Messa per la Vita Consacrata – Cattedrale

02-02-2013
Care sorelle e cari fratelli,
il sentimento della gioia ci accompagna in questa celebrazione e non solo ripropone alla nostra fede il mistero della presentazione di Gesù al tempio, ma anche il dono che il Signore fa alla sua Chiesa della vita consacrata che voi incarnate nelle diverse forme di cui lungo la storia questa vocazione del Signore si è andata manifestando.
 
È con questa gioia che vorrei riecheggiare le parole che abbiamo ascoltato nella pagina della lettera agli Ebrei, dove si testimonia, si raccoglie questa intensissima, inarrivabile condivisione di Cristo con la nostra condizione umana: poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe. In pochissime parole limpide l’autore della lettera agli Ebrei ci consegna questo mistero di incarnazione nella luce di una inarrivabile condivisione da parte di Cristo. Egli doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede. Ancora poche righe dopo viene sottolineata ulteriormente questa somiglianza del figlio di Dio, di Cristo, con noi. Questa somiglianza, questa condivisione assoluta, viene interpretata come la condizione attraverso la quale egli diventerà il sommo sacerdote definitivo, la cui azione fondamentale si raccoglie nel segno della misericordia e la cui credibilità è appunto il frutto di questa inarrivabile condivisione.
 
Ancora permettete di riprendere queste parole della lettera perché sembra che passo dopo passo intensifichino questa consapevolezza di coloro che credono in Cristo. L’autore sottolinea ulteriormente questa condivisione: infatti proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.
 
Care sorelle, cari fratelli, mi sembra che effettivamente che la prima caratteristica di questa condivisione sia la fraternità. Quella fraternità che così intensamente e così realisticamente abbiamo ascoltato nella pagina della lettera agli Ebrei. Una fraternità ripetevo inarrivabile, di cui noi siamo chiamati a dare testimonianza. Una testimonianza intensa, una testimonianza invitante.
 
È certamente questa testimonianza che, particolarmente nella vita religiosa, tutte le persone consacrate sono chiamate ad offrire.
 
Fraternità nella vita comunitaria, fraternità fra comunità, fraternità con ogni essere umano, addirittura arrivando al più dimenticato, a quello che è ritenuto meno degno di questo dono.
 
Sappiamo che la fraternità in Cristo, a partire dalla fraternità di Cristo con noi, non è una fraternità esclusiva.
 
La bellezza e l’intensità della fraternità tra cristiani e dei cristiani è una bellezza sacramentale. Vale a dire che la fraternità di tutti i cristiani, quella fraternità che la vita religiosa e tutti i consacrati sono particolarmente chiamati a testimoniare, è appunto un segno, addirittura un segno che lascia comunicare la fraternità di Cristo per tutti gli uomini, per ogni creatura.
 
È questa condivisione come fraternità che viene sottolineata anche dal messaggio dei Vescovi in questa Giornata Mondiale della Vita Consacrata: “I segni di comunione sono ciò che più esige il nostro tempo e diventano via privilegiata per mostrare la novità del Vangelo ed essere segno di una Chiesa esperta in umanità. I contesti che viviamo sono segnati spesso da problemi relazionali, solitudini, divisioni, lacerazioni sul piano familiare e sociale. Essi attendono presenze amorevoli, segni di fiducia nei rapporti umani, inviti concreti alla speranza che la comunione è possibile. Una proposta credibile del Vangelo esige una particolare cura dei processi relazionali ed ha bisogno di appoggiarsi a segni di vera comunione”.
 
Gioia, riconoscenza, disponibilità rinnovata ad essere questi segni di comunione.
 
Meditando su questa pagina della lettera agli Ebrei, e particolarmente sull’ultima espressione che vi ho ricordato e cioè la condivisione della prova, mi sembra che valga la pena sottolineare con voi la condivisione della fatica a sperare.
 
Se la condivisione di Cristo e a partire da Cristo prende il nome della fraternità, Cristo condivide la nostra sofferenza che non è soltanto patimento, non è soltanto pena, che non è soltanto limite della nostra condizione a volte segnata dalla malattia, dagli anni che avanzano, da desideri che rimangono incompiuti, ma appunto dalla fatica a sperare. In questo tempo continuiamo a rinnovare convinzioni che alimentino speranza, ma non siamo dei superficiali, non stiamo pensando ad una facile speranza. Sappiamo che la speranza è una virtù impegnativa al punto da dire che il desiderio, che l’attesa, che la speranza ad un certo punto si trasformano in un dovere perché qualche volta la fatica a sperare diventa così forte da tentarci a rinunziarvi.
 
Noi condividiamo con tutte le donne e gli uomini del nostro tempo, con i giovani e gli anziani, con gli adulti e le famiglie, la fatica a sperare. Proprio a partire da questa condivisione possiamo diventare i segni della speranza, possiamo introdurre in questa fatica la luce di Cristo. Care sorelle e cari fratelli, questa è la ragione della nostra speranza.
 
Nel messaggio di questa giornata si riecheggia l’Anno della Fede e appunto si invita particolarmente gli uomini e le donne della vita consacrata a ritornare così profondamente a Cristo da diventare una luce di Cristo nella fatica della speranza. Non abbiamo formule magiche per restituire speranza agli uomini, ma possiamo testimoniare giorno per giorno, nella condizione singolare di ciascuno, nelle nostre vite comunitarie la luce di Cristo che è la ragione della nostra speranza.
 
Non abbiamo dubbi di questo. Una ragione capace di superare ogni delusione, ogni limite, anche quello della morte.
 
Mi sembra che questa condivisione in forma fraterna della fatica a sperare, che diventa premessa per una testimonianza di speranza credibile, si trasformi alla fine nell’annuncio di un amore più grande. Se il Concilio riconsegna alla Chiesa il dono della vita consacrata sotto il nome di “perfetta carità”, noi vogliamo raccogliere in questo cinquantenario dell’apertura del Concilio la consapevolezza di una chiamata ad un amore più grande.
 
Cosa vuol dire “un amore più grande”? Vuol dire che la vostra consacrazione, che quei voti che la connotano, che la vostra generosità, che la vostra gioia può diventare un autentico annuncio di Vangelo, un amore più grande, l’amore di Cristo. L’amore di Cristo è l’amore più grande. Quindi in mezzo ai sospetti, in mezzo ai dubbi, in mezzo alle fatiche, in mezzo alle sconfitte, in mezzo alle tentazioni degli uomini e delle donne di rinunciare all’amore, voi, giovani e anziani, siete chiamate e chiamati a testimoniare questo amore più grande.
 
Ed è proprio l’amore più grande che diventa annuncio di Vangelo, perché la generosità lasci trasparire veramente il Cristo. La generosità, l’amore, la carità diventino la via più grande per poter essere introdotti a credere in Cristo e nel suo Vangelo.
 
Care sorelle e cari fratelli, abbiamo aperto questa celebrazione con la processione. Le nostre piccole luci sono rimaste accese pur in mezzo a qualche goccia di pioggia e lì dove qualcuna si spegneva c’era vicino una presenza amica che permetteva che la luce potesse riaccendersi. Permettetemi allora di concludere con una piccola parabola che racconta che al tempo delle crociate un soldato aveva avuto la folle idea di portare a Firenze la fiammella di un cero che brillava nella stalla di Betlemme. Il vento, la pioggia, il freddo, il sonno, i briganti avevano congiurato invano per spegnere quel fuoco. Esausto, dopo mille avventure, arrivò finalmente in patria. Era la sera della vigilia di Natale. Grazie a lui tutte le lampade di Santa Maria del Fiore furono accese alla fiamma venuta dalla mangiatoia di Gesù. Aveva adempiuto il voto, ma soprattutto aveva scoperto il senso della vita: tutta la sua brutalità di guerriero era stata consumata da quel fragile fuoco che gli tremolava tra le mani e che aveva dovuto difendere senza pensare a difendere se stesso, occupato come era a proteggere la fiammella con le sue mani. Così entrò nel regno dell’amore.
 
Che questa piccola fiamma sia la fiamma di Cristo che noi vogliamo proteggere con il Vangelo perché così possa accendere tante luci. E mentre noi custodiamo questa fiamma possiamo vivere questa gioia di essere trasformati in Cristo stesso.
 
(trascrizione da registrazione)