Questo sguardo ci porta a considerare pensosamente la figura del salvatore incapace di salvarsi. Le parole che ricorrono nella prima parte di questa pagina del Vangelo sono proprio la dichiarazione di questa impotenza: “Se tu sei il Figlio di Dio, se tu sei il Cristo, se tu sei il re dei giudei, se tu sei l’eletto, salva te stesso!”. Questa è la regola che ispira la vicenda umana: salvare se stessi. Questo è anche il riconoscimento della riuscita di una vita umana: essere salvi, ma ancor più meritatamente essersi salvati. L’alternativa è il fallimento e qui guardando colui che è stato riconosciuto e si è proposto come salvatore il fallimento appare assolutamente radicale.
Attorno a chi fallisce immaginiamo e desideriamo che ci sia un po’ di compassione, ma non sempre è così, neppure oggi. Il fallito si vergogna e spesso deve sottrarsi al giudizio e al disprezzo degli altri. Nessuno si immaginerebbe come fallito, eppure i fallimenti e i falliti oggi sono molto numerosi. In qualche modo potremmo dire che viviamo tutti sotto il segno della paura di fallire: di fallire nelle nostre relazioni più importanti, particolarmente quelle familiari; di fallire nel lavoro, in quei lavori che sono sicuri, ma non per questo non esposti al fallimento personale, e in quei lavori che espongono anche personalmente alla possibilità di essere del tutto cancellati, in questi anni abbiamo assistito a questi sofferti e a volte drammatici fallimenti.
Il nostro sguardo su Gesù Cristo viene accompagnato dal suono delle parole che appunto il Vangelo ci ha consegnato: “Se tu sei il salvatore, salva te stesso! E se non riesci a salvare te stesso, a salvarti da solo, come potrai essere il salvatore di altri?”.
Insieme a questo noi vediamo proprio in Gesù, nelle sue parole, nel modo in cui muore, un figlio che si affida radicalmente al padre. Un figlio che prova il suo abbandono, ma mette anche l’abbandono nelle mani del padre. Un figlio che anche nel momento del dolore e dello scatenarsi dell’odio si affida ad un amore più grande. È proprio per questo che Gesù dalla croce diventa l’evangelizzatore di una speranza e di una gioia che sono più forti della morte e a chi sta morendo con lui, a chi è veramente fallito Gesù dice: “Oggi sarai con me nel paradiso”.
Mentre guardiamo Gesù, così come in maniera molto sommaria ho ricordato, possiamo vedere anche la rappresentazione più semplice e più drammatica di colui che crede, di colui che crede in Dio e particolarmente di colui che crede in Dio per Gesù Cristo, in Gesù Cristo, con Gesù Cristo.
La figura del malfattore, tradizionalmente riconosciuta come quella del buon ladrone, ci indica in maniera estremamente sintetica e dal luogo più scomodo che si possa immaginare il cammino della fede. Le parole che il buon ladrone rivolge a Gesù segnano proprio le tappe di un cammino di fede.
Innanzitutto quando rivolgendosi all’altro che muore con lui parla del timore di Dio, cioè del riconoscimento di Dio. Questo è il primo passo della fede.
Nello stesso tempo viene ammesso e riconosciuto che in quell’istante, come in tanti istanti della nostra vita, si manifesta il potere della morte (“Noi siamo condannati a morte”) e nello stesso tempo del fallimento del peccato (“Per colpa nostra”) e dell’innocenza di Gesù (“non come lui”). Da questa consapevolezza ne nasce una preghiera che diventa la professione di fede del buon ladrone: “Gesù”, innanzitutto, cioè un Dio che manifesta la sua misericordia nella persona di Gesù, nella sua storia, in tutta la vicenda di Gesù. La fede del cristiano è una fede in Gesù Cristo, Gesù di Nazareth.
E poi dice “Ricordati di me”: cari fratelli e sorelle, la fede è memoria di Dio ma nello stesso tempo è chiedere a Dio che abbia memoria di noi. È fidarsi della memoria di Dio: “ricordati di me”.
Infine l’evocazione del suo regno. Tutta la predicazione di Gesù è l’annuncio del regno, cioè l’annuncio della speranza: “ricordati di me quando sarai nel tuo regno”, cioè quando il tuo regno finalmente si compie.
Cari fratelli e sorelle, celebriamo in questa Eucaristia, con tanti confratelli che si sono qui riuniti, la conclusione dell’Anno della Fede e ci rendiamo conto di come la fede e la riuscita della vita siano profondamente legate. Possiamo dire allora che non ci salviamo da soli, ma ci salveremo insieme e questo lo può dire anche chi non crede. Questo ce lo sentiamo ripetere in questi anni con molta frequenza, anche se a volte non manifestiamo una altrettanta fiducia in questa convinzione così frequentemente proclamata. È vero, non ci salveremo da soli, ma ci salveremo insieme.
Ma non ci salveremo neppure insieme, senza accogliere un dono che ci precede tutti: il dono di Dio. Credere significa proprio questo: accogliere un dono, una grazia, un amore che ci precede. Questo significa anche credere in Gesù Cristo che è il dono di Dio, la sua grazia, il suo amore.
Un grande filosofo diceva che è facile credere in Dio perché è buono e ci si può fidare di lui, mentre è molto difficile credere nell’uomo. E concludeva che per credere nell’uomo bisogna credere in Dio. La fede in Dio, che è diventato uomo, è intimamente legata alla fede che ogni giorno siamo chiamati ad esercitare gli uni verso gli altri. Abbiamo bisogno di credere per vivere, abbiamo bisogno di credere per donare la vita, abbiamo bisogno di credere in Dio.