avvenuto anche per don Sandro Dordi, sacerdote bergamasco che ha percorso le nostre strade, che è cresciuto nelle nostre famiglie, nelle nostre parrocchie, nel nostro Seminario e in questa indimenticabile Comunità del Paradiso. Che ha percorso le strade dell’Italia, della Svizzera, e infine del Perù, dove il Signore lo ha chiamato a offrire la suprema testimonianza. Con lui permettete di ricordare tutti i missionari bergamaschi nel mondo: sono ancora moltissimi, siamo tra le diocesi nel mondo che offrono ancora un numero assolutamente considerevole di missionarie e missionari, preti, consacrati e laici. Ultimamente ho avuto la possibilità di visitarli, in Bolivia e in Brasile, e quello che porto nel cuore ogni volta che compio questi viaggi è una ricchezza di fede che viene alimentata proprio dalla loro generosità. E mentre ricordo loro, permettete ricordi anche – perché in questa Eucarestia li porterò nella preghiera – tutti i bergamaschi nel mondo. La festa patronale vada veramente oltre i confini materiali del nostro territorio, ci porti a ricordare tutti coloro che – partiti dalla nostra terra, e che ora sono in moltissimi Paesi del mondo – con la loro esistenza comunicano e manifestano la ricchezza di questa nostra terra, di questa nostra storia. E permettete anche, insieme con i bergamaschi nel mondo, di pregare in questa Eucarestia per tutti coloro che da altri Paesi del mondo sono venuti e stanno arrivando nella nostra terra e nelle nostre comunità: non sono nati qui, stanno giungendo o sono giunti da molti anni tra noi, hanno bussato o bussano alle porte della nostra ospitalità. E mentre celebriamo questa festa che veramente abbraccia tutta la comunità, vogliamo nella preghiera abbracciare anche tutti loro.
Il martire è un testimone, e quindi il suo martirio diventa per noi una provocazione alla testimonianza, la testimonianza della fede, la testimonianza della fede in Gesù, la testimonianza del suo Vangelo. Quest’anno vorremmo in modo particolare sottolineare un aspetto della testimonianza evangelica: quello della gratitudine. È una testimonianza che, se volete, attinge anche alla Lettera che ha accompagnato l’anno pastorale che si è concluso, una Lettera che invitava ad essere sempre più donne e uomini capaci di Eucarestia, quindi capaci di gratitudine. E immediatamente cogliamo un aspetto che la celebrazione dell’Eucarestia induce in chi la vive con intensa partecipazione: vale a dire noi rendiamo grazie nella gioia e anche nel dolore, noi celebriamo l’Eucarestia quando siamo felici e anche quando siamo provati. Celebrare l’Eucarestia significa dire grazie, e già questo – se permettete – è una grossa provocazione: perché dire grazie nella felicità è evidente, ma come dire grazie nel dolore?
Non stiamo parlando semplicemente di qualcosa di estemporaneo, ma questa testimonianza della gratitudine vorremmo approfondirla sotto il profilo della virtù, cioè di uno stile di vita: non si tratta quindi semplicemente di un gesto di cortesia, di un gesto di buona educazione alla quale non vogliamo rinunciare, ma si tratta di un modo di vivere, di un modo di essere. La virtù evoca cose di questo genere, e pensando alla gratitudine possiamo concordare nel riconoscerla come una preziosa virtù nella vita privata. Io mi auguro di tutto cuore che il sentimento della riconoscenza ci accompagni pensando ai nostri cari, e che la riconoscenza sia veramente uno stile abituale con il quale noi viviamo i nostri rapporti familiari, i nostri rapporti amicali.
Non è cosa da poco sottolineare la bellezza, la verità, l’importanza di coltivare la virtù della gratitudine dentro queste relazioni; d’altra parte non dimentichiamo che questa virtù si esprime anche oltre i confini di queste relazioni in forme di dedizione che ci lasciano veramente meravigliati e riconoscenti. In forme, se mi è concesso, anche di cortesia, che alimentano una convivenza civile spesso segnata dalla grossolanità, dalla volgarità e dalla brutalità. Certo, nel momento in cui passiamo dalla considerazione della virtù della gratitudine all’interno delle relazioni personali alla considerazione della virtù della gratitudine in termini più vasti, le cose ci sembrano diventare un po’ più difficili, e facilmente scivoliamo in una considerazione della gratitudine, a livello sociale, come qualcosa di facoltativo, di accessorio. C’è una grandissima realtà che contrassegna il nostro territorio, il volontariato: il volontariato è espressione di gratuità e suscita inevitabilmente gratitudine. A volte pensiamo che sia un di più, un qualcosa che siamo felici esista, ma che potrebbe non esistere: ecco, gratuità e gratitudine appartengono ad un mondo diverso, rispetto a quello pregnante a cui oggi in modo particolare vogliamo porre attenzione. È il mondo dei rapporti sociali, dei rapporti politici, dei rapporti economici, dei rapporti istituzionali: è possibile proporre la gratitudine e vivere la gratitudine nell’ambito della costruzione della città abitata da tutti gli uomini, da tutte le donne? Immediatamente pensiamo che questo orizzonte sia innanzitutto determinato dalla giustizia: è la giustizia la virtù necessaria per edificare la convivenza pubblica, la convivenza civile. E quindi il riconoscimento dei diritti e la pratica dei doveri. Questo è assolutamente necessario per la convivenza civile, una convivenza che per certi aspetti – e qui le cose cominciano a diventare un po’ critiche – sembra essere segnata soprattutto dal dare per avere, cioè dallo scambio. Oppure dal dare per dovere, cioè la legge che impone dei doveri.
Non è così facile trovare lo spazio della gratitudine dentro ambiti nei quali i criteri che sto ricordando si impongono in maniera evidentissima. Non è facile parlare di gratitudine e praticare la gratitudine nella costruzione della città quando questa viene tentata da una visione in cui tutto si compra e si vende, dove molto si rivendica e si pretende, dove gli spazi dei diritti individuali si allargano a dismisura, dove gli spazi dei doveri vengono sempre più codificati da una moltiplicazione di leggi, di regolamenti e di regole, e dove, alla fine, la gratitudine diventa appunto una merce rara, che dovrebbe essere preziosa perché rara, ma che non è neppure considerata preziosa. Papa Benedetto nella sua Lettera «Caritas in veritate» scrive che «la città dell’uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione».
Cari sorelle e fratelli, mi sembra che parlare di gratitudine significhi evocare innanzitutto la memoria. La memoria: l’abbiamo udito nella prima Lettura, un padre incoraggia i propri figli alla testimonianza coraggiosa ricordando in modo riconoscente coloro che li hanno preceduti. La memoria può essere anche molto dolorosa, ma certamente il momento culminante della memoria si identifica con la riconoscenza: quello è il momento luminoso della memoria. Ma riconoscenza non è soltanto memoria, non si alimenta soltanto alla memoria, si alimenta alla contemplazione, cioè allo sguardo capace di cogliere l’insieme e la profondità delle cose. Senza questo sguardo, che a volte noi esercitiamo inconsapevolmente nelle nostre relazioni familiari, non potremo alimentare una virtù della gratitudine a livello sociale. Gratitudine, infine, è accoglienza: ricordare, riconoscere e ridonare sono i verbi della gratitudine. Ricordare, lo dicevamo, è la memoria; riconoscere è l’esito dello sguardo contemplativo; e – finalmente – ridonare, che è il segno di aver accolto e assimilato il dono ricevuto. La gratitudine – vorrei soprattutto sottolineare questo aspetto – è assimilazione: ricevere non è semplicemente accogliere o utilizzare un bene, ma interiorizzarlo, interiorizzare l’intenzione del bene che ci è stato donato. Interiorizzare addirittura il volto della persona che ci ha fatto il dono, interiorizzare il suo animo, interiorizzare la relazione con lui.
A volte il nostro grazie, pur cortese, non ci arricchisce a sufficienza, ed è per questo che, alla fine, riteniamo la gratitudine un qualcosa di più, che addolcisce la vita, ma che non è necessario. Ma voi capite che se noi percepiamo che attraverso la relazione con l’altro noi cresciamo nella nostra umanità, allora veramente il senso della gratitudine scaturisce dalla serietà, dalla profondità, dalla responsabilità con cui noi entriamo nella relazione con gli altri nei diversi ruoli, nei diversi compiti, nelle diverse responsabilità che siamo chiamati ad esercitare. Proprio sotto questo profilo la parola che Gesù ci ha rivolto nel Vangelo risuona in una maniera molto efficace, quando dice: «Amatevi, questo è il mio comandamento, come io vi ho amato». La gratitudine non è una restituzione, la gratitudine è una ridonazione: io ho, sono grato del dono ricevuto e la mia vita, con le mie diverse competenze, con le mie diverse responsabilità, diventerà una ridonazione, una riconsegna ad altri – che forse non sono quelli dai quali io ho ricevuto – di ciò che ho ricevuto: questa è la ricchezza della virtù della gratitudine all’interno della comunità, che non è solo quella ecclesiale.
Cari fratelli e sorelle, l’ho sottolineato all’inizio: a volte pensiamo che la gratitudine sia un di più, un di più che amiamo, al quale vogliamo educare i nostri figli. Ma comunque un di più rispetto alle necessità cogenti dell’esistenza, alle responsabilità impellenti, sotto ogni profilo, che ci sono affidate. Care sorelle e cari fratelli: questo di più è proprio ciò che ci è necessario. Il dovere non esclude il dono, il dovere non esclude la gratuità, i diritti e i doveri non escludono il mondo della gratitudine; anzi, è proprio questo mondo, il mondo del dono, il mondo della gratuità, il mondo della gratitudine che dà forza morale e sostenibilità al mondo dei diritti e dei doveri, perché la giustizia non si trasformi semplicemente in qualcosa di implacabile, in qualcosa in cui tutto si vende e tutto si compra. In questa Eucarestia manifestiamo la nostra gratitudine a Dio; manifestiamo la nostra gratitudine a Dio per Gesù Cristo, perché appunto nella gioia e nel dolore noi possiamo rendere grazie a Dio per Gesù Cristo, sorgente inesauribile della nostra speranza. Ma insieme alla gratitudine a Dio manifestiamo, pregando insieme, la gratitudine a tutti coloro che hanno avuto affetto, cura, dedizione, condivisione, misericordia nei nostri confronti, a tutti coloro che ci hanno illuminato la vita e ci hanno aiutato a respirare in ogni suo passaggio.
(trascrizione da registrazione)