Vangelo e bellezza

Commenti artistico-spirituali al Vangelo attraverso opere d'arte

Riportiamo alcuni commenti artistico-spirituali al Vangelo riletto attraverso importanti opere d’arte. I commenti sono realizzati da don Tarcisio Tironi del MACS – Museo d’Arte e Cultura Sacra di Romano di Lombardia.

III domenica di Avvento – 12/12/2021
“Siate sempre lieti nel Signore”

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Si inizia così l’antifona di ingresso alla Messa della terza domenica d’Avvento che dall’equivalente originale in lingua latina «Gaudete in Domino semper» (Paolo ai Filippesi 4,4) è conosciuta come «Domenica gaudete». L’insistente invito alla gioia, pur trovandosi durante un periodo penitenziale, è motivato dal sapere ormai vicino il giorno in cui facciamo memoria della nascita storica di Gesù che a tutti ha portato e offre vita piena. Se il Cristo da allora è sempre con noi e dalla nostra parte, non possiamo perciò che essere uomini e donne felici, portatori di speranza, pronti a una vigilanza lieta in attesa del futuro. Perciò nelle Chiese, oggi, per antica tradizione, si vedono paramenti di colore rosaceo e alcuni accendono sulla corona dell’Avvento una candela rosa invece della viola quasi a rischiarare questo colore di speranza, nel ricordo della nascita del Dio della Vita.

Il Vangelo di Luca (3,10-18) ci presenta un’altra tappa decisiva della predicazione del Precursore. Quanti l’hanno ascoltato infatti si sono resi conto che occorre cambiare il modo di vivere e perciò gli chiedono: «Che cosa dobbiamo fare?».

Ecco come Mattia Preti continua il racconto evangelico nel dipinto «La Predicazione di San Giovanni Battista» realizzato ad olio su tela all’incirca nel 1665, dal 1981 ai Musei di belle arti di San Francisco in California. La figura del Battista domina imponente la scena. Il profeta vestito di peli di cammello e coperto da un mantello che nel movimento esprime la forza dell’annuncio e nel colore il rosso del martirio, s’appoggia con l’avambraccio su un tronco d’albero spezzato e con la mano sinistra regge la canna a forma di croce inclinata verso il cielo esplicitamente indicato dalla destra e da cui una luce scende su tutti e su tutto.

Gli uomini e le donne raffigurati piccoli ai piedi di Giovanni, guardano conquistati il predicatore esprimendo in molti la disponibilità a cambiare. E il Precursore risponde alle folle cioè a tutti, nessuno escluso: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto»; ai pubblicani: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato»; ai soldati: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».

Il pittore non dimentica di sintetizzare in immagine il compito del Battista sia nel cartiglio («Ecce Agnus Dei») sia nell’agnello, l’attributo del Santo e neppure si dimentica di noi che guardiamo. Lo sguardo di Giovanni infatti interpella ognuno di noi e aspetta la decisione di accogliere con i fatti Chi viene sempre.

Il grande abate di Solesmes, Dom Guéranger, ci rassicura: «Dobbiamo davvero rallegrarci nel Signore. Quindi stiamo tranquilli: il Signore è vicino. Possiamo abitare vicino a un fuoco così ardente e rimanere congelati?».


Solennità dell’Immacolata – 08/12/2021
“Tutta bella”

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La «corsarola» è la passeggiata più frequentata e molto conosciuta a Bergamo Alta, la via Bartolomeo Colleoni che attraversa la parte più antica della città. Andando dalla Cittadella verso piazza Vecchia, all’inizio della via, sulla sinistra s’incontra la Chiesa di S. Agata al Carmine. Nella prima cappella di sinistra si trova una splendida ancona lignea dell’«Immacolata Concezione di Maria» attribuita a Jacopino Scipioni, un prestigioso artista locale vissuto tra XV e XVI secolo. L’opera commissionata all’inizio del XVI secolo dalla Confraternita dell’Immacolata Concezione presente nella vicina chiesa conventuale di S. Francesco, fu collocata sull’altar maggiore della omonima cappella, la seconda a destra entrando. In seguito alla soppressione della Confraternita ordinata dal Regio Decreto del 1806, l’Ancona fu venduta e, dopo essere stata posta in luoghi diversi, fu collocata nella posizione attuale nel 1903.

Già all’inizio del secolo VIII in alcuni conventi palestinesi si onorava la festa dell’Immacolata. Dopo essersi diffusa in Oriente, la celebrazione giunse anche al sud dell’Italia e da lì nel secolo IX fino in Inghilterra e Irlanda nell’ambiente benedettino fissandone la ricorrenza all’8 dicembre. A seguire, dal XII secolo si iniziò a festeggiare l’Immacolata nelle chiese e nei conventi della Normandia, di Francia, di Germania. In Italia furono soprattutto i francescani a promuoverne la devozione e tra questi Duns Scoto fino a quando, nel 1476, Papa Sisto IV, approvandone l’Ufficio e la Messa, stabilì che l’oggetto della festa ormai ufficiale, non era la «santificazione» ma la «Concezione» della Vergine. Papa Pio IX, l’8 dicembre 1854 promulgò il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria annunciando che, ogni anno, all’8 dicembre fosse celebrata la festa con la proclamazione del Vangelo secondo Luca (1,26-38). Il brano dell’Annunciazione racconta come Maria, colmata d’ogni grazia, con il suo «Sì» all’invito di Dio genera per l’umanità intera il Salvatore.

Ecco perché al centro dell’ancona dello Scipioni c’è Maria «in sole» che mostra davanti al grembo Gesù Bambino benedicente, sostenuto ai piedi da un angioletto, ricordando l’antica tipologia delle icone della «Madre del Segno». La Giovane di Nazaret è scolpita in profonda contemplazione, con le mani giunte, dentro una mandorla di luce, avvolta da un abito d’oro evidenziato dagli squarci azzurri dell’interno, a conferma della sua umanità. Da lei, riempita sin dall’inizio dall’amore di Colui che compie meraviglie e perciò mai sfiorata dal peccato e dal male, emanano raggi aurei sui genitori (a sinistra), sui santi Anselmo e Gerolamo (a destra) e Agostino e Bernardo (sotto), e in ogni direzione.

Continuiamo la riflessione con alcuni versi di Gerard Manley Hopkins, poeta del secondo ottocento inglese, sull’Immacolata «che non soltanto / nel grembo accolse / e nel seno l’infinità di Dio, / contratta nell’infanzia, / ma in ogni nuova grazia s’incinge / che a noi discende».


II domenica di Avvento – 05/12/2021
“Verso il nuovo giorno”

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Luca, attento a narrare nel Vangelo come la storia umana si conferma «luogo» dove si realizza la storia della salvezza quale fermento di vita nuova, precisa il contesto storico-geografico in cui Giovanni inizia l’attività (3,1-6). Dopo aver ricordato il tempo – «Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare» – l’evangelista elenca autorità politiche e religiose contemporanee del fatto, citate per nome e per funzione: «mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa». È il mondo intero, sacro e profano, giudaico e pagano ad essere testimone di quando «la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto»

Giovanni è quindi un profeta che, pur appartenendo alla classe sacerdotale – «figlio di Zaccaria», – esercita il ministero da solo e «nel deserto» mentre percorre «tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati».

Uniamoci a uomini, donne e bambini, seduti, in piedi, a cavallo, in ascolto del Precursore del Messia, che Raffaello nel 1505 ha dipinto ad olio sulla tavola di pioppo «La predicazione di S. Giovanni Battista», dal 1983 alla National Gallery. L’opera è l’unico scomparto conosciuto della predella della pala raffigurante la Madonna col Bambino tra S. Giovanni Battista e S. Nicola, detta «Madonna Ansidei» perché realizzata dall’artista ventitreenne nel periodo fiorentino su commissione di Niccolò Ansidei, da collocare ad un altare nella Cappella di famiglia dedicato a S. Nicola, nella Chiesa dei Servi di S. Fiorenzo a Perugia.

Nella raffinata tavola, il Precursore, a destra, su un rialzo di terreno, con un vivace manto rosso, sopra un abito di pelle di cammello, con nella mano sinistra una sottile canna terminante a croce, annuncia alla gente con la destra rivolta al Cielo che da Dio sta arrivando il Messia e che occorre darsi da fare com’è scritto nel libro del profeta Isaia, «“Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate”». Solo così «Ogni uomo vedrà la salvezza la salvezza di Dio!».

Gli adulti vestiti da manti variopinti e con copricapi diversi per tipo e colore, stanno in un paesaggio umbro a gruppi, in varie posizioni. Il grande artista rivela già una tavolozza ricca e vivace, la geniale capacità di rendere in modo originale la vivacità dei due putti davanti a Giovanni, la disposizione dei personaggi, la serenità dello spazio, la cura dei particolari.

Con Turoldo chiediamo profeti che siano «voce di Dio dentro la folgore, voce di Dio che schianta la pietra».


I domenica di Avvento – 28/11/2021
“L’Avvento di Dio”

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«Fa’, o Signore, che siamo costantemente vigilanti, in attesa della manifestazione gloriosa del tuo Figlio».

È un’invocazione della prima domenica del tempo liturgico l’«Avvento», parola derivata da «adventus» che significa «venuta» ed è la traduzione latina del termine greco «parousia», corrispondente a «venuta gloriosa». Quindi il senso etimologico dell’Avvento più che l’attesa indica la venuta di Dio nella storia e nella gloria. A Natale celebriamo e facciamo memoria dell’evento irripetibile della nascita storica di Gesù, il Figlio di Dio, fattosi carne a Betlemme più di duemila anni fa. Le nostre attese sono pertanto rivolte alla liberazione definitiva che metterà in grado ogni uomo e ogni donna d’incontrare il Cristo quando alla fine dei tempi ritornerà glorificato con tutti i santi. Lo ricorda il brano di Vangelo secondo Luca (21,25-28.34-36): «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria». È l’avvento di un Dio che nonostante tutto ritorna per la definitiva realizzazione e pienezza del bene, della giustizia, dell’amore.

Colgo l’autenticità dell’attendere nell’opera «L’ora blu» dipinta ad olio da Jon Bøe Paulsen nel 1998. Di fatto non è l’attivismo sfrenato e neppure il fatalismo a qualificare l’attesa della donna rappresentata. L’energia luminosa attraversa i vetri delle finestre chiuse, riesce a scaldare l’interno di una casa norvegese e contemporaneamente ravviva il volto in un delicato sorriso. La comparsa degli avvolgenti fasci di luce sorprende e rasserena la donna che sospende lo scrivere a macchina e assapora l’evento imprevisto. Paulsen sembra tradurre nella tela monocroma, gli avvertimenti evangelici di Gesù: «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra».

La donna solleva il capo per scrutare ciò che arriva, non lascia appesantire il cuore in tante cose, senza paura vive il quotidiano da pellegrina dell’eterno perché sostenuta dalla luce di Colui che viene in ogni istante. Contemporaneamente abita e apprezza il presente costruendo relazioni autenticate dall’amore, in attesa dell’incontro definitivo nella pienezza della vita. Ecco l’indicazione di Gesù per il nostro vivere: «Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

Aelredo, monaco cistercense (XII secolo) dell’abbazia di Rievaulx, esorta pure noi. «Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda».


Solennità Cristo Re – 20/11/2021
“Re d’amore”

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Il più antico manoscritto (datato dal 125 al 150) del Nuovo Testamento trovato nella valle del Nilo, acquistato sul mercato egiziano nel 1920 e ora alla John Rylands Library di Manchester, testimonia che il IV Vangelo scritto probabilmente in Asia, sul finire del I secolo, pochi anni dopo era già diffuso. Conosciuto come «Papyrus 457» (P52), contiene in pochi centimetri (8,9 x 6 nel punto più largo) alcune parole del capitolo 18 del Vangelo secondo Giovanni: sulla facciata anteriore i versetti 31-33 e in quella posteriore i 37-38.

Il processo giudiziario a Gesù ebbe una duplice modalità: religiosa da Anna e poi da Caifa davanti al Sinedrio (assemblea di settantuno membri con il compito di emanare leggi e di amministrare la giustizia), politica (davanti al governatore Pilato). Nel brano evangelico (Giovanni 18,33b-37), sulla scena del processo Gesù è scelto come re e c’è uno scambio di opinioni tra lui e Pilato sulla verità. Il Procuratore dopo essere rientrato nel pretorio (la residenza ufficiale a Gerusalemme del rappresentante di Roma), «fece chiamare Gesù e gli disse: “Sei tu il re dei Giudei?”». Nell’altra parte del papiro, c’è la continuazione dell’interrogatorio. «Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”».

Tra i numerosi ritratti del Governatore romano a Gerusalemme, guardiamo all’opera «Cristo davanti a Pilato» dipinta da Jacek Malczewski nel 1910 e ora alla Galleria d’Arte Nazionale di Leopoli (Ucraina). Pilato è ritratto a sinistra in un atteggiamento piuttosto sorprendente e inconsueto, durante una pausa del processo. È un uomo rilassato e forse annoiato, sprezzante e sicuro di sé, con un copricapo con diadema sui capelli neri, a torso nudo, un panno viola sui fianchi, che non sembra interessato a Cristo tanto è concentrato sul bastoncino in movimento tra le dita.
In contrasto con l’incuria di Pilato, convinto di poter disporre del «re dei Giudei» al modo del bastone con cui gioca, in primo piano, sulla destra è dipinto il Cristo con le fattezze dello stesso artista polacco come in altre scene bibliche da lui realizzate.

Il Maestro di Nazaret rappresentato sofferente e martire, con le mani legate a una canna, ha sul capo una vistosa corona di spine causa del sangue sul volto e sui capelli, indossa un mantello rosso che sostiene con la mano destra mentre la sinistra s’appoggia al mento in un atteggiamento di riflessione confermato dallo sguardo rivolto in basso.

Facciamo nostro il verso con cui Mario Luzi conclude «La Passione», il testo della «Via Crucis» del 1999 al Colosseo presieduta da Giovanni Paolo II. Ecco l’invocazione a Dio, re d’amore e di pace: «Noi con amore ti chiediamo amore».


XXXIII domenica del tempo ordinario – 14/11/2021
“Il cielo si apre per sempre”

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Con questa domenica (12,24-32) si conclude la lettura del vangelo secondo Marco ascoltato nella celebrazione domenicale e letto attraverso le opere d’arte, nel corso dell’anno liturgico e incominciato con l’Avvento. Nel brano evangelico Gesù annuncia ai discepoli che arriverà il tempo in cui «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo». Le immagini cosmiche, usate nella scrittura apocalittica per esprimere l’indescrivibile, non sono fatte per creare spavento ma per accrescere la consolazione perché precedono il ritorno del Figlio dell’Uomo. Lo professiamo insieme ogni domenica quando diciamo: «E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine».

La «Seconda Venuta del Salvatore» o «Parusia» o «Giudizio Universale», appare nei grandi affreschi sulla parete di controfacciata delle chiese e anche nelle icone, come questa d’origine greca, «scritta» nel XVIII secolo, dove Gesù Cristo in trono come Giudice, è al centro d’un cerchio d’oro. Sul fondo azzurro trapuntato di stelle, a ridosso del cerchio, in piedi, Maria alla destra del Figlio e Giovanni Battista, a sinistra, stanno intercedendo la misericordia divina per l’umanità. Sopra e sotto la superficie d’orata compaiono i personaggi del «tetramorfo», la raffigurazione iconografica dei quattro esseri descritti nel libro dell’Apocalisse e successivamente usata come simbolo degli evangelisti, con le ali e l’aureola: leone (Marco), toro (Luca), aquila (Giovanni), uomo (Matteo).

In alto, al centro, campeggia un trono vuoto, sormontato da una croce anch’essa vuota, tra la lancia di Longino e la canna con la spugna dell’aceto, detto «etimasìa». È il tema iconografico del trono elegante e prezioso, vuoto nell’attesa del ritorno del Messia che, grazie alla morte in croce, verrà a giudicare il mondo. A destra dell’etimasìa, simbolo dell’invisibile presenza della divinità, s’inginocchia Adamo, il «primo uomo» e, dall’altra parte Eva, la «prima donna». Ai piedi del Cristo, circondato da angeli e santi, vediamo la «Vera Croce» tra Costantino ed Elena. Nella parte in basso è raffigurato il Paradiso, con a sinistra Abramo che tiene con sé un gruppo di anime rette e a destra il ladrone pentito con la croce sulla quale ha ricevuto dal Cristo la promessa: «Oggi sarai con me il Paradiso».

Da Franco Giulio Brambilla, teologo e vescovo, un’efficace riflessione: «Noi non attendiamo un tempo o un luogo, ma andiamo incontro ad una persona, a un evento personale, dove la nostra libertà, quella personale e quella degli uomini tutti, saranno compiute nel Signore Gesù».


XXXII domenica del tempo ordinario – 07/11/2021
“Il valore del gesto della vedova”

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«La parabola dell’obolo della vedova non è una storia di denaro, ma di pietà. Riguarda ciò che siamo disposti a dare di noi stessi» ha detto l’artista James Christensen del suo dipinto «L’obolo della vedova».

Nell’opera realizzata nel 1988 il pittore e illustratore californiano sceglie di «scrivere» il brano evangelico (Marco 12,38-44) sottolineando alcuni aspetti del racconto. Gesù «Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo».

La vedova al centro, in piedi, che prende completamente la scena, è una giovane donna. Ci guarda e ci viene incontro mentre mostra sulla mano «un soldo» – la moneta romana (quadrans) più piccola corrispondente alle «due monetine» in circolazione nel mondo greco – che tra poco lascerà nella cesta collocata nell’angolo del cortile accessibile ai soli Ebrei, interno al Tempio di cui si vede in fondo a sinistra una grande porta. La mano aperta della donna dice della sua sincerità in netto contrasto con le mani di coloro che attorno a lei – sulla destra e sulla sinistra – ostentano il sostenere e il trattenere sacchetti chiusi e pieni di monete e di preziosità. Dalla foggia degli abiti sfarzosi sembrano rappresentare le persone desiderose di mettere in mostra la loro generosità sia quelle ricche sia quelle ricordate dal Maestro nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».

Christensen evidenzia nella vedova dagli abiti logori e consunti, lo sguardo nitido e consapevole in un volto luminoso che si espande anche sui vestiti a fronte degli altri tre sguardi beffardi e canzonatori raffigurati in penombra e in secondo piano. È la luce interiore di chi agisce rettamente e per amore, sembra suggerire l’artista americano. Ben si comprende quanto Gesù dichiara ai discepoli, chiamati a sé: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». Dio valuta non la quantità ma la qualità delle scelte e, di conseguenza, si serve di altri criteri per qualificare ciò che veramente ha valore laddove, di solito, il pensare comune squalifica, sottovaluta o ritiene insignificante.

Madre Teresa ci propone da che parte stare e indica un metodo di vita da lei pienamente condiviso ogni giorno: «Non possiamo fare grandi cose, ma solo piccole cose con grande amore».


Solennità di Tutti i Santi – 01/11/2021
“Uomini e donne, modelli di vita”

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«Nel giorno di Ognissanti del 1943, con tanti altri compagni, mi trovavo in un grande Lager, in una landa lontana e tristissima. Sotto un cielo plumbeo e nevoso, il cappellano padre Marcolini ci raccolse a Messa e al Vangelo ci lesse le Beatitudini. Lentamente, senza commento, nel più assoluto silenzio e sotto lo sguardo delle guardie che dall’alto delle torrette ci tenevano puntate le mitragliatrici. Noi eravamo come la grande folla ai piedi del monte delle Beatitudini: ogni parola entrò nel nostro cuore e ci sentimmo immensamente più liberi delle nostre guardie».

Ricordo bene il duplice effetto di ammirazione e di provocazione che fece su di me, prete da venticinque anni, questo passaggio dell’intervista allo scrittore Mario Rigoni Stern, sulla sua partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale, apparsa nel 1995 su «Famiglia Cristiana». La forza del Vangelo delle Beatitudini (Matteo 5,1-12a) che cambia la vita a chi sa ascoltare con il cuore e si affida all’amore di Dio, si avvera in ogni tempo e aiuta a comprendere il senso della solennità odierna, quella di «Tutti i Santi». Sono uomini e donne con o senza aureola ma geniali e creativi nell’amare perché hanno seguito e seguono la fonte e il modello: Gesù il Cristo. È lui che annuncia la novità del vivere portando salvezza e facendo del bene a tutti. Ed è un messaggio permanente che non descrive solo un futuro ma si rivolge anche a noi, persone viventi oggi affinché guardando agli uomini e alle donne che già sono nella gioia eterna, non dimentichiamo la nostra meta definitiva.

Entriamo nel Battistero della Cattedrale di Padova, intitolato a San Giovanni Battista, costruito nel dodicesimo secolo e affrescato per intero su incarico di Fina Buzzaccarini, moglie di Francesco I da Carrara, da Giusto de’ Menabuoi tra il 1375 e il 1378 con la narrazione della salvezza, dalla nascita del mondo e dal peccato delle origini fino alla Pentecoste e all’Apocalisse. Alziamo ora lo sguardo alla mirabile cupola e inebriamoci nella raffigurazione del paradiso.

Attorno al Cristo Pantocratore, il centro e la sorgente, come si legge sul libro nella mano sinistra: «Ego sum Α Ω / primus et no[vissimus]» (Io sono l’Alfa e l’Omega / il Primo e l’Ultimo) e attorno alla Madre sua e nostra, dipinta come orante, sotto di lui, in asse simmetrico, circondata da angeli musicanti, il pittore fiorentino raffigura in festa le schiere angeliche e centootto tra santi e sante.

Le parole di Uto Ughi – uno dei grandi della scuola violinistica – arricchiscono la descrizione dell’empireo: «Io non riesco a immaginare il Paradiso. Se c’è, sarà un concentrato di tutte le bellezze, dei suoni, dei colori, delle luci. Così come del resto Dante ci ha già descritto nella “Divina Commedia”».


XXXI domenica del tempo ordinario – 31/10/2021
“Amare”

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Osserviamo la miniatura «Il comandamento più grande», una delle 323 che compongono le «Storie di San Gioachino, Sant’Anna, Maria Vergine, Gesù, del Battista e della fine del mondo» – chiamato «Codice Varia 124» – il capolavoro realizzato da Cristoforo de Predis nel 1476 per Galeazzo Maria Sforza, ora alla Biblioteca Reale di Torino. L’eccellente miniatore apponeva alla firma l’abbreviazione «MUT» che nel 1910 si è scoperto fosse da svolgere in «mutulus» (muto), quasi volesse sottolineare di trovarsi senza vergogna in una condizione considerata allora emarginante. Cristoforo infatti nacque sordomuto a Milano, in una famiglia di artisti – De Predis (Preda) – che ospitò Leonardo quando giunse in città nel 1482. Fu così che il Da Vinci conobbe personalmente Cristoforo e ne ammirò l’abilità artistica.

La scena evangelica (Marco 12,28b-34) è rappresentata in un interno che rimanda ad ambienti nobili dell’epoca identificabili nella preziosa panca che fa da sfondo e, in alto, nelle travi di legno con il sostegno lavorato. Quattro personaggi dai turbanti variegati e abiti variopinti stanno discutendo: due hanno anche un borsello alla cintura, uno indossa pure il manto giallo. L’artista si rifà probabilmente al detto di Gesù – «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze…» (Marco 12,38). Nella raffigurazione ideata con gusto e sapienza dal De Predis, mirabile nel dipingere in piccole proporzioni su pergamena, una lesena ornata dà inizio a sinistra a una parete verde abbellita da un’apertura ad arco da cui s’intravvede uno scorcio di paesaggio straordinario per bellezza e invenzione.

In piedi, al centro, Gesù con l’aureola dorata, sembra stia rispondendo con il «linguaggio dei segni» alla domanda di uno degli scribi: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Tutti gli ebrei e, a maggior ragione lo scriba, ritenuto «l’uomo del libro», erano obbligati – e lo sono anche oggi – ad osservare i 613 comandi (365 proibizioni + 248 precetti) prescritti dalle Scritture. Il Maestro attingendo a quanto sta scritto nei testi sacri, risponde a sorpresa: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». La saggia reazione dello scriba – «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità» – suscita l’affermazione di Gesù che gli risponde: «Non sei lontano dal regno di Dio».

Il monaco e scrittore Thomas Merton suggerisce: «Il messaggio di Cristo ci risveglia dal sonno, per trovare il nostro vero sé in quel santuario interiore che è il suo tempio, dove Egli ci ama e ci chiama ad amare».


XXX domenica del tempo ordinario – 24/10/2021
“Coraggio! Alzati”

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«È stata di per sé un’educazione entrare in questi eventi della Bibbia e studiarli mentre cercavo di creare un’illustrazione che tenti di dargli vita», ha dichiarato recentemente Brian Jekel, docente di belle arti commerciali e laureate al Pensacola Christian College, in Florida. Il professore che è anche un artista, ha prodotto per la casa editrice del college più di mille dipinti come «scrittura in immagini» di fatti biblici. Uno di questi, realizzato nel 2008, è intitolato «Gesù guarisce il cieco» proprio in riferimento all’incontro narrato dall’evangelista Marco (10,46-52) e avvenuto sulla strada in uscita dalla città di Gerico che sale per venticinque chilometri a Gerusalemme.

Il Maestro sta camminando verso la sua meta, accompagnato da molta gente e dai suoi discepoli spaventati perché incapaci di comprendere l’annuncio della sua passione. «Il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva sulla strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”». Quest’uomo, seduto alla porta della città dove transitavano molte persone, è la prima persona – nel Vangelo secondo Marco – che chiama Gesù per nome. E, come spesso pure oggi accade, quando una persona emarginata grida la sua situazione molti, infastiditi, giungono anche a pretendere che taccia. Bartimeo allora «grida ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”». Chi partecipa alla Messa trova qui l’origine dell’invocazione iniziale «Signore, pietà» (Kyrie, eleison) con cui si chiede perdono.

Il comportamento del Maestro sorprende tutti. Si ferma e ordina di chiamare il cieco. Tre verbi risuonano dolci e decisivi alle orecchie di Bartimeo: «Coraggio! Alzati, ti chiama.» che dall’originale greco si possono tradurre con «Abbi fiducia! Mettiti in piedi! Gesù vuole parlarti!». Il cieco lascia ogni sostegno e corre dal Nazareno: «Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù». Questi non si impone, chiede di che cosa ha bisogno – «Che cosa vuoi che io faccia per te?» – e ascolta.

Nell’opera di Jekel è mirabilmente raffigurato l’incontro tra i due. Bartimeo ha appena domandato: «Rabbunì (mio maestro), che io veda di nuovo». Con la mano destra aperta il Maestro sta quasi per toccare gli occhi chiusi del cieco, delineato di profilo in un ambiente «azzurro» di speranza e di vita, illuminato dal chiarore che viene dall’alto. La destra di Bartimeo cerca la luce e si apre fiduciosa all’incontro della rinascita confermato dalle parole di Gesù: «Va’, la tua fede ti ha salvato». L’effetto sul mendicante è ratificato dal testo evangelico: «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada».

Da Clemente d’Alessandria (II/III secolo), un invito: «Accogli Cristo, accogli la possibilità di vedere, accogli la tua luce affinché tu conosca bene sia Dio che l’uomo».


XXIX domenica del tempo ordinario – 17/10/2021
“Servire e dare la vita”

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I fratelli Giacomo e Giovanni, prima d’essere chiamati da Gesù, lavoravano con il papà Zebedeo come pescatori. Con Pietro sono gli apostoli scelti dal Maestro per partecipare ai momenti più significativi della sua vita. E proprio per questo, meraviglia e insieme «consola» che proprio i due si rivolgano a Gesù – come narra l’evangelista Marco (10,35-45) – dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». E quando Gesù chiede loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?» essi sfrontatamente gli rispondono: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». La sorpresa nasce dalla constatazione che, nonostante vivano da tempo con il Nazareno e siano particolarmente vicini a lui, si preoccupino di garantirsi due posti di potere. La fatica dei due a comprendere che il vero messaggio della vita del Maestro e di chi lo segue non è raggiungere il potere ma vivere d’amore, rasserena e incoraggia pure noi.

La reazione degli altri dieci non si fa attendere. Essi, infatti, «avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni». E Gesù a quel punto «deve» intervenire per ribadire il senso del vivere suo e di chi lo vuol seguire: «il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Di conseguenza: «chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti».

Guardiamo a questa splendida tavola con gli apostoli «San Giacomo il Maggiore e San Giovanni», attribuita al Maestro della Ventosilla, dipinta all’inizio del XVI secolo, ora al Museo del pellegrinaggio di Santiago de Compostela. Probabilmente parte di una predella di pala d’altare, insieme a un’altra della stessa fattura con i fratelli, Andrea e Simone, ci presenta come i figli di Zebedeo nel seguito della vita hanno molto ben compreso l’insegnamento di Gesù. A conferma i due, raffigurati di tre quarti, su fondo oro e con l’aureola, sono dichiarati «santi», esempio di vita per tutti.

Giacomo, il primo apostolo martire, decapitato nell’anno 42 per decisione di Erode Agrippa I, è presentato vestito da pellegrino con il cappello dove compare una conchiglia (prova dell’arrivo a Compostela e al mare e anche simbolo di rinascita), con il bordone (bastone tipico) e con il Vangelo. Giovanni è raffigurato d’aspetto giovanile, mentre tiene nella sinistra un calice da cui, grazie alla benedizione, il veleno preparato da un sacerdote del tempio di Diana per avvelenare l’apostolo – secondo la tradizione – si trasforma in un piccolo drago alato.

Fa riflettere l’affermazione del biblista Bruno Maggioni: «Richiamare la chiesa al servizio umile non significa privarla della sua dignità, ma, al contrario, suggerirle il modo di affermarla».


XXVIII domenica del tempo ordinario – 10/10/2021
“Cercare la vita”

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Non è sempre facile lasciarsi mettere in discussione da un incontro, da una lettura, da uno spettacolo, da un evento. La parola discussione deriva dal latino «discussio» che nel primo significato si traduce con «scuotimento» o «scossa». Vuol dire mettersi in dubbio, accettare il confronto e, se occorre, essere pronti a cambiare. Il brano di Vangelo secondo Marco (10,17-30) ci presenta un uomo che lungo la strada corre incontro a Gesù «e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”».

Continuiamo a leggere il testo evangelico attraverso l’opera «Cristo e il giovane ricco», realizzata da Heinrich Hofmann nel 1889 ora alla Riverside Church di New York. A Gesù che gli ha ricordato i comandamenti, l’uomo ha appena risposto: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Il pittore tedesco ferma il momento successivo dell’incontro e raffigura sulla tela questo passaggio della narrazione: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”».

Un’intensa luce mette in risalto al centro il Nazareno mentre fissa l’uomo con uno sguardo di amorosa e gratuita attesa e non di critica o di giudizio! L’uomo – dipinto «giovane» come scrive Matteo (19,20) – non riesce a sostenere lo sguardo del Maestro e manifesta disagio nel volto, volgendo gli occhi in basso, ritraendo le mani quando Gesù, con braccia distese e mani aperte, indica nella penombra, alla sinistra della scena, uno storpio sofferente, confortato da una donna che gli appoggia la destra sulla spalla.

Il bel giovane, dagli abiti lussuosi ed eleganti, dai colori vivi e accattivanti, evidenziati dalla luce, era andato da Gesù per essere aiutato a vivere una vita piena. Hofmann ci fa capire che tra poco questi sta prendendo una decisione. Il racconto infatti prosegue dicendo: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni». La ricchezza di quell’uomo è confermata dal suo vestire: tunica vellutata, mantello prezioso, cintura di stoffa raffinata, cappello abbellito da gioielli e da sete.

Ecco la via della felicità: mettersi in cammino con Gesù e non sentirsi degli arrivati perché si osserva una legge morale o si vive una ascesi. L’accento non è posto su «va’, vendi» ma su «vieni! Seguimi!».

Si fa stimolante anche per noi l’umile confessione del Cardinale Loris Capovilla: «Ogni giorno mi chiedo: allora, piccolo Capovilla, che ti chiami anche vescovo della Chiesa, sei cristiano? Perché essere cardinale e vescovo non è sufficiente. Per essere cristiano, bisogna essere un discepolo fedele e perseverante di Gesù, e questo è difficile per tutti noi».


XXVII domenica del tempo ordinario – 03/10/2021
“Soleggiata eternità”

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Alcuni farisei provocano con astuzia Gesù, cercando di metterlo in contraddizione con la norma sulla liceità del divorzio scritta nel Deuteronomio. Il brano di Vangelo secondo Marco (10,2-12) continua narrando che a quel punto il Maestro domanda loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». I farisei, giocando sui diversi significati di «ordinare» e di «permettere», rispondono: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiare [la moglie]». Gesù, dopo aver precisato che questa è un’eccezione concessa «per la durezza del vostro cuore», cita il libro della Genesi là dove afferma che l’uomo e la donna sono destinati a diventare «una sola carne» (2,24) e, conformandosi a questo progetto divino, dichiara: «Dunque l’uomo non divida ciò che Dio ha congiunto».

Il «Giardino delle Delizie», capolavoro fiammingo realizzato con tecnica ad olio su legno alla fine del XV secolo da Hieronymus Bosch come pala d’altare su commissione di Enrico III, è un’opera formata da due ali laterali di forma rettangolare con sviluppo verticale e da una centrale, quadrata. Il pittore olandese racconta in chiave biblica tre episodi della storia umana con scene da sinistra a destra, in continuità cronologica: «Il Giardino dell’Eden» (rappresentato come un ambiente in perfetto equilibrio e armonia), «Il Giardino delle delizie» (dipinto quasi fosse un paradiso ingannato dai sensi), «L’Inferno musicale» (descritto come luogo impietoso da cui sembra impossibile uscire). Quando le due ali laterali del trittico, visibile al Museo del Prado (Madrid), sono chiuse, mostrano la nascita della terra osservata da Dio preoccupato e pensieroso, seduto con una Bibbia sulle ginocchia (nell’angolo in alto a sinistra).

Al centro del pannello di sinistra, è raffigurata una fontana rosa che rappresenta la fonte della vita nel Paradiso terrestre. Guardiamo alla parte sottostante, qui rappresentata. Il Creatore con abito e mantello dello stesso colore della fontana, fa conoscere tra di loro Adamo ed Eva che si incontrano per la prima volta in un contesto dove la natura serena perché pacificata, si presenta con una rigogliosa vegetazione dai colori vivaci e brillanti. Dio ha le sembianze del Cristo e ci guarda, invitandoci alla presentazione dei nostri progenitori. Geniale l’invenzione dell’artista nell’esprimere l’origine della vita di Eva e di Adamo: Dio appoggia la sua mano al polso della donna, discreta e riservata, e fa sì che sul suo piede destro si appoggi il sinistro dell’uomo, sicuro e contento. È l’affermazione della circolarità della vita con la stessa origine e la medesima dignità. Il Creatore conferma il tutto benedicendo con la mano destra e volge lo sguardo a noi che assistiamo affinché siamo ogni giorno testimoni di tale creazione.

La poetessa rumena Rose Ausländer (1901-1988) così riflette sull’atto creativo: «Dio diede loro il suo giardino / di vita sempreverde / animali frutti in abbondanza / la soleggiata eternità».


XXVI domenica del tempo ordinario – 26/09/2021
“Un bicchier d’acqua”

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«Dar da bere agli assetati» è una delle sette tavolette che il Maestro di Alkmaar ha realizzato ad olio, nel 1504 (vedi base della colonna di destra), per il polittico «Opere di misericordia», su commissione dei reggenti dell’Ospizio dello Spirito Santo dove rimase fino alla chiusura dell’Ospizio (1575) quando fu posto nella chiesa di S. Lorenzo, sempre ad Alkmaar. Prima d’essere acquistato dal Rijksmuseum di Amsterdam all’inizio del 1900, per quattro secoli, in epoca sia cattolica sia protestante, è stato di aiuto ai fedeli a vivere la carità verso i bisognosi.

In una città olandese che fa da sfondo alla scena, due coniugi elegantemente vestiti, sotto il porticato di una casa nobile sono intenti a dissetare le persone di un gruppo di poveri, pellegrini, viandanti, mendicanti, storpi. Il marito sta versando nella ciotola acqua da una brocca di metallo mentre la moglie è pronta a passargliene altre due piene. Il primo ad essere dissetato è di certo un pellegrino; lo rivela soprattutto il capo rasato proprio di chi frequentando luoghi di fortuna teme di prendere o ha preso i pidocchi. Gli altri sono in attesa: in primo piano uno storpio e un fanciullo, dietro una mamma con il piccolo figlio in braccio pronta a riempire la piccola giara, accanto due uomini con abiti e copricapo diversi. Da un’altra abitazione, sullo sfondo, una donna sta dando da bere a un cieco guidato da un ragazzo. A conferma che gli sposi offrono acqua da bere non per sola filantropia ma secondo la parola di Gesù – «Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa» – dietro e insieme a tutti gli assetati c’è anche il Salvatore che guarda con soddisfazione la coppia intenta ad aiutare. A riprova, oltre alla parola «Gloria» che compare, al centro, sulla base della colonna di sinistra, ecco l’scrizione nera applicata in cera sulla parte inferiore del telaio: «Van spijs ende in dit leven / duistfout zal u weder werden gegeven» (Del cibo e delle bevande in questa vita / riceverai in cambio mille volte).

Quanto è eloquente l’insegnamento di Gesù nel Vangelo (Marco 9,38-43.45.47-48) che all’affermazione di Giovanni: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva» ricorda che non contano appartenenze e condizioni ma «Chiunque» darà da bere un bicchier d’acqua. Hai un bicchiere d’acqua fresca da donare?

Accogliamo la riflessione di Giuseppe Bettoni, sacramentino fondatore di ARCHÉ: «Non è la “crescita” la nostra salvezza, la nostra soddisfazione. La nostra salvezza è l’incontro con l’altro, con il diverso, con lo scismatico, con l’immorale, con il peccatore, con chi riteniamo sia distante da noi…».


XXV domenica del tempo ordinario – 19/09/2021
“Qualità di chi segue Gesù”

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Gesù frequentemente capovolge il modo di pensare e di agire. Nel mondo antico i bambini, pur essendo amati, erano considerati senza diritti e anche al tempo del Nazareno non godevano di grande considerazione. Per di più erano distanziati dai rabbì che si sentivano infastiditi. Da qui si comprende l’intervento degli apostoli che cercano di allontanarli dal loro Maestro.

È sorprendente il brano evangelico (Marco 9,30-37). Arrivati in casa, a Cafarnao, Gesù chiede ai dodici: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». E al loro silenzio, perché «avevano discusso tra loro chi fosse il più grande», il Maestro interviene dicendo: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». A questo punto ecco il gesto che sconvolge le regole, le usanze, i dodici. «E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”». Gesù non solo non è infastidito dai bambini ma ne presenta uno ai suoi additandolo come modello del discepolato da cui imparare. Egli infatti è in grado di stabilire immediatamente una relazione buona con Dio.

Nell’opera di Carl Heinrich Bloch «Gesù e i bambini», dipinta ad olio su rame, è raffigurato il contatto che il Cristo stabilisce con i piccoli, prendendoli per mano e stringendoli a sé. La tavola fa parte delle ventitré che il pittore realizzò (1865-1879) su ordinazione di Jacob Christian Jacobsen che con il figlio Carl diede inizio nel 1847 alla «Carl-sberg», una delle più importanti società produttrici di birra. Le opere, con varie scene della vita di Cristo, dovevano adornare la sedia da preghiera del re nella Cappella del Palazzo Frederiksborg a Copenaghen. Gli originali a tutt’oggi lì presenti, sono diventati popolari come illustrazioni e, grazie ai discepoli dell’artista, si conoscono in numerose copie. Bloch rappresenta Gesù, seduto mentre abbraccia un bimbo e ne tiene per mano un altro alla presenza della mamma e della nonna. Sulla destra, davanti a un gruppo di varie persone, un apostolo guarda sorpreso il gesto del Maestro e cerca di ascoltarne le scioccanti parole. Siamo in uno spazio popolare: a sinistra, nel cesto a terra c’è del cibo, a destra un ragazzino tiene in mano una bandiera da gioco, in alto su un filo stanno appoggiati dei teli di vario colore.

Giovanni Pascoli così conclude la poesia Gesù.
«Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
-Il figlio- Giuda bisbigliò veloce-
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra ‘piedi:
Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà.- Ma il Profeta, alzando gli occhi,
-No- mormorò con l’ombra nella voce,
e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi».


XXIV domenica del tempo ordinario – 12/09/2021
“Come vivere”

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Al tempo di Gesù, come oggi, numerose persone avevano un’alta opinione del Maestro di Nazaret. Qualcuno lo identificava con Giovanni Battista risuscitato e altri con un grande profeta come Elia ma il Cristo vuole una risposta personale e – come narra l’evangelista Marco (8,27-35) – chiede ai suoi: «Ma voi, chi dite che io sia?». Alla stessa domanda chissà quante risposte differenti oggi potrebbero giungere al Signore… Pietro ci fa scoprire chi è veramente Gesù: «Tu sei il Cristo», cioè il Messia annunziato dai profeti e atteso dalle genti, l’inviato del Padre, il Salvatore e Signore, il Figlio di Dio, nato da Maria.

Pietro era lontano dal comprendere la portata della sua risposta di fede al punto di rimproverare Gesù. Di fatto, il Maestro, subito dopo mostra all’apostolo, agli altri discepoli e alla folla come la professione di fede deve tradursi nel vivere quotidiano: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua». Quindi l’unica via per seguire Gesù è quella scelta da Lui: la via della croce, vivere intensamente la vita con amore fino al punto di donarla.

Nell’agosto del 2015 Jan Fabre (Anversa, 1958), ha scelto di collocare su una terrazza del palazzo vescovile d’inizio 1700, ora sede del Governo della Provincia di Namur, «L’Homme qui porte la croix» (L’uomo che sorregge la croce), scultura realizzata a grandezza naturale in bronzo dorato, eccetto la croce, in legno. Quando lo zio accompagnò il bambino Jan a vedere per la prima volta il trittico «La Deposizione» di Rubens nella Cattedrale di Anversa, l’artista confessa d‘essere stato folgorato e di aver creato la scultura nel 2014, per contribuire a rinnovare il dialogo tra la Chiesa e l’arte.

L’opera, autoritratto dell’artista, presenta un uomo con lo sguardo puntato in avanti, in movimento sull’ampio balcone del grande edificio, intento a portare in equilibrio una croce sul palmo della mano, a simboleggiare la precaria armonia tra materiale e spirituale, una costante ricerca dello scultore belga. Certo che sarebbe molto più facile camminare senza croce ma questa costringe a tenere lo sguardo verso l’alto in ogni momento. Da Fabre l’insegnamento che la croce chiede sì d’essere portata ma nel contempo fa da guida, aiuta a discernere e impreziosisce la vita.

Gesù non ci dice: «Se stai con me non avrai croci da portare, ti tolgo la sofferenza, ti elimino la sofferenza». Lui che non ha evitato la sofferenza, la sa condividere e ci sostiene affinché diventi sempre di più spazio in cui stare con dignità, atto d’amore e promessa di risurrezione.

«Chi porta la croce non è una figura divina – ha dichiarato l’autore – è un uomo come noi che si pone domande e riflette, non ha certezze, risposte assolute. La scultura simboleggia la continua ricerca spirituale».


XXIII domenica del tempo ordinario – 05/09/2021
“Apriti!”

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Martedì è stato l’anniversario della morte a questa vita del cardinale Martini (31.8.2012). Da arcivescovo di Milano (1980-2002) scrisse la Lettera programmatica 1990-1991 «Effatà, Apriti», dedicata ai fondamenti teologici e agli aspetti spiritual ed esistenziali del comunicare. Con ammirazione rileggiamo la parte introduttiva a commento della guarigione del sordomuto raccontata in Marco 7,31-37.

«Dividiamo il racconto in tre tempi.

  1. La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo. È uno che non sente e che si esprime con suoni gutturali, quasi mugolìi, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù.
  2. Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui. Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza. Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti. A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana. Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!”. È il comando che la liturgia ripete nel Battesimo degli adulti e dei bambini.
  3. Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si aprirono gli orecchi”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritrovata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”)».

Leggiamo il racconto evangelico nell’icona recente, «scritta» forse da un italiano (le F di «Effatà» non sono né in greco né in slavo), con riferimenti simbolici assenti in altre icone dello stesso soggetto. Il Maestro, dall’aureola con la croce dipinta dentro, sulla quale compaiono le lettere «O ΩN» (colui che è), avvicina la mano alla testa del sordomuto per guarirlo. Come in ogni icona del Cristo, le abbreviazioni in greco «IC XC», poste in alto, stanno per «Gesù Cristo». Sullo sfondo, al centro, si vede la croce verdeggiante da cui sgorgano fiumi d’acqua viva, con ai piedi il teschio di Adamo, a rappresentare tutte le persone salvate dal sangue del Cristo. Il disco dorato potrebbe riferirsi a quel profondo sospiro di Gesù prima dell’«Effatà».

Il card. Martini, così concludeva il commento biblico: «La capacità di esprimersi [del sordomuto guarito] diviene contagiosa e comunicativa… La parola s’espande come l’acqua che ha rotto le barriere d’una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine».


XXII domenica del tempo ordinario – 29/08/2021
“Per Gesù la priorità è il cuore”

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Conservatori o progressisti? Quante volte compare nelle conversazioni, nei notiziari, negli articoli di ambito civile o ecclesiale questo modo di argomentare e di descrivere posizioni, gruppi, partiti. E si dimentica che ogni «etichetta» può raccontare solo una parte di ogni evento, piccolo o grande che sia. Oggi, come ai tempi di Gesù, ci si scontra tra chi guarda con nostalgia al passato e chi freme per cambiare tutto e subito.

Nel brano di Vangelo secondo Marco (7,1-8.14-15.21-23) Gesù sollecita gli scribi (gruppo di uomini esperti nella trasmissione dei testi e delle tradizioni religiose d’Israele) e i farisei (gruppo politico-religioso giudaico che promuoveva una osservanza rigorosa della legislazione mosaica sia nell’ambito personale sia in quello sociale) ad evitare il pericolo di dare più importanza alla forma che alla sostanza.

Queste persone che sostenevano la necessità di riti, pratiche religiose, obblighi e proibizioni, dopo aver «visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate», interrogano Gesù: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».

Sul Maestro di Nazareth, venuto per dare la vita a tutti e che si trova a discutere di mani lavate o no, di pulizia di bicchieri e di stoviglie, rileggiamo l’opera dipinta ad olio nel 1817 da Jean Augustin Franquelin, dal titolo «Cristo discute con i farisei» e visibile nella Cattedrale di San Graziano di Tours (Francia). La conversazione è vivace e partecipata. All’ingresso forse del tempio, attorno a Gesù, al centro, con un luminoso manto bianco, sono raffigurate persone in movimento, vestite con abiti di colori diversi e vivaci, indaffarate a parlare molto anche con le mani, quasi nel tentativo di convincere il Rabbì. Questi, con la destra sul cuore e la sinistra in alto ad indicare il Padre, sta fissando il suo principale interlocutore proponendo a lui, ai compagni e a noi la strada autentica del come vivere di fronte alla legge e a Dio: dall’esteriorità all’interiorità, dalle cose al cuore. Tra i presenti l’ha ben compreso colui che, sorpreso dalle parole di Gesù – «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Dal cuore degli uomini, escono i propositi di male» – guarda verso l’alto e del quale intravvediamo il volto accanto all’avambraccio sinistro del Nazareno.

Accogliamo due saggi consigli di vita.

Agostino, morto ad Ippona nel 430, in un suo «Sermone» (34,7): «Interrogate il vostro cuore, vedete quanto amore si trova in voi e accrescetelo. L’amore che hai dentro di te costituisce il valore della tua stessa persona». Isacco della Stella, il grande abate cistercense del XII secolo: «Il criterio ultimo di ciò che deve essere conservato o cambiato nella vita della chiesa è sempre l’agàpe, la carità».


XXI domenica del tempo ordinario – 22/08/2021
“Liberi di andare o restare”

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Il Servizio nazionale di pastorale giovanile della Chiesa Italiana scelse questa immagine/logo per accompagnare i giovani nel cammino di due anni verso il Sinodo dei Giovani che si concluse a Roma (Circo Massimo) l’11 e il 12 agosto 2018 con l’intervento di Papa Francesco.

Sotto l’immagine fu stampata la frase: «Volete andarvene anche voi?» tratta dal Vangelo secondo Giovanni (6,60-69) che fa parte della conclusione del discorso sul pane della vita in cui Gesù più volte ribadisce: «Chi mangia questo pane vivrà in eterno». Infatti molti del gruppo dei discepoli che lo stanno ad ascoltare esprimono perplessità: «Questa parola è dura!».

Gesù si comporta anche qui come altre volte. Vuole infatti degli amici convinti e non dei servi (cfr 15,15), attende la risposta di persone libere e per questo non si meraviglia che «da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui».

La tavola è stata dipinta dall’artista Giuseppe Sala, sacerdote della diocesi di Bergamo, da anni impegnato anche nel servizio del commento artistico a brani biblici. L’opera racconta dell’incontro decisivo di due discepoli di Gesù con il loro Maestro, all’ingresso di una casa indicato dal segno curvo che delimita una parete. Sguardi ravvicinati, parole decisive, risposte determinanti tra i personaggi caratterizzati da colori pieni e intensi. È il momento della decisione in risposta alla domanda del Nazareno rivolta questa volta ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». L’artista ha «scritto» il momento della scelta ponendo i due sulla soglia: stare con Gesù ed entrare nella sua casa, nella sua famiglia oppure non entrare e andarsene. Il Maestro rivela nel volto un atteggiamento deciso a non attenuare la proposta anche di fronte alle paure e alle riserve dei suoi, come se dicesse: «siete liberi di andare o di restare, ma scegliete secondo quanto sentite dentro». È il rischio della fede che non nasce alla fine di una dimostrazione o di un ragionamento ma, come l’amore, si concretizza nel fidarsi e affidarsi perché tutta la persona – corpo, sentimenti, volontà, intelligenza, cuore – è coinvolta.

Alla fine Pietro dà una risposta straordinaria che può diventare la mia, la tua, la nostra: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto che tu sei il Santo di Dio». Oso ridire la risposta del primo Papa: «In qualsiasi situazione, solo tu, Signore, ci riempi la vita, solo da te giungono parole e gesti che aiutano a stare nella storia e a costruire il futuro con speranza. Dove vuoi che vada. Ti seguo e sto con te!».

Concludo con la pungente finale di un articolo di Antonio Zaccuri: «Essere cristiani è un rischio, un magnifico, umanissimo rischio. Grandioso, come ogni domanda che sappia incrinare la durezza del nostro cuore».


Solennità dell’Assunta – 15/08/2021
“Due luci sole che saliro”

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«Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro».

Sul finire del canto XXV (v. 127-129) del Paradiso appare san Giovanni evangelista che, a Dante incuriosito, smentisce la leggendaria sua assunzione in Paradiso prima della morte e poi dichiara che solo Cristo e Maria («le due luci») hanno avuto il privilegio di ascendere in Paradiso («beato chiostro») prima della fine del mondo col corpo e con l’anima («con le due stole»). Su sollecitazione dell’apostolo – «e questo apporterai nel mondo vostro» – il poeta afferma che solo Cristo e Maria sono stati assunti in cielo con i corpi mortali. Teniamo presente che il dogma dell’Assunzione della Vergine è stato definito nel 1950.

Già nel canto XXIII a Dante è concesso di gustare un anticipo di Paradiso. Cristo infatti gli appare come un sole che illumina un giardino fiorito in cui brilla Maria, «la rosa in che ‘l verbo divino / carne si fece», in mezzo agli apostoli, «li gigli / al cui odor si prese il buon cammino» (v. 73-75). Nei versetti a seguire l’arcangelo Gabriele scende dall’alto sotto forma di luce dichiarando che continuerà ad onorare la Vergine girandole attorno a mo’ di corona al canto de «la circulata melodia» mentre l’accompagna dietro al Figlio risalente all’Empireo, come un’Assunzione dopo l’Ascensione: «seguirai tuo figlio, e farai dia / più la spera suprema perché lì entre» (v. 197-108).

Contempliamo «L’Assunzione» realizzata con tecnica divisionista da Gaetano Previati – olio su tela del 1903, al Museo dell’Ottocento di Ferrara – dopo aver studiato per un decennio il tema a lui caro. In uno spazio divino dove si leggono solamente brani di cielo e gruppi di angeli, Maria è raffigurata al centro del dipinto, in alto, con le mani e il volto rivolti al cielo perché attirata da Dio che l’ha creata. Ella appare come una luce dall’andamento ascensionale grazie al tratto filamentoso e ondulato del movimento del pennello che caratterizza pure gli angeli ai piedi della Vergine, i due che le fanno da corona a sinistra e a destra e, sullo sfondo, in ombra, le due schiere angeliche sovrapposte. L’illuminante visione costruita da un intreccio di colori (dai giallo-rosa agli azzurro-violetti) appare come una suggestione luminosa d’un intenso spessore spirituale.

Nell’opera, da subito definita con un paragone dantesco, una «dolce sinfonia di paradiso», si conferma la scelta pittorica e di vita così sintetizzata da Previati: «la mia idea è la liberazione dalla materia e dalla concupiscenza degli occhi. Il mio pennello cerca le vie dell’ascensione».

Imitiamo Dante quando in uno dei rari dati biografici, confida il suo affidamento costante alla protezione di Maria (Paradiso XXIII,88-89): «Il nome del bel fior ch’io sempre invoco / e mane e sera».


XIX domenica del tempo ordinario – 08/08/2021
“I beni superflui rendono superflua la vita”

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La frase di Gesù nel Vangelo odierno (Giovanni 6,41-51) – «Io sono il pane della vita» – ha da subito fatto reagire i Giudei presenti che «mormoravano di lui». La mormorazione è un discorso ostile, solitamente detto a bassa voce, che esprime malumore; è il brontolio di protesta, di malcontento, di critica pettegola e calunniosa. È un vizio più volte descritto nella Bibbia. Se ne parla, tra l’altro, in occasione della traversata del deserto quando il popolo, giunto a Mara, dopo aver constato che l’acqua era «amara», «mormorò contro Mosè» (Esodo 15,24). Mosè stesso definisce questa e le altre come «mormorazioni» (16,8). Fin dal primo anno del pontificato, anche papa Francesco più volte è intervenuto a condannare questo malcostume ricorrente pure nelle comunità e nelle curie.

Ai Giudei che mugugnano riconoscendo in lui solo il figlio di Giuseppe e un uomo come loro, Gesù risponde: «Non mormorate tra di voi» e cerca di spiegare il perché affermando: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Come se il Maestro dicesse ai suoi e a noi che, a causa della ristrettezza di vedute, non si è in grado di accogliere da Dio i suoi doni sempre gratuiti, in quanto si ragiona secondo la mentalità del «tutto deve avere un prezzo», in particolare se si tratta di realtà determinanti.

Nell’immagine dell’opera «Pane nelle mani» – tempera e collage su carta e tela – dell’artista contemporaneo Safet Zec, un grande pane spezzato occupa la scena centrale. Le mani di un uomo sposato porgono ad ogni persona come cibo da mangiare del pane, dipinto con la crosta fragrante e la mollica luminosa quanto il panno d’intorno. Come nelle altre opere il pittore bosniaco conferma di prediligere la raffigurazione dell’umanità in cerca di un cibo particolare che le permetta di crescere in com-pagnia (cum-panis) anche nella fragilità di un’esistenza, sempre desiderosa di comunicare. Di traverso compaiono infatti un piccolo ritaglio di pagina stampata e una parte di lettera, scritta a mano, forse da Verona, per uno sconosciuto destinatario.

Zec non mostra il volto dello «Sposo» che, secondo la Bibbia, ama sempre e comunque il suo popolo, e si propone a tutti in ogni momento come «il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia». Il Nazareno si offre ad ogni persona, quale «pane vivo, disceso dal cielo» e promette: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Pier Paolo Pasolini considera che «Gli uomini del mondo contadino non vivevano un’età dell’oro, ma l’età del pane… I beni superflui rendono superflua la vita».


XVIII domenica del tempo ordinario – 01/08/2021
“Pane per vivere”

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I cinque pani e i due pesci in primo piano che compaiono nell’opera di Sieger Köder «A tavola con gli esclusi», ricordano il «segno» di Gesù narrato da Giovanni nella prima parte del capitolo 6 del Vangelo quando, di fronte al problema di sfamare la folla che seguiva il Maestro, Andrea segnala la presenza d’un ragazzo con la merenda. «Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano».

Il pittore tedesco nel 1996 «scrive» con i colori una provocatoria lettura del brano evangelico (6,24-35), applicandolo alla nostra realtà. Gesù è interpellato dalla gente che chiede: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». A loro e a noi egli risponde: «non è Mose che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
A questo punto, Köder raffigura gli effetti che la richiesta della gente a Gesù – «Signore, dacci sempre questo pane» – è in grado di ottenere anche oggi.

Sono molto differenti le persone attorno alla mensa che, illuminata dalla luce del capo-tavola, sembra prolungarsi per accogliere chi si affida e si lascia coinvolgere dal Maestro quando afferma: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». Il pane è spezzato da Colui che dalle mani con il segno dei chiodi, mostra la propria identità confermata dal volto riflesso dal vino-sangue nella coppa ripiena. In alto a destra, una donna si appoggia a Gesù e ritrova sostegno e conforto come esprime il volto disteso. Il ragazzo sotto di lei si aggrappa al tavolo per comprendere che cosa accade, mentre, protetto dalla mamma, rivolge gli occhi in alto, a Gesù. Il papà, in primo piano, con l’abito dei campi di concentramento, per vivere sta bevendo, tutto concentrato, quanto ha proposto il Cristo.

I due innamorati sulla sinistra sono in vicendevole, tenera contemplazione rendendo così credibile il comandamento dell’amore – «amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (15,12) – alimentato all’eucarestia. La prima delle altre due persone, con una fetta di pane in mano, sta guardando, come la seconda, a Gesù mentre dalla bocca di entrambe spunta una domanda o un grazie.

Di Teresa di Calcutta la riflessione finale. «Gesù viene in ciascuna delle nostre vite come pane di vita…per farsi mangiare, per farsi consumare da noi. Ecco come ci ama».


XVII domenica del tempo ordinario – 25/07/2021
“Fiat panis”

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L’imperativo «Fiat panis» (Che ci sia il pane) con le lettere FAO attorno a una spiga di grano, forma il logo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura

Ai tempi di Gesù come oggi, la parola «pane» significava sia il pane che il cibo in generale. Dentro tutti i suoi significati c’è il lavoro quotidiano di uomini e donne e il dono di sé per provvedere alle loro famiglie. Nella vita ordinaria infatti pasto e sacrificio sono sempre collegati.

Con Gesù che dà da mangiare a una grande folla (1-15), si inizia la lettura del capitolo 6 del Vangelo secondo Giovanni. Tenendo in una mano il testo evangelico e nell’altra la riproduzione di una delle tante opere d’arte ispirate dal brano giovanneo, rigustiamone la prima parte del sesto capitolo.

Leggiamo quindi la «Moltiplicazione dei pani e dei pesci» dipinta ad olio su tavola da Ambrosius Francken I, detto il Vecchio nel 1598, oggi ad Anversa. Nella grande pala d’altare (altezza 280 cm; larghezza 212 cm) troviamo la narrazione del miracolo – da Giovanni chiamato «segno» – operato da Gesù e presente in tutti e quattro i Vangeli. Da buon fiammingo il pittore sottolinea ogni particolare di una grande scena dove Gesù appena salito sul monte, si siede e dopo aver visto che una grande folla sta venendogli incontro, mette alla prova Filippo dicendo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?».

Francken ci invita a comprendere lo svolgersi dei fatti secondo il Vangelo mettendo al centro in primo piano sulla sinistra del Maestro proprio l’apostolo interpellato che si gira per chiedere aiuto agli altri, pure loro molto preoccupati. Dall’altra parte, con l’abito verde, interviene Andrea, fratello di Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Eccolo il ragazzo con il contenuto della merenda sulla quale il Maestro, dopo aver fatto sedere sull’erba gli uomini in numero di cinquemila circa, sta facendo scendere la benedizione: «Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano».

Guardiamo a destra, in alto e a sinistra, dietro il gruppo centrale: uomini, donne e bambini, seduti ordinatamente lungo il pendio collinare, stanno mangiando. Di particolare efficacia, sulla sinistra in primo piano, la mamma che guardandoci sta dando un pezzettino di pane al figlio in spalla. Sullo sfondo, al centro del quadro alle dieci ceste pieni di pezzi avanzati, da destra e da sinistra se ne stanno aggiungendo altre due.

Da Gesù attento a sfamare la gente, impariamo che, come afferma Miskin, il protagonista del romanzo «L’idiota» di F. Dostoevskij, «La compassione è la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera».


XVI domenica del tempo ordinario – 18/07/2021
“Si può fare deserto anche in città”

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Gli apostoli ritornano dal Maestro dopo la prima esperienza missionaria e riuniti attorno a lui «gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato». Così comincia il brano del Vangelo secondo Marco (6,30-34). Gesù ascolta con attenzione i racconti dei discepoli emozionati, stanchi ma contenti e, avendo constatato fatiche e difficoltà, dice: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». I dodici sperimentano che il loro Rabbì dà importanza prima alla persona e poi alle azioni compiute. La situazione richiedeva una pausa: «Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare».

Allora gli apostoli con il loro Maestro «andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero».

La scrittura ad olio su tela che Jason Jenicke fa di questa potente scena evangelica – «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» – coinvolge ogni visitatore come se fosse all’interno della numerosa folla dipinta con dettagliata interpretazione. «Non avevo intenzione di fare mai arte religiosa. Ma man mano che la mia fede cresceva, la mia arte praticamente la seguiva», ha dichiarato Jenicke. L’artista nato nel 1978 a Kansas City, crea anche in quest’opera con energia e con una tecnica realistica come in tante altre scene tratte dal testo biblico e ti fa sentire quasi fossi lì. Le persone e il paesaggio, il lago e la riva, i villaggi e le colline sono fedelmente rappresentate.

Quando soprattutto in questi mesi si parla di prendersi qualche giorno per riposare un po’, vuol dire «andare in vacanza». Per gli apostoli invece significava «stare con Lui», recuperare cioè la propria identità.

Carlo Carretto, dopo l’Azione Cattolica e il deserto, si fa monaco a Spello. Durante un viaggio a Hong Kong, è colpito dalla richiesta di un giovane: «aiutami a pregare nella mia città». Accogliamo un passaggio dal libro «Il deserto nella città», nato da quell’incontro (1977). «Considera la realtà in cui vivi, l’impegno, il lavoro, le relazioni, le adunanze, le camminate, le spese da fare, il giornale da leggere, i figli da ascoltare, come un tutt’uno da cui non puoi staccarti, a cui devi pensare. Dirò di più: un tutt’uno attraverso il quale Dio ti parla e ti conduce. Non è fuggendo che tu troverai Dio più facilmente ma è cambiando il tuo cuore che tu vedrai le cose diversamente. Il deserto nella città è solo possibile a questo patto: vedere le cose con occhio nuovo, toccarle con uno spirito nuovo, amarle con un cuore nuovo».


XV domenica del tempo ordinario – 11/07/2021
“Testimoni più che maestri”

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«L’annuncio del Vangelo si attua come quando si versa l’acqua in un bicchiere. Se non si smette di versare, è proprio dell’acqua superare l’orlo e tracimare bagnando tutto quanto sta intorno». Con questo felice esempio mons. Giulio Oggioni, il compianto vescovo di Bergamo, amava descrivere il significato di evangelizzare e il modo di testimoniare il Vangelo, escludendo così di ridurlo unicamente all’obbligo, al dovere, all’impegno. Per la persona cristiana, l’evangelizzare nasce dalla gioia di aver scoperto Cristo e, come ovvia conseguenza dell’incontro, annunciarlo a chiunque con la vita non tanto per convincere ma per condividere un dono prezioso. Un profeta è infatti autorevole quando traspare coerenza tra ciò che dice e ciò che vive.

Dopo aver presentato Gesù che sceglie i dodici perché stessero con lui, l’evangelista Marco (6,7-13) ne descrive la missione sottolineando più le modalità che i contenuti dell’annuncio: «Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri». Sin dall’inizio il Maestro coinvolge i suoi in una esercitazione che alla fine si tradurrà nell’incarico ad essere per sempre «apostoli», termine che significa proprio «inviati», «mandati».

«E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche». Gesù non consiglia ma ordina ai discepoli di prendere solo quello che è necessario per camminare, forti del fatto d’essere inviati, pronti a testimoniare quanto hanno visto e udito stando con il Maestro, aiutandosi vicendevolmente. Ha da essere un andare tra la gente liberi e leggeri, senza denaro, potere e forza perché non c’è da conquistare o comperare alcuno.

Quanta attenzione e tensione leggiamo nell’olio su tela «Gesù e cinque apostoli» dipinto tra il 1937 e il 1938 da Georges Rouault e ora al Metropolitan Museum of Art di New York. Attorno al Maestro, concentrati e attenti, tutti sono assai vicini al volto di lui che con gli occhi chiusi tace dopo aver appena concluso la consegna prima della partenza. Il Cristo di Rouault delineato con larghi segni neri, tratteggiato in contorni di un Dio fattosi davvero uomo, interroga e dialoga silenzioso non solo con i suoi ma anche con chiunque lo guardi. Contempliamo gli apostoli. Raffigurati a mezzo busto come il Maestro, con colori forti e stesi a più mani per ottenere la densità corporea, i cinque sono definiti da densi tratti neri.

Al giornalista francese Georges Charensol, desideroso di dedicargli una monografia, il pittore francese ha scritto, tra l’altro: «Non parlate di me se non per esaltare l’arte. Sono l’amico silenzioso di quelli che penano nel solco profondo. Cristiano, io non credo, in tempi così calamitosi, che a Gesù sulla croce. Cristiano di tempi antichi».


XIV domenica del tempo ordinario – 04/07/2021
“Dio ha bisogno di uomini e donne”

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«E si meravigliava della loro incredulità», scrive l’evangelista Marco (6,1-6) esprimendo la reazione interiore di Gesù al modo in cui i compaesani lo consideravano non trovando in lui alcuna differenza da loro: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria?». A noi sembra strano che i nazaretani non si fidino di Gesù e non riescano a credere in lui perché era uno di loro, perché non aveva studiato per diventare rabbì, perché non aveva niente di straordinario. Lo conoscevano sin da piccolo quando giocava con gli altri bambini, l’avevano visto diventare grande quando aiutava Giuseppe da falegname e, proprio per tutto questo, non riuscivano ad accettare come potesse essere diverso da quello che percepivano. Conclusione: «Ed era per loro motivo di scandalo».

Fa pensare a dove può condurre l’essere «abituati» a Gesù e alla Sua parola: non aprirsi alle novità, non accettare che possa succedere qualcosa di nuovo, non credere che Dio possa agire oltre e fuori dei nostri schemi. Ogni persona è molto più di quel che vedo e conosco, molto più della professione e della storia della sua famiglia!

Il principale pittore simbolista Odilon Redon ha realizzato nel 1980 «Il Cristo del silenzio», un pastello – ora al Musée du Petit Palais di Parigi – che rivela la scelta artistica di esplorare i sentimenti profondi. Tra l’altro dichiarò: «I miei disegni ispirano, e non devono essere definiti. Essi ci pongono, come fa la musica, nel regno ambiguo della indeterminatio». L’artista raffigura il Maestro che, circondato da una larga e intensa aureola dal colore divino da cui traspare l’azzurro del cielo, ad occhi chiusi e pensieroso, esprime sconforto toccando il labbro inferiore con il pollice destro. In una composizione ricca di spiritualità e carica di interiorità, quello di Cristo è un silenzio «parlante» del conflitto interiore provocato in lui dai concittadini. Pur consapevole che «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua», Gesù resta sorpreso dalla chiusura della sua gente a riconoscerlo come il Figlio di Dio, ad aderire a lui e quindi a seguirlo. E siccome la Bibbia parla di un Dio che, per primo, ama l’uomo e perciò ne va in cerca e che Dio non obbliga a credere perché sempre si propone e mai si impone, Gesù, suo malgrado, a Nazareth «non poteva compiere nessun prodigio» e quindi, va nei «villaggi vicini insegnando».

Mi ricordo di un film visto da adolescente, «Dieu a besoin des hommes», premiato alla XI Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, realizzato nel 1950 da Jean Delannoy. Il regista spiegava così il senso del titolo: «È una frase un po’ curiosa, lo ammetto. Ma vi credo sinceramente, credo che il Vangelo è soprattutto Dio che cerca di suscitare negli uomini una responsabilità personale».


XIII domenica del tempo ordinario – 27/06/2021
“Àlzati e cammina”

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Per il funzionamento della Sinagoga – il luogo di culto d’ogni comunità ebraica – c’era un solo responsabile, aiutato da altri chiamati «capi». Dal brano di Vangelo secondo Marco (5,21-43) sappiamo che Giàiro, uno di questi membri illustri, si prostra ai piedi di Gesù supplicandolo «con insistenza: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”». È la prima volta che un responsabile della religione ebraica compie pubblicamente tale gesto, dettato dalla disperazione di un padre in cerca d’aiuto per la figlia dodicenne che «è agli estremi» (letteralmente dal testo greco). Ancor oggi nelle comunità ebraiche si entra nella maturità religiosa con la celebrazione detta «bat mitzvah» (figlia del precetto) per le ragazze al compimento di dodici anni più un giorno e «bar mitzvah» (figlio del precetto) per i ragazzi al compimento dei tredici anni più un giorno. La ragazza e il ragazzo diventano così responsabili del proprio agire nei confronti della legge ebraica.

Gesù, davanti al padre gettatosi ai piedi in segno di rispetto e di fiducia, prende subito la decisione di andare con lui. Dopo aver rincuorato e guarito la donna che aveva una perdita di sangue, il Maestro riprende il cammino per raggiungere la figlia di Giàiro, quando «dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”». Ma Gesù rincuora il papà: «Non temere, soltanto abbi fede!».

«Leggiamo» il seguito del racconto sulla tela «La resurrezione della figlia di Giàiro», dipinta nel 1866 da Albert Von Keller e custodita nella Neue Pinakothek di Monaco. Gesù è nella casa della ragazza e rimprovera la gente: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». L’artista tedesco ci racconta il momento in cui il Maestro, vestito di rosso – il colore dell’amore e della passione – con tenerezza prende la mano della ragazza, quasi per aiutarla ad alzarsi dopo il sonno e le ordina: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». Questa, dal pallore cadaverico, si sta riprendendo dal sonno e, mentre si solleva dal supporto di legno sul quale era stata adagiata, avvolta dal bianco sudario, ha appena aperto gli occhi e guarda ai genitori che increduli si sostengono a vicenda abbracciandosi. Due donne si coprono la faccia appoggiandosi sul tavolone, un’altra si mette le mani attorno al capo, una terza tende il braccio verso la miracolata. Tutti gli altri personaggi – con gli occhi fuori delle orbite per la meraviglia – si rivolgono alla giovinetta e al Maestro presi da stupore e incredulità. Le tre corone di alloro in evidenza, rimandano all’immortalità, all’eterna vita della Trinità.

Facciamo nostro l’augurio di san Girolamo: «Che Gesù voglia toccare anche noi, e subito ci metteremo a camminare».


XII domenica del tempo ordinario – 20/06/2021
“In ogni crepa la luce passa”

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La canzone «Hallelujah» composta da Leonard Cohen nel 1989 e rifiutata dalla Columbia, fu conosciuta grazie all’incisione che John Cale dedicò al compositore nel 1991.

Nella splendida ballata oggi conosciuta in più di trecento versioni, l’artista ebreo canadese, morto nel 2016, ci lascia un testo intriso di citazioni bibliche dell’Antico Testamento. A metà della terza strofa, scrive: «C’è un’esplosione di luce / in ogni parola / E non importa se tu abbia sentito la sacra o la disperata / Hallelujah». Affermazione resa ancora più evidente attraverso un’efficace immagine inserita in «Anthem», la canzone del 1992: «C’è una crepa in tutte le cose, / è così che entra la luce».

Il brano di Vangelo secondo Marco (4,35-41) – rileggiamo o riascoltiamo l’indimenticabile meditazione tenuta da papa Francesco proprio a partire da questo testo, la sera di venerdì 27 marzo 2020 nella deserta piazza S. Pietro – viene in aiuto alla ricerca di luce oggi, dove fragilità, dolore, morte hanno lasciato le nostre vite come dopo una tempesta. Gli apostoli, all’imbrunire, sono con Gesù su una barca per spostarsi sulla riva opposta del lago di Tiberiade quando «Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena».
Continuiamo la lettura del testo evangelico attraverso l’opera pittorica «Cristo nella tempesta sul mare di Galilea» realizzata dal ventisettenne Rembrandt (1633) ed esposta dalla fine dell’800 a Isabella Stewart Gardner Museum (Boston), fino al furto (18.3.1990). La scena rappresenta il momento in cui Gesù «se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora [i discepoli] lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”».

L’artista olandese ci presenta in forma geniale due modi di reagire alla bufera da parte deli apostoli, raffigurati come ognuno di noi, persone normali. Alcuni, atterriti, fidandosi delle proprie forze e dell’esperienza, lottano in tutti modi per vincere la tempesta e riuscire a guidare la barca (a prua, due cercano di ammainare la vela già strappata, tre si affaticano disperatamente attorno all’albero maestro, quello di schiena se ne sta accovacciato, un altro vomita sporgendosi dalla barca, dall’altra parte uno resta immobile preso dal terrore mentre il timoniere, sotto sforzo, sorpreso, guarda Gesù che sta per essere svegliato). Di contro, gli altri tre sono attorno al Maestro: uno lo sveglia, l’altro chiede aiuto, il terzo prega con le mani giunte. Oltre ai dodici, un altro personaggio dal volto del pittore, sembra ricordare le parole di Gesù («Perché avete paura? Non avete ancora fede?») mentre guardandoci chiede: «E tu, come affronti la tempesta?».

«C’è una crepa – ha commentato Cohen – in ogni cosa. Ma è proprio lì che la luce entra e permette la resurrezione, è lì che nasce il confronto con le cose che si rompono e il pentimento».


XI domenica del tempo ordinario – 13/06/2021
“Le grandi cose cominciano sempre dalle piccole”

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«Siete invitati negli abissi della terra, a 329 metri di profondità, per la presentazione del libro di Pietro Spirito “Nel fiume della notte”». Incuriosito da questo annuncio apparso in internet qualche anno fa, lessi per intero la notizia. C’erano venti posti per partecipare con l’autore, nel sottosuolo, alla conoscenza della storia del fiume Timavo già noto a Strabone a Virgilio. Dalle sue sorgenti, alle pendici del Monte Nevoso in Croazia, fino alle foci nell’Adriatico, vicino Trieste, il fiume percorre circa ottantasette km, attraverso Croazia, Slovenia, Italia. Dopo quaranta chilometri nascosto sul fondo di abissi assai profondi, il Timavo riappare, con tre sorgenti, a San Giovanni di Duino-Aurisina, a circa due chilometri dal punto in cui si tuffa nel mare. Pure quando non vediamo o non riusciamo a controllare, l’acqua scava il suo letto e scorre fino al mare anche attraverso profondità, laghi sotterranei, risorgive.

Avviene così anche per «il regno di Dio» che, secondo la parabola di Gesù nel brano del Vangelo secondo Marco (4,26-34), è come «un uomo che getta il seme sul terreno». L’azione del contadino sta nel gettare il seme, consegnare alla terra i granellini. Con questo suo unico gesto, determinante ma indipendente dai meriti e dalle conoscenze, egli aspetta fiducioso il tempo del raccolto, «dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa».

Risale alla fine del XII secolo la miniatura «Il seminatore» (particolare), una delle trecentoquaranta contenute nell’«Hortus deliciarum» (Il Giardino delle delizie), compilato in latino da Herrad di Landsberg badessa e scrittrice dell’abbazia di Hohenburg, in Alsazia. L’«Hortus deliciarum», la prima enciclopedia scritta da una donna, riassumeva la conoscenza religiosa e profana dell’Alto Medioevo per promuovere la vita spirituale e intellettuale delle monache a lei affidate nella comunità che guidò ispirandosi all’ordine monastico dei Premostratensi, fondato da san Norberto nel 1120. L’immagine ci presenta un uomo vestito con abiti dai colori vivaci, nell’atto di gettare con la mano destra una manciata di granellini di seme appena presi dall’abbondante quantità custodita nella parte anteriore del mantello. Il contadino è stato miniato di età matura, con i tipici stivaletti medievali, in un movimento leggiadro su un terreno già pieno di semi. Da quel momento il seme inizia il suo percorso sotto terra fino a germogliare senza che l’agricoltore necessariamente conosca il come.

Lasciamoci coinvolgere da seguenti versi di James Maxwell, il massimo fisico dell’Ottocento: «Quando, la mente libera dallo studio, a tarda ora mi sdraio per dormire/Dal cuore dei fatti e dei numeri, in uno spazio sconfinato balzo;/perché il mondo interiore si fa più ampio mano a mano che il mondo esterno scompare/e l’anima, ritiratasi verso l’interno, si ritrova oltre le sfere».


Solennità del Corpus Domini – 03/06/2021
“Per la felicità di tutti”

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All’Ateneu Barcellona, nel discorso-confessione intitolato: «Perché ero sacrilego e ora sono mistico» (19.10.1949), Salvator Dalì rivelò d’aver intrapreso da qualche anno un percorso artistico e spirituale che lo aveva portato a superare il surrealismo, movimento da lui fondato, e ad avvicinarsi alla fede cattolica dopo essere stato molto colpito (1946) dalla poesia del mistico san Giovanni della Croce. Il pittore catalano proprio nel 1946 con la «Tentazione di Sant’Antonio», iniziò una serie di opere dichiaratamente religiose.

Il 23 novembre 1949 Dalì presentò a Pio XII la prima versione de «La Madonna di Portlligat». In due occasioni fu ricevuto da Giovanni XXIII: nel 1959 e poi con la moglie Gala (2.5.1960) quando confidò al Papa di voler progettare una chiesa nel Texas, dedicandola all’imminente «Vaticano II», per il quale, nello stesso anno, dipinse «Il Concilio Ecumenico».

Risale al 1955 «Il Sacramento dell’Ultima Cena», il famoso dipinto ad olio che l’eclettico artista realizzò con l’intento di fare de «L’ultima cena» di Leonardo una rappresentazione moderna. A una veloce lettura, l’opera conservata alla National Gallery di Washington pare la «scrittura» su tela del racconto dell’ultimo pasto di Gesù nel Cenacolo, oggi narrato dall’evangelista Marco (14,12-16.22-26). «Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”».

A uno sguardo più attento vediamo Gesù e i suoi incontrarsi in una stanza, un dodecaedro – antico simbolo del paradiso – le cui dodici facce corrispondono agli apostoli. Il Maestro, al centro, senza barba, con i capelli chiari, sembra emergere dall’acqua o meglio farsi trasparente – attraverso di lui si vede una barca -, mentre rivolgendo a sé la mano sinistra, con la destra indica la figura in alto, quasi una citazione della risposta a Filippo che desiderava vedere il Padre: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Giovanni 14,9).

Gesù suggerisce anche a noi di guardare verso l’alto, al grande torso umano, pure lui trasparente, che abbraccia tutti e tutto (cielo, terra, mare). Memore di quanto Dio disse a Mosè – «Nessuno può vedermi e restare vivo» (Es 33,20) – il pittore volutamente ha lasciato il volto del Padre «fuori tela». Le immagini dei dodici, sei coppie speculari di gemelli, i cui volti non sono importanti, risaltano per la preghiera di adorazione diretta verso ciò che sta sull’altare: il vino in un bicchiere e un pane diviso in due.

Presso la National Gallery, Dalí ha lasciato scritto a proposito di quest’opera: «La prima Santa Comunione sulla Terra è concepita come un rito sacro di massima felicità per l’umanità. Questo rito si esprime con mezzi plastici e non letterari».


Solennità della Santissima Trinità – 30/05/2021
“Dio è comunione”

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«La vita del cristiano comincia con la Trinità in quanto battezzati «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Da quel momento almeno ogni giornata del credente si inizia e termina con il segno della croce nell’attesa dell’incontro finale con le tre Persone eterne, in Paradiso. In omaggio all’Alighieri, a 700 anni dalla morte, ricordo come in una sola terzina il poeta tratta del mistero di Dio Trinità: «O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!».

Siamo nel Paradiso (XXXIII, 124-126) quando Dante ha concluso il suo percorso per arrivare a Dio, passando per inferno, purgatorio, paradiso. Il critico letterario Natalino Sapegno così spiega questi versi: «la luce […] in quanto è “intendente” sé stessa è il Padre; in quanto è “intelletta” da sé stessa, il Figlio; in quanto “ama” e “arride” a sé stessa, che intende ed è intesa, è lo Spirito Santo».

Leggiamo il brano odierno, conclusione del Vangelo di Matteo (28,16-20). Gesù risorto da morte, consegna ai discepoli un impegno: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato».

Meditiamo ora la splendida tela «La Santissima Trinità» che Lorenzo Lotto dipinse per la chiesa omonima, posta di fronte alla chiesa di S. Spirito, a Bergamo e demolita nel 1919. Il quadro della chiesa di Sant’Alessandro della Croce, si trova temporaneamente al Museo Diocesano. Con un’iconografia innovativa, ripresa dagli artisti locali (Moroni ad Albino, Salmeggia a Romano di Lombardia), l’artista ci offre l’occasione di riflettere sul mistero trinitario. Al centro, in piedi su un cumulo di nubi, da cui fanno capolino incuriositi cinque cherubini, campeggia il Cristo che ci guarda e ci abbraccia mostrando i segni della crocifissione. Il Figlio è immagine del Padre – «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Giovanni 12,45) – che Lotto raffigura come una presenza diafana da cui scaturisce una luce avvolgente il Risorto e illuminante cielo e terra. Fra i volti del Padre e del Figlio dispiega le ali la colomba, simbolo dello Spirito Santo al cui soffio le vesti del Cristo si muovono disegnando una tenda. L’arcobaleno garantisce l’alleanza fra Dio e il suo popolo e conferma il legame trinitario con la storia umana rappresentata da un dettagliato e abitato paesaggio. È il senso della Trinità: Dio non è in sé stesso solitudine, ma comunione.

Nel primo episodio dei Dieci Comandamenti, Kieślowski racconta d’un bambino che all’improvviso chiede alla zia: «Com’è Dio?». La zia, lo abbraccia, gli bacia i capelli e, tenendolo stretto, sussurra: «Ed ora, come ti senti?». E Pavel, rimanendo abbracciato: «Bene, mi sento bene». E la zia: «Ecco, Pavel, Dio è così».».


Solennità di Pentecoste – 23/05/2021
“Pentecoste. Creativi senza paura”

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«Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli» (effundam spiritum meum super omnem carnem et prophetabunt filii vestri). Questo leggiamo sul cartiglio della parte superiore della «Pentecoste» che Guido di Pietro (al secolo), fra’ Giovanni (religioso domenicano), conosciuto come Beato Angelico ha dipinto (1451-1453) in uno sportello dell’armadio degli argenti della SS. Annunziata di Firenze, ora al Museo San Marco. Il testo, tratto dal libro biblico di Gioele, descrive una realtà meravigliosa, annuncio di speranza dopo l’esilio del popolo da Babilonia. Il profeta vede un’immensa effusione dello Spirito non più solo su alcuni con compiti particolari ma su tutti, senza distinzione di classe, età, sesso: figli e figlie, schiavi e schiave, anziani che «faranno sogni».

Abbassiamo lo sguardo sulla tavola e constatiamo che questa promessa veterotestamentaria si sta realizzando per quanti sono con Maria, al piano superiore, nel Cenacolo. È la Pentecoste! Il racconto dell’effusione dello Spirito Santo (Atti 2,1-11) inizia con: «Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo». Quindi con gli apostoli, i discepoli e alcune donne ci doveva essere Maria, rappresentata al centro, in piedi, con le mani giunte, incantata e rapita. Sul suo capo e su quello dei ventisei uomini e donne, divisi in due gruppi, si posa una fiammella, simbolo dello Spirito del risorto, come scrive Luca: «Apparvero loro lingue come di fuoco che si posarono su ciascuno». I volti dei ventisei riflettono gli effetti dello Spirito: serenità, gioia, convinzione.

Nei discorsi d’addio del Vangelo odierno (Giovanni 15,26-27;16,12-15), Gesù promette: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza». Nella seconda parte della tavola, al piano terra, l’artista dipinge, in corrispondenza a Maria, una porta chiusa, titolo presente anche nelle litanie lauretane, quale «ianua cœli» (porta del cielo). L’opera dimostra la profondità anche teologica del domenicano fra’ Giovanni che completa la narrazione del racconto (Atti 2,4) con la scritta del cartiglio in basso: «tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» (repleti sunt omnes Spiritu Sancto et cœperunt loqui variis linguis). Ed ecco, davanti alla porta di casa, fuori dal cenacolo, cinque personaggi, i cui abiti e i copricapi fanno pensare a diverse provenienze, si mostrano incuriositi e sorpresi quando sentono parlare nella loro lingua quanti stanno nella parte alta della casa. Sul terreno verde, pure la natura dimostra che lo Spirito porta vita, rigogliosa e variegata.

Di una delle sue indimenticabili canzoni – «E ti vengo a cercare» – Franco Battiato sottolineava che la ricerca è sempre del trascendente: «Divini sono, per chi ama, anche una donna o un uomo, a seconda dei casi. Però la tendenza è verso un essere superiore».


Solennità dell’Ascensione del Signore – 16/05/2021
L’inguaribile nostalgia del cielo

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La festa dell’Ascensione è citata in testi antichi del IV secolo, compare negli scritti di Gregorio di Nissa, di Giovanni Crisostomo, di Agostino e la si professa nel Credo «…è salito al cielo, siede alla destra del Padre». Il racconto delle Scritture e la celebrazione liturgica di questo mistero sono frequentemente rappresentati in miniature di codici, in mosaici e in avori a partire dal secolo V.

Nel brano di Vangelo secondo Marco (16,15-20) Gesù risorto fa ai suoi amici le ultime consegne: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura», garantendo la sua presenza attraverso concreti «segni che accompagneranno quelli che credono». L’evangelista poi aggiunge: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio».

Contempliamo per qualche istante l’«Ascensione» narrata da Giotto che a Padova affresca la Cappella degli Scrovegni (1303-1305). La rappresentazione, parte delle «Storie della Passione di Gesù», si trova nel registro centrale inferiore della parete sinistra guardando l’altare. La scena mostra gli undici inginocchiati su un promontorio spoglio, con lo sguardo rivolto verso l’alto, posti a sinistra e a destra di Maria, in preghiera, protesa e rapita dalla visione. Gli apostoli in prima fila nei due gruppi si fanno schermo con la mano per proteggere gli occhi dalla luce accecante che avvolge il misterioso congedo del Risorto.

In alto, su un fondo azzurro, schiere di angeli, sante e santi, da una parte e dall’altra, acclamano Gesù mentre, in candide vesti, dentro una mandorla di luce, sale a poco a poco, coperto dalla nube ai suoi piedi, verso l’alto, quasi nell’atto di «aprire» il cielo, la gloria del Regno. Al centro, due angeli, distaccati da terra, indicano con una mano quanto sta avvenendo sopra di loro e con l’altra invitano gli apostoli a non indugiare troppo nella contemplazione.

Gli undici prima timorosi, ora si fidano e affidano al Maestro che così inaugura la sua nuova e definitiva forma di presenza in quanto partecipa alla potenza regale di Dio. Il brano si conclude infatti con: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano».

Il sublime artista riesce a narrare il misterioso distacco di Gesù uomo dai suoi e l’inizio della sua presenza nuova e continua in ciascuno di loro e di noi attraverso lo Spirito, in sinergia e a sostegno della nostra esistenza.

Condividiamo l’invocazione tratta dalla Cantata «Solo l’ascensione di Cristo» di J. S. Bach:

«Solo l’ascensione di Cristo m’assicura
che anch’io salirò al cielo
e grazie a ciò vinco sempre
tutti i dubbi, le paure e le sofferenze;
e poiché la testa è in cielo,
Gesù Cristo quando verrà il tempo
ricongiungerà a sé le sue membra».


Sesta Domenica di Pasqua – 09/05/2021
“È questione di cuore”

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Nella lingua italiana il termine Àgape (dal greco agàpe che significa amore smisurato o disinteressato) oltre che essere un nome proprio di persona femminile, esprime anche un banchetto tra amici. Secondo l’accezione tradizionale, indica pure il convito comune praticato dai cristiani dei primi quattro secoli per commemorare l’ultima cena di Gesù, al fine di stringere vincoli di fraternità e soccorrere i poveri. Agàpe, tradotta in latino con «charitas» e in italiano con «amore», per trecentoventi volte, comprese le varianti, è presente nel Nuovo Testamento, che non contiene il sostantivo «eros» e raramente il vocabolo «philia» (l’amore di amicizia).

Nel brano di Vangelo, Giovanni (15,9-17) ci riferisce una parte del discorso tenuto da Gesù nel cenacolo poche ore prima della passione proprio spiegando il contenuto esatto dell’amore, in originale agàpe che come sostantivo e come verbo qui ritorna nove volte. La frase iniziale del Maestro – «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» – definisce il fondamento d’ogni vita cristiana e ne spiega la caratteristica fondamentale. Utilizzando il termine agàpe l’evangelista aiuta a comprendere le peculiarità dell’amore proposto da Gesù: il Padre ci ama per primo dello stesso amore che ha per il Figlio e ci chiede di amarci così. Si tratta di un amore reale e concreto – «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» – che porta gioia in chi lo vive: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».

La rilettura meditativa del brano evangelico mi ha ricordato una creazione di Claudio Parmiggiani, Parla anche tu, 2005. «Un’opera – afferma l’artista – deve essere come un pugno nello stomaco. Silenziosa ma dura, dura ma silenziosa, come un fuoco sotto la cenere». È difatti provocatorio il calco del cuore, fuso in ghisa, appoggiato su un libro aperto, il «De rerum principiis et elementis et causis» di Giordano Bruno. L’immagine del cuore davanti agli occhi ci guida ad ascoltare e comprendere incontri, scritti, storie, eventi. Parmiggiani avvia e incoraggia in noi una riflessione essenziale: il cor-aggio è l’agire del cuore e senza cuore ogni azione si s-corda, perde cioè il suo vero significato. È l’amore che autentica le relazioni tra le persone. «Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri». Vivere l’agàpe di Gesù, secondo la misura del suo cuore, origina risposte libere e liberanti in un amore contagioso e a cascata.

Così scriveva Agostino: «Ama e fa ciò che vuoi. Se taci, taci per amore. Se parli, parla per amore. Se correggi, correggi per amore. Se perdoni, perdona per amore. Sia in te la radice dell’amore perché da questa radice non può nascere che amore».


Quinta Domenica di Pasqua – 02/05/2021
“Tralci della vite vera”

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Sin da piccolo, ho nella mente l’immagine della vigna che sale dolcemente le chine del colle – per i grumellesi «il monte» – e poi sembra toccare il cielo. Ricordo quanta cura nei numerosi interventi lungo l’anno per accompagnare lo sviluppo della pianta: diversi tipi di potatura, lavorazione del terreno, palificazione, sfogliatura, diradamento, antiparassitari, vendemmia. S’iniziava ai primi di dicembre e si finiva…a novembre, con il pericolo che tutto fosse vanificato in pochi istanti da una grandinata improvvisa lasciando in difficoltà economiche una o più famiglie.

La viticoltura ha svolto un ruolo considerevole nella vita del popolo ebraico diventando fonte di molteplici figure bibliche. Ai discepoli che ben conoscevano il simbolismo religioso di quest’immagine, Gesù durante l’ultima cena (Giovanni 15,1-8), rivela: «Io sono la vite vera» presentandosi come l’autentico rappresentante del popolo e aggiunge: «il Padre mio è l’agricoltore». Il legame dei discepoli con Gesù – «Io sono la vite, voi i tralci» – è essenziale per vivere, anche quando il Padre pota ogni tralcio «perché porti più frutto». Nel modo di vivere cristiano infatti è sempre tempo di miglioramenti e modifiche, cioè di potature. La via della vita è quindi: «Rimanete in me e io in voi» perché – continua il Maestro – «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto», promettendo: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto».

Fermiamoci a leggere e lasciamoci stupire dal grande affresco con il Cristo-Vite e Storie delle vite di sante, (Barbara, Brigida d’Irlanda, Maddalena, Caterina d’Alessandria), realizzato nel 1524 da Lorenzo Lotto nella Chiesa, costruita per volontà dei cugini Suardi, all’interno della loro villa, a Trescore Balneario (Bg). Con genialità l’artista presenta al centro della parete nord una monumentale figura di Cristo a braccia distese, con ai piedi i committenti oranti e sopra il passo evangelico: «Ego sum vitis vos palmites». Dalle dita di Gesù si diramano i tralci buoni che, prima di raggiungere il pergolato, formano dieci girali contornanti, a mo’ di cornice, quanti, santi e soprattutto sante, hanno portato molto frutto proprio perché rimasti uniti alla vite. M’ha segnato nel profondo, tra le altre, una presenza in quella cappella. A fine giugno 1992, fui invitato dall’insegnante e dai genitori di trenta ragazzi e ragazze che concludevano il ciclo elementare, a celebrare l’Eucaristia. Sperimentai con loro l’energia impressa da Lotto nel significato eucaristico della vite vivacizzata dai putti vendemmianti sul pergolato, dipinto sul soffitto, che estendeva la sua bellezza anche sopra di noi durante la Messa.

L’inizio dell’iscrizione latina (Christum et de Christi Vite, Piorum propaginem) posta nel mezzo della parete di fronte alla porta d’ingresso, ci sollecita ad essere tralci vivi: «Cristo e da Cristo vite, il germoglio delle persone virtuose».


Quarta Domenica di Pasqua – 25/04/2021
“Il bel pastore ci conosce per nome”

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Dante e Virgilio nella domenica di Pasqua del 1300 si trovano nell’antipurgatorio. Mentre cercano la strada migliore per salire alla montagna, incrociano le anime degli scomunicati che «Come le pecorelle escon del chiuso… / e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,… / semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno» (Purgatorio (III, 79ss.). Con la similitudine il poeta sottolinea la docilità delle anime di quanti in vita si sono allontanati da Dio e, pensando alla sua situazione interiore, è colpito dal fatto che queste, condividendo le fatiche e le sorprese dell’ascesa, hanno avuto una seconda possibilità di cambiare vita per potere, successivamente, ritrovare il «pastore».

Nel brano del Vangelo secondo Giovanni (10, 11-18) Gesù afferma d’essere il pastore «buono» e, secondo la corrispondente parola greca, il pastore «bello» che «dà la propria vita per le pecore», contrariamente ai capi religiosi d’Israele definiti «mercenari». Il Cristo conosce tutti per nome, propone singolarmente l’amicizia con il Padre e non concorda con chi, definendosi cristiano, anche oggi sogna un gregge perfetto o si adopera per averne uno chiuso: «Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare».

Tra le testimonianze più conosciute, realizzate dai cristiani di Aquileia, prima e subito dopo l’editto di Costantino (313), per rappresentare Cristo e il suo messaggio, attingendo al repertorio classico, emerge il «Buon pastore dall’abito singolare» (IV secolo). Per comprendere questo mosaico, ricordiamo le indicazioni (190 circa) di Clemente d’Alessandria ai cristiani, per l’uso delle raffigurazioni sugli anelli: «I nostri sigilli siano una colomba o un pesce o una nave che naviga con vento favorevole o una lira musicale di cui si serviva Policrate o un’ancora di nave, che Seleuco aveva fatto incidere» (Pedagogo III,11,59). Era un sistema di simboli evidente per i fedeli, spesso perseguitati, ma non facile a comprendersi dagli altri.

Il tema iconografico del tondo proveniente dalla domus di Tito Macro, emerge dalla figura centrale (allusiva al Cristo) il «dominus» che a Roma, dal II secolo è rappresentato come l’uomo saggio, perché ha scelto di vivere in serenità lontano dalle lusinghe mondane, curando il suo latifondo. Al centro del mosaico, sta il giovane possidente, con una tunica corta e molto decorata, un ampio mantello rosso, lunghi pantaloni ed eleganti scarpe. Nella mano sinistra tiene in bella vista il bastone detto pastorale e guardandoci, distende il braccio destro mostrando il palmo della mano. Tutto conferma il contesto agreste e, velatamente, il Vangelo: un uccellino («Guardate gli uccelli del cielo»), una pecora, una capra, il contenitore d’acqua, i fili d’erba, le piantine verdi.

Dal 1264 i cristiani pregano con alcuni versi della sequenza «Lauda Sion Salvatorem» composta da Tommaso d’Aquino: «Buon Pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi: nutrici e difendici, portaci ai beni eterni nella terra dei viventi».


Terza Domenica di Pasqua – 18/04/2021
“La luce splende a tutti”

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All‘altare del Crocifisso di San Carlo, nella navata sinistra del Duomo di Milano, sul luogo della sepoltura del cardinal Martini si legge una frase da lui scelta, tratta dal Salmo 118: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino»: la chiave per comprendere la sua esistenza e il suo ministero. Ricordo la sorpresa al vedere Martini mentre, a piedi, con il Vangelo in mano, entra in Milano come Arcivescovo della diocesi ambrosiana (10.2.1980). Da allora, per ventidue anni, instancabilmente, ha annunciato a tutti, credenti e non, la Parola di Dio necessaria ad illuminare la lettura della vita e dei segni dei tempi. Quanto ha insistito affinché i cristiani avessero sempre a cuore la Parola così da acquisire «un atteggiamento d’apertura al futuro perché – amava dire – per un credente non è mai il tempo della nostalgia né tantomeno del rimpianto. È sempre l’ora della speranza, della fiducia, dell’amore».

È un po’ quanto insegna il brano (24,35-48) del Vangelo secondo Luca: i segni sono e restano indizi, perciò non basta vedere e toccare per credere. L’evangelista ci presenta gli apostoli che, quando «Gesù in persona stette in mezzo a loro», «sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma».

Ce lo conferma Luigi Pagano nella tavola a tecnica mista su carta, riprodotta tra le pagine 200-201 del «Lezionario domenicale e festivo, anno B». Gli apostoli, leggibili appena per le sagome contornate di nero, chiusi all’interno del cenacolo grigio e scuro, sono sopravanzati dal Cristo raffigurato mentre si fa presente con un corpo luminoso a conferma che è «risorto». Scrive Luca che Gesù, constatando il loro turbamento e i loro dubbi, si fece toccare ma, siccome «per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore», chiese qualcosa da mangiare. L’artista fissa con segni, poco definiti, il momento in cui uno degli apostoli sta passando al Maestro «una porzione di pesce arrostito» che «mangiò davanti a loro». Nella scena rarefatta, la luce del Cristo sembra rimanere esterna e non illuminare i presenti. Il significato del vedere, toccare, mangiare è infatti svelato solo quando si «comprende» la Parola, nella quale è annunciato il mistero della risurrezione: «allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno”».

S. Ambrogio nel «Commento al Salmo 118» scrive: «Per certo quella luce vera splende a tutti. Ma se uno avrà chiuso le finestre, si priverà da sé stesso della luce eterna. Allora, se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori anche Cristo. Benché possa entrare, nondimeno non vuole introdursi da importuno, non vuole costringere chi non vuole… Quelli che lo desiderano ricevono la chiarezza dell’eterno fulgore che nessuna notte riesce ad alterare».


Seconda Domenica di Pasqua – 11/04/2021
“Dubbio e fede”

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Agli inizi del cristianesimo, quanti nella notte pasquale avevano ricevuto il battesimo, nella domenica successiva deponevano la veste bianca (in albis depositis), indossata per l’intera settimana come segno della nuova vita di figli di Dio. Papa Giovanni Paolo II nell’anno 2000 decise che questa diventasse la «domenica della Divina misericordia», secondo le visioni di suor Faustina Kowalska. I Padri della chiesa, secondo il Vangelo odierno (Giovanni 20,19-31), la chiamano «domenica di Tommaso», l’apostolo del dubbio e della fede. Ecco la strofa iniziale dell’inno liturgico «Il dubbio di Tommaso» composto da Romano il Melode (V-VI secolo d.C.), il poeta più rappresentativo dei cristiani d’oriente: «Il dubbio di Tommaso, o Salvatore, / fu predisposto per economia / quale manifestazione della fede incrollabile, / e questo certamente per tuo volere, / affinché nessuno potesse mai dubitare / della tua risurrezione».

Come avverrà anche in seguito, non si rimprovera l’apostolo, ma lo si loda a motivo della sua richiesta presentata ai dieci contenti d’aver visto il Risorto: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo nel cenacolo, «a porte chiuse», Gesù ritorna tra gli apostoli e si rivolge a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco».

Leggiamo quanto il «Maestro della vita di Cristo» ha scritto a fresco, agli inizi del ‘300, nell’ordine inferiore della parete destra, nella navata centrale della Chiesa di S. Giorgio Martire (Almenno S. Salvatore). Nella «Incredulità di Tommaso», diversamente dal testo evangelico, vediamo, al centro, che è lo stesso Risorto ad afferrare (in evidenza il muscolo del braccio destro) la mano dell’apostolo e ad accompagnare le dita nella piaga del costato. In uno stile narrativo scelto per facilitare a tutti la comprensione, l’artista pone Tommaso meravigliato e sorpreso che, contemporaneamente al gesto guidato da Gesù, s’inginocchia davanti a Lui, riconoscendo con fede: «Mio Signore e mio Dio!». Il Cristo, al centro, con il nimbo crociato e un manto rosso, piega il capo verso il discepolo mostrandogli quanto cercava: i segni delle ferite al costato, nelle mani e nei piedi. Dietro Tommaso vestito di giallo, per l’ampia calvizie si riconosce Pietro dalla veste verde ricoperta da un manto rosso. Ancora più a sinistra, uno dei due apostoli che commentano l’evento, quello vestito di un manto a rombi rossi, ci guarda invitandoci a partecipare. Sulla destra, gli altri sette, come Pietro, hanno gli occhi concentrati sul gesto di Gesù.

«Tutte queste ferite – scrive S. Carlo Borromeo nell’omelia dedicata a Tommaso – sono in effetti come molti squarci e il Signore vuole che penetriamo in essi, se vogliamo leggere».


Santa Pasqua – 04/04/2021
“Tutto diventa vita”

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La prima comunità cristiana si radunava per l’eucaristia presso la tomba del Signore «il primo giorno della settimana» e così celebrava la Pasqua ricordando la Maddalena che, trovando il sepolcro vuoto, corre a darne notizia a Pietro e Giovanni. «In quello stesso giorno, due dei discepoli erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus»: è l’inizio dello stupendo racconto evangelico, uno dei capolavori di Luca (24,1-35) che si proclama alla sera di Pasqua.

I due di ritorno a casa da Gerusalemme, raccontano la vicenda di Gesù come una smentita delle loro aspettative: «noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele». Un viandante sconosciuto s’affianca e, durante il cammino, li sconcerta presentando lo stesso fatto come il completamento d’una missione: «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». L’ascolto delle riflessioni del misterioso personaggio lenisce gradualmente le ferite dell’animo dei discepoli che invitano lo straniero: «Resta con noi, perché si fa sera». Il compagno di viaggio si ferma e, quando a tavola condivide il pane, «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero». Sorpresi e stupiti, i due non vedono più Gesù e confessano: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le scritture?».

Guardiamo ora il dipinto di Diego Velazquez: «Cameriera di cucina con la cena in Emmaus» realizzato tra il 1618 e il 1620, attualmente a Dublino (National Gallery of Ireland). Il giovane artista presenta una tela intrigante e fa una scelta del tutto originale, rileggendo la vicenda da una prospettiva singolare. Attira la nostra attenzione la ragazza dalla carnagione scura, al centro, raffigurata con una cuffietta bianca, a mezzo busto, dietro il banco da cucina, al termine del suo servizio. S’appoggia con la mano destra al tavolo, sul quale ha appena abbandonato lo straccio accanto al piccolo mortaio, al bulbo d’aglio, ai recipienti, agli utensili e sta posando con la sinistra una brocca in ceramica smaltata. Quale pregevole sezione di natura morta!

L’espressione della giovane comunica stanchezza ma anche sorpresa che la induce a sostare in ascolto d’una «memoria» indicata con l’inclinazione della testa e la direzione dello sguardo. È da quella parte che viene la luce! Un altro dipinto, infatti, incorniciato, – per alcuni una finestra – è stato riscoperto a sinistra durante il restauro (1933): si tratta proprio della cena di Emmaus, narrata da Luca, con il Cristo che, tra i discepoli, «recitò la benedizione» sul pane. Di fatto, Velazquez sembra dire che il Cristo «apre gli occhi» e porta la sua luce soprattutto a chi, allora e ancor oggi, è trattato e ritenuto un essere inferiore.

Viviamo nella certezza che con il Risorto – come afferma Gregorio Nisseno (IV secolo) – «tutto diventa vita, risurrezione, aurora, mattino e giorno».


Sabato Santo – 03/04/2021
“Dio del silenzio, apri la solitudine”

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«Il Sabato Santo la Chiesa sosta presso il sepolcro del Signore, meditando la sua passione e la sua morte, nonché la discesa agli inferi, e aspettando la sua risurrezione, nella preghiera e nel digiuno». Con tale indicazione, nel Messale per le celebrazioni s’apre la pagina «Sabato Santo», che non comprende nient’altro perché la «Veglia pasquale nella notte santa» si trova sotto il titolo «Domenica di Pasqua. “Risurrezione del Signore”».

L’anticipazione della Vigilia della Pasqua al mattino del sabato, decisa (1570) da Pio V, è durata fino alla riforma della Veglia pasquale (1951) e della Settimana Santa (1955) operata da Pio XII. Ricordo che fino al 1955, verso le ore 10 del sabato mattino, a conclusione della veglia, si annunciava la Risurrezione con il suono delle campane «sciolte» dai legami posti la sera del Giovedì Santo. Dopo il Concilio Vaticano II, con il nuovo Messale (1970) si confermò quella riforma con alcuni aggiustamenti.

«Morì e fu sepolto; discese agli inferi» proclamiamo nel Credo detto «Simbolo degli Apostoli».

È centrale il lutto davanti al sepolcro di Cristo: «Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano» (Da un’antica Omelia sul Sabato santo).

La «Deposizione di Cristo» è il dipinto, olio su tavola di tiglio, realizzato da Simone Peterzano e conservato presso la chiesa di San Giorgio di Bernate Ticino. Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, ai quali spetta il merito d’aver attribuito recentemente l’opera al maestro di Caravaggio, ritengono che la tavola sia stata eseguita «forse non lontano dal 1584, l’anno in cui Michelangelo Merisi cominciava ad andare a bottega da lui [Peterzano]». L’artista presenta Maria mentre si fa forza stringendo intensamente le mani e guarda, piangendo di dolore, il Figlio che, posto sulla pietra tombale, sta per essere avvolto dal lenzuolo per poi essere collocato nel sepolcro. Un angelo sorregge il corpo di Gesù e, per non toccarlo, si aiuta con il lembo del telo che, all’estremo opposto, è sostenuto dalla mano sinistra del canonico Desiderio Tirone, forse il committente dell’opera che guardandoci ci invita a partecipare, pregando. Il corpo del Cristo appena deposto dalla croce, mostra le ferite al costato e alle mani. La corona di spine è raffigurata accanto alla lastra sepolcrale dove leggiamo l’autentico significato dell’evento: «Mors eius vita nostra» (La sua morte è la nostra vita).

Viviamo questa giornata con po’ più di silenzio e di preghiera. Ci viene in aiuto la conclusione di «Thanatos athanatos», poesia di Salvatore Quasimodo:
«La vita non è sogno. Vero l’uomo
e il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine».


Venerdì Santo – 02/04/2021
“Dopo ogni notte…il sole”

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«Qui ho dipinto il mio autoritratto…ma il quadro rappresenta anche la caduta di un ideale, e un dolore sia divino che umano. Gesù è completamente solo, i suoi discepoli l’hanno abbandonato, in uno scenario triste come la sua anima». Così Paul Gauguin scrisse a fine 1989 al critico Huret, commentando il «Cristo nell’orto degli ulivi», ora alla Norton Gallery of Art (Florida), uno dei quattro dipinti nell’anno sullo stesso tema.

Di quest’opera in cui egli si ritrae nelle vesti di Gesù, immerso nella preghiera e colto da profondo sconforto prima dell’arresto, aveva comunicato a Vincent Van Gogh: «Ho ancora qualcosa che non ho mandato a Teo [fratello di Vincent] che dovrebbe piacerti. Si tratta di “Cristo nell’orto degli ulivi”. Cielo blu, crepuscolo verde, alberi ricurvi sopra contorni color porpora, terra viola e, sul viso di Cristo, capelli di un color rosso ocra. Questo quadro è destinato a non essere capito, così lo terrò molto tempo».

Il pittore, in quei mesi a capo d’un piccolo gruppo d’artisti, s’identificava con l’immagine di Gesù, un altro Maestro, guida degli apostoli, consapevole che le sofferenze causate dall’arte, sarebbero state superate dal futuro successo. Come per altri artisti di epoche diverse, anche Gauguin riflette sulla solitudine e sulle sofferenze immedesimandosi con lo stato d’animo del Nazareno, colto nel momento di grave tristezza nel Getsemani, «un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli». Così s’inizia il racconto della Passione secondo Giovanni (18,1-19,42).

Nella tela ad olio, il Cristo è raffigurato come un uomo sofferente, consumato dall’angoscia, piegato dal dolore d’essere lasciato solo in un momento altamente drammatico, mentre incurvato si regge con l’aiuto d’una roccia. Guardiamo alla figura di Gesù rappresentato – secondo la lettera agli Ebrei – in quanto «messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato», che «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo». In questo Cristo dallo sguardo abbassato, con l’abito color terra, tra gli alberi che si piegano come Lui, i colori smorti della vegetazione e le figure lontane degli amici, siamo tutti rappresentati, uomini e donne, quando nelle fragilità, nelle paure, negli smarrimenti non sappiamo dove e su chi appoggiarci. Scriveva ancora l’artista: «Ho cercato di fare in modo che in questo quadro tutto respiri: fede, sofferenza passiva, stile religioso e primitivo, e la grande natura con il suo grido». Il Cristo tiene tra le mani un panno bianco, forse per asciugarsi il sudore. Balza agli occhi il rosso-ocra dei capelli e della barba in ricordo del sangue versato dal Salvatore per donare la vita a tutti.

Come dopo ogni notte sorge sempre il sole, così uniti al Cristo, dopo ogni nostro venerdì santo giunge anche per noi la Pasqua.


Giovedì Santo – 01/04/2021
“L’amore fa rinascere”

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«Come si può credere che l’amore sia più forte della morte se non vi ha reso viventi, se non vi ha risuscitato dai morti?». È l’interrogativo fulminante dello scrittore belga Louis Evely (1910 – 1985) che ho condiviso online con un gruppo d’amici in un incontro di preparazione alla Pasqua. Quanto è potente l’energia di vita che nasce da un perdono, da una parola, da un sorriso, dal sentirsi accolti! E questo vale nella reciprocità.

Pietro deve aver provato qualcosa di simile quando s’è trovato Gesù in ginocchio ai suoi pedi. Restio e contrario, ha ceduto solo alle parole del suo Maestro: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». In quel momento l’apostolo ha accusato il colpo, ha sentito la nuova vita sorgere dall’essere amati senza merito, ha sperimentato che l’amore è più forte anche della morte: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Giovanni (13,1-15) introduce così il gesto di Gesù che lava i piedi ai suoi nell’ultima sera in cui stanno insieme: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine». Questo brano di Vangelo proclamato il Giovedì Santo non racconta l’istituzione dell’Eucaristia ma l’episodio che prelude al grande dono della vita da parte di Cristo nel segno del pane e del vino offerti ai presenti. Gesù, successivamente al dono eucaristico, ricorda: «Fate questo in memoria di me» (Luca 22,19 e 1Cor 11,24) e, dopo la lavanda dei piedi, ribadisce: «Vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».

Rileggiamo il testo evangelico nella tela «Gesù lava i piedi a San Pietro» che il pittore inglese Ford Madox Brown, ha realizzato (1852) ad olio, oggi alla Tate Gallery di Londra. Sorprende il punto d’osservazione posizionato in basso e la ridotta prospettiva verticale, a sottolineare la scelta del Maestro di farsi servo per amore. Le innumerevoli proteste di fronte alla prima versione dell’opera in cui Gesù secondo il Vangelo – «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita» – appariva semi-vestito, costrinsero l’artista a dipingere l’attuale versione. Gli apostoli in silenzio, attorno alla tavola della cena, guardano verso Gesù ed esprimono se non l’incomprensione, la sorpresa di quanto vedono. Ogni volto manifesta sfumature emotive diverse: stupore, sgomento, imbarazzo, disorientamento. Pietro incredulo, con le mani giunte, scruta con gli occhi bassi il suo Maestro e, vinto dall’amore, rinasce, risorge e si consegna a Lui che, dal volto di un’incantevole umanità, è intento ad asciugargli un piede.

Pure a noi il Cristo ripete: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri».


Domenica della Palme – 28/03/2021
“Re, mite”

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La cavalcatura tipica del re era il cavallo. Più cavalli possedeva più era ammirato e ritenuto potente. L’asino invece è l’animale che si usa in tempo di pace. Gesù giunge a Gerusalemme tra una folla festante, seduto su un puledro d’asina adempiendo la profezia (Zaccaria 9,9) «Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma». Si tratta quindi d’una processione liturgica e non d’una parata militare.

Nella Domenica delle Palme, inizio alla settimana santa, si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme accolto dalla gente che lo acclama agitando fronde e rami presi dai campi (Marco 11,1-11). È una tradizione legata alla ricorrenza ebraica di Sukkot durante la quale i fedeli andavano in pellegrinaggio al tempio della Città Santa portando un mazzetto di palme, mirto e salice. L’antico (IV secolo) «Diario di Viaggio di Egeria» testimonia che sin d’allora le comunità cristiane celebravano questa festa recandosi in processione da una chiesa all’altra. Secondo il brano evangelico, Gesù manda due dei suoi a prendere «un asinello legato, sul quale nessuno è mai salito». I discepoli eseguono quanto disposto dal Maestro e a chi chiede spiegazioni, rispondono come Lui aveva suggerito: «Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito».

L’affresco, «Ingresso di Cristo a Gerusalemme», originariamente (1125) situato a S. Baudelio, vicino a Casillas de Berlanga (Spagna), ora all’Indianapolis Museum of Art, è opera del cosiddetto Maestro di S. Baudelio. Nell’affresco montato su tela, la scena è raffigurata in uno stile d’arte mozarabica, risultante dalla mescolanza di elementi tipici dei cristiani spagnoli che, sotto il dominio musulmano, adottarono alcuni aspetti della cultura araba. In groppa alla maniera orientale ad un’asina, appresso al suo puledro, Cristo sta entrando a Gerusalemme indicata a destra da una struttura con muri merlati, torri, finestre e una porta aperta. La moltitudine biblica in attesa, è rappresentata fuori, da due ragazzi che pongono rami a terra e, dentro, da quattro che stanno guardando. Gesù, capelli e barba rossi, tunica verde acqua e mantello blu scuro, con l’aureola dove è inscritta una croce, sta benedicendo. Gli apostoli, caratterizzati da fisionomie e acconciature diverse e da abiti a differenti colori, a piedi nudi, seguono in gruppo guidato da Pietro, con capelli bianchi e barba, a cui segue Giovanni, dai capelli rossi.

Dal poemetto «Morte di un Nazareno», scritto dal poeta Ai Qing nel 1933 in prigione a Shanghai, godiamoci una penetrante rilettura.

«Verso Gerusalemme
grida di “Osanna! Osanna!”
clamore di stormi di corvi che tornano al nido
sono centinaia migliaia che si affollano
e stringono da presso il Nazareno a dorso d’asino
che viene avanti
con lo sguardo rivolto alla Porta di città…
Il Nazareno
mostra sul volto scarno
un sorriso di misericordia».


Solennità dell’Annunciazione del Signore – 25/03/2021
“Il Sì di Maria”

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A Firenze e a Pisa fino al 1749, il capodanno coincideva con il 25 marzo, mentre nel resto d’Italia, dal 1582 era in vigore il calendario gregoriano: inizio d’anno1° gennaio.

Ancor oggi nelle due città il capodanno del 25 marzo è una delle festività ufficiali. A Firenze il corteo storico si conclude alla Basilica dell’Annunziata, fondata (1250) da i Servi di Maria, dove si trova il simbolo della festa, l’affresco dell’Annunciazione. A Pisa, da una finestra della navata centrale del duomo (1118) dedicato all’Assunta, al mezzogiorno d’ogni 25 marzo un raggio di sole illumina, al lato opposto, una mensola, sorretta da un uovo di marmo, posta sul pilastro vicino all’ambone di Giovanni Pisano. Un corteo storico e una cerimonia religiosa salutano il «nuovo» anno.

Con il termine «Annunciazione» si esprime l’incontro narrato dall’evangelista Luca (1,26-38): il messaggero di Dio porta a una ragazza abitante a Nazareth, l’annuncio: «concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù». L’annuncio dell’arcangelo Gabriele a Maria è stato da subito ritenuto il centro della storia della salvezza e quindi l’inizio dei tempi nuovi: la nuova alleanza tra Dio e l’uomo. Per questo motivo Firenze, Pisa e altre città europee celebravano il Capodanno nella festa che ricorda l’Incarnazione di Gesù il 25 marzo, nove mesi prima del Natale.

Nel 1932 il Consiglio degli Istituti ospedalieri milanesi decide di avere un’insegna ufficiale dell’Ospedale Maggiore e incarica il quarantunenne Giò Ponti di studiarne la realizzazione. Il famoso architetto, già affermato professionista, – fondatore della rivista Domus (1928) e disegnatore di interni di transatlantici, scenografie teatrali, complementi d’arredo – accetta con entusiasmo l’incarico e crea un capolavoro. Progetta infatti un gonfalone di grandi dimensioni dove sul lato anteriore è raffigurata l’Annunciazione mentre sul retro sono presenti una colomba con il motto «Charitas» (stemma dell’ospedale) e gli stemmi delle Opere pie amministrate e dei principali benefattori.

Il gonfalone ora godibile in una teca nell’atrio del palazzo amministrativo dell’Ospedale, mostra la bellezza del mistero dell’Incarnazione realizzato con un raffinatissimo ricamo in oro e argento su seta eseguito dalla ditta Fratelli Bertarelli perché – affermò Ponti – l’«inconsistenza di materia della pittura la rende troppo inferiore ai valori del ricamo». Pensosa e compresa, con le mani giunte sul petto, Maria risponde a Gabriele che con la destra mostra il giglio, figura dell’innocenza verginale e con la sinistra indica, in alto, la colomba, simbolo dello Spirito da cui s’inizia un raggio diretto alla giovane. «Avvenga per me secondo la tua parola»: è la piena disponibilità a diventare la madre del Salvatore.

Che quest’opera ci aiuti a fare nostro quanto nell’ultimo (1799) dei suoi «Canti spirituali» Novalis confidava: «In mille immagini, Maria, ti vedo / amabilmente ritratta / Ma nessuna di esse può fissarti / come ti vede la mia anima».


Quinta domenica di Quaresima – 21/03/2021
“Vogliamo vedere Gesù”

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Il desiderio di «vedere» il volto di Dio penso appartenga ad ogni persona. È un anelito costante e intensificatosi da quando Dio ha voluto scegliere di farsi carne in Gesù. Il Vangelo di Giovanni racconta che dopo l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (12,20-33) «tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù».

In quanto non Giudei, ai Greci era proibito entrare nello spazio interno del tempio ma alcuni, desiderosi forse di conoscere il Nazareno, si rivolgono ai due apostoli dal nome greco. Se ci atteniamo al senso profondo che frequentemente il verbo «vedere» ha nel Vangelo giovanneo, l’affermazione «Vogliamo vedere Gesù» non può esaurirsi in una semplice curiosità ma esprime un desiderio di «conoscere» Gesù e di credere in lui. È come dire: ogni essere umano può, se lo vuole, incontrare il Figlio di Dio e affidarsi a Lui. E infatti Gesù risponde ai Greci: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato». Vedere Cristo è accettare e vivere la sua «ora», cioè la croce e la gloria pasquale.

Lo racconta Alda Merini in «Corpo d’amore» dove rivela la sua storia interiore d’amore che, come sempre, nasce e vive nell’incontrarsi dei volti.

«Gesù, / io ti percorro ad ogni ora / e sono lì in un angolo di strada / e aspetto che tu passi. / E ho un fazzoletto, amore, / che nessuno ha mai toccato, / per tergerti la faccia».

La poetessa si sente come la Veronica che, secondo la tradizione, sarebbe andata incontro a Gesù, nel cammino al Calvario per pulirgli con un velo il volto insanguinato. Il pittore e incisore parigino Georges Rouault ha riflettuto, studiato e creato sul velo di quella donna – vera-icona – dove è rimasto impresso il volto di Cristo, per almeno quarant’anni a partire dal primo olio del 1914 («Cristo in croce») facendone numerose versioni sino a «Il Santo Volto» dipinto ad olio su cartone nel 1946, ora ai Musei Vaticani. Rouault toglie tutti gli elementi tradizionali della Passione e ci presenta «solo» il volto di Colui che, flagellato e oltraggiato fino alla morte in croce, ha preso su di sé il peccato e il dolore del mondo. L’immagine presenta Gesù vincitore della morte ma anche profondamente umano, dal viso quasi estatico e gli occhi aperti, evidenziati da larghe linee nere in un dipinto dal linguaggio segnato da pennellate spesse che stendono nei colori caldi l’annuncio della vita.

Lasciamoci guardare da questo volto maestoso. Rimaniamo soli e gustiamo la stupenda intensità del verso poetico di Mario Luzi:

«E mi guarda
palpitando dalla sua indicibile simiglianza».


Solennità di San Giuseppe – 19/03/2021
“Il papà Giuseppe”

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Il 16 gennaio 2015 a Manila nell’incontro con le famiglie, papa Francesco confidò: «Io amo molto san Giuseppe. Sulla mia scrivania ho una sua immagine mentre dorme e, quando ho un problema o una difficoltà, scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la sua statua affinché lui possa sognarlo». Oltre ad aver più volte nei suoi discorsi fatto riferimento allo sposo di Maria, il Papa ha scritto (8.12.2020) una Lettera Apostolica dal titolo «Patris Corde» (Con cuore di padre) «per condividere alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi». Rivela poi che «Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare che le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni, solitamente dimenticate». Dopo aver citato il personale medico e sociale, le forze dell’ordine, i lavoratori, i volontari, dichiara: «Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera». E qui evidenzia il ruolo speciale e unico che san Giuseppe ha avuto nella storia della salvezza: Egli infatti «ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine».

L’«annunciazione a Giuseppe» raccontata dall’evangelista Matteo (1,16.18-24) si conclude con la conferma che sarà lui il padre ufficiale del figlio di Maria: «tu lo chiamerai Gesù», nome che, secondo l’etimologia, vuol dire «il Signore salva». Da allora Giuseppe svolge appieno il suo servizio di papà.

Tra le innumerevoli rappresentazioni artistiche che lo riguardano a partire dal medioevo, ho scelto questo «quadretto» di vita familiare, dipinto ad olio da un anonimo pittore olandese del secolo XVI. L’opera «Vergine e bambino con san Giuseppe», ora a New York, sembra il fermoimmagine d’una cena casalinga di genitori con figlio, tutti e tre senza aureola. In una casa tra le tante, ognuno svolge il suo compito: il bimbo si nutre, la mamma lo nutre, il papà ha preparato con cura la tavola, ha versato il brodo, sta amalgamando altro cibo. La mamma ha gli occhi su Gesù che sostiene con amore ma è pensierosa sul futuro, il Figlio volge lo sguardo lontano, forse a quanto l’attende a Gerusalemme, il papà riflette sulle prossime difficoltà. Oltre all’abito di Giuseppe è rosso anche l’ampio drappo alle spalle di chi gli è più caro: memoria d’amore e di dolore.

Onore ai papà nella giornata a loro dedicata! Imitino il collega Giuseppe intento a far sì che la vita familiare continui al meglio. Egli – dice un verso di Ernesto Olivero –

«Accoglie l’inconcepibile,
protegge Maria,
dà il suo nome all’infinito
».


Quarta domenica di Quaresima – 14/03/2021
“Buona notte, orgoglio!”

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Nella Bibbia detta «Vulgata» – versione latina, eseguita da san Girolamo tra il 390 e il 404 – il quarto libro del Pentateuco è chiamato «Numeri», traducendo l’omonimo titolo del testo greco. Lo stesso libro, nella Bibbia ebraica, è denominato «nel deserto» (Bemidbàr) in quanto gli avvenimenti narrati si svolgono nel deserto. In un racconto delle drammatiche peregrinazioni, il popolo d’Israele rischia d’essere eliminato a motivo dei serpenti velenosi nascosti tra i sassi della steppa. A quel punto Mosè implora Dio di perdonare il popolo ottenendone l’aiuto: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita» (Numeri 21,8).

Al centro del dialogo notturno raccontato nel brano del Vangelo secondo Giovanni (3,14-21), Gesù si riferisce a questo episodio quando spiega a Nicodemo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna».

L’artista Margareth Dorigatti riscrive proprio queste parole nell’opera «Mistero della Croce» realizzata a tecnica mista su carta e inserita nel Lezionario Domenicale e Festivo, anno B, tra le pagine 104 e 105. Leggiamo l’icona unendoci ai due dialoganti rappresentati in basso a sinistra con il blu del cielo: uno, Gesù, totalmente e l’altro, Nicodemo e ognuno di noi, in parte. In alto, sullo stesso colore, issato a forma di croce, troviamo il serpente inserito in una mandorla bianca, contornata da una linea aurea a indicare la preziosità della salvezza offerta alle persone che la cercheranno. Da qui si staccano frammenti di luce divina che si disperdono ovunque fino ad arrivare in basso a destra sul serpente collocato sul fondo nero. La serpentina mortifera è così sinuosa da avere il colore giallo-ocra del terreno con cui è dipinta pure la sua grossa testa ad ovale. Alla fine, anche l’animale strisciante, il maligno, già in fase di dissolvimento, sarà annientato perché «odia la luce e non viene alla luce».

Gesù è venuto nel mondo, non solo per annunciare la salvezza ma per realizzarla: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». In croce il Cristo conferma che è venuto a fare la verità, non tanto a dirla. Infatti «chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

In uno dei più famosi mottetti – «Jesu meine freude» (BWV 227) – Johann Sebastian Bach mette in musica (1723) il corale (n. 9) con il testo inconsueto di Johann Franck.

«Buona notte, spirito
di questo mondo,
a me non piaci.
Buona notte, peccati,
state lontano da me,
non venite più alla luce.
Buona notte, orgoglio e vanagloria.
Ti auguro una buona notte
vita dissoluta
».


Terza domenica di Quaresima – 07/03/2021
“Mercanti, fuori dal tempio”

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La narrazione del Vangelo secondo Giovanni (2,13-25) comincia con Gesù in pellegrinaggio per la Pasqua verso Gerusalemme dove «Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete». In occasione delle solennità, numerosi pellegrini si recavano al più importante luogo di culto dove, in un ampio cortile, – l’Atrio dei gentili – i più facoltosi potevano acquistare per i sacrifici pecore o buoi e quelli meno abbienti (come Maria e Giuseppe) tortore o colombe. Molta gente frequentava questo mercato per acquistare anche incensi, aromi, vino per i rituali di libagione e per versare la tassa per il tempio. Gesù, alla vista di tale commercio, interviene, come i profeti dell’Antico Testamento, per «purificare» il luogo di culto dagli abusi della compravendita, criticando duramente sacerdoti e sacrifici. La «cacciata dei mercanti», detta anche la «purificazione del tempio», è un episodio raccontato nei quattro vangeli.

Il grande El Greco ha lasciato almeno sei versioni della «Cacciata dei mercanti dal Tempio», rifacendosi soprattutto al testo di Giovanni. Ce ne dà conferma la «frusta di cordicelle» utilizzata da Gesù per rimproverare e scacciare i trafficanti, particolare di cui parla solo questo evangelista: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”».

Guardando l’opera omonima, forse l’ultima della serie, realizzata dall’artista cretese attorno all’anno 1600, oggi alla National Gallery (Londra), si coglie una composizione articolata che raffigura i tre gruppi di personaggi in uno scenario architettonico. Fermiamo l’attenzione sui due rilievi posti in alto, tra due fusti di colonne, a sinistra e a destra del grande arco di trionfo che ricorda il tempio e lascia intravedere un’immaginaria città. Il primo – «Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre» – descrive il peccato delle origini e prefigura il gesto veemente del Figlio di Dio; nel secondo – «Sacrificio d’Isacco» – è simboleggiato l’autentico sacrificio, quello di Gesù. Il perno della scena centrale da cui tutto si inizia è Gesù il Cristo, uomo e Dio, come indicano le vesti rosse e azzurre che, con il suo movimento deciso e solenne, manda in fuga venditori e cambiavalute mentre, sulla destra, i discepoli meravigliati, commentano.

Facciamo nostra la riflessione del cardinal Ravasi. «Nello stile dei profeti le parole di Cristo conoscono spesso lo sdegno che si accende soprattutto di fronte all’ipocrisia religiosa che, sotto il manto di una pietà artificiosa e formale, nasconde egoismi inconfessati e interessi inconfessabili. Pensiamo alla frusta agitata contro i mercanti».


Seconda domenica di Quaresima – 28/02/2021
“Lasciarsi trasfigurare”

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Mi è rimasta nella mente e nel cuore l’esperienza vissuta alla fine del 1984, con un gruppo di amici, durante un pellegrinaggio in Terra Santa: da Nazaret al Tabor, un giorno a piedi, andata e ritorno (34 km circa).

Alla fine della dura e lunga salita, siamo arrivati in cima al monte Tabor che, pur essendo alto solo quattrocento metri, è visibile da molto lontano, solitario nel mezzo della Galilea. Fantastico il panorama a 360° su tutta la Galilea e indimenticabile la celebrazione della Messa nella Basilica seguita dalla lettura degli antichi mosaici che raffigurano la scena di Gesù trasfigurato, secondo il racconto degli evangelisti Matteo, Luca e Marco.

Questi narra della trasfigurazione di Gesù (Marco 9, 2-10) mettendo per iscritto quanto ha ascoltato dal suo maestro, l’apostolo Pietro, testimone oculare dell’evento straordinario, insieme ai fratelli Giacomo e Giovanni. Una settimana dopo aver predetto la sua passione ai discepoli, il Maestro risplende nella luce abbagliante della Pasqua: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.

E fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù».

Rileggiamo l’episodio evangelico considerato come l’icona della contemplazione cristiana, nell’opera «La Trasfigurazione», realizzata nel 2005 dal pittore e sacerdote tedesco Sieger Köder che sottolinea, seguendo la tradizione artistica dei cristiani ortodossi, l’effetto di questo misterioso spiraglio del mondo divino sui tre.

I discepoli che nel fatto evangelico quasi certamente stavano guardando in alto, sono infatti rappresentati con gli occhi chiusi, evidenziati dal bagliore proveniente dal cielo nettamente separato dal livello umano mediante una linea.

Sopra, vediamo luce, colore, vita, occhi aperti, partecipazione; sotto, di contrasto, toni scuri e confusi, mani in ricerca, occhi chiusi e il profilo del monte. L’artista, denominato il «predicatore con immagini», inventa la forma di far risplendere la luce dall’alto sopra gli occhi chiusi dei discepoli come a dire che s’intuisce qualcosa di Dio e del mondo, soprattutto per Suo dono.

I tre apostoli vedono Gesù come nuovo, come risorto, non con gli occhi del corpo ma con gli occhi interni, illuminati da Dio. In altri termini lo scrive Antoine de Saint-Exupéry quando, riprendendo san Paolo (Efesini 1,17-18) – «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati» – fa dire alla volpe, nel racconto «Il Piccolo Principe», che «non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».

Alleniamoci a guardare la vita quotidiana dalla prospettiva del cielo e, con il cardinale Martini, «chiediamo di poter giungere alla conoscenza di Cristo, la cui gloria risplende sul suo volto e vuole risplendere in noi».


Prima domenica di Quaresima – 21/02/2021
“Non abbandonarci alla tentazione”

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Commenti, approvazioni, polemiche hanno accompagnato la notizia (fine 2020) che, anche nella liturgia, dalla prima domenica di Avvento, sarebbe stata adottata la nuova traduzione della seconda parte del «Padre nostro». Infatti nella Bibbia pubblicata con l’approvazione dei Vescovi italiani (2008), la dizione «Non c’indurre in tentazione», è sostituita da «Non abbandonarci alla tentazione». Il cambiamento provoca una riflessione sul significato delle parole e favorisce una maggior comprensione del termine «tentazione» presente anche nel brano del Vangelo secondo Marco (1,12-15).

Siamo alla prima domenica di quaresima che liturgicamente è detta «delle tentazioni di Gesù» perché narra di come lo stesso Maestro, dopo i circa trent’anni trascorsi in famiglia, iniziò il ministero pubblico assoggettandosi alle tentazioni di satana nel deserto: «E subito lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana».

Il primo significato del verbo «tentare» non è quello di provocare al male ma di fare un passaggio, spesso difficile, per arrivare a una maggiore maturità nel vivere. Il corrispondente termine greco tradotto in «tentazione», comprende anche il significato di prova, lotta, tensione per una scelta.

Il pittore Pietro Annigoni, nella tempera su tela dal titolo «Le tentazioni» o «La tentazione del viaggiatore», realizzata nel 1943, raffigura la pausa di un camminatore di montagna che riflette, guardando verso l’orizzonte. È la fatica dello scegliere e del prendere la strada giusta, è l’avventura della vita che pretende decisioni coerenti e valutazioni conseguenti quando ci si trova di fronte a momenti o tappe del cammino in cui siamo messi alla prova, siamo «tentati». E Annigoni dipinge con una pennellata inconfondibile, rapida e realistica, questo snodo come una sosta in montagna di chi, tenendo il bastone nella mano sinistra, si siede pensoso su un tronco, dove ha appoggiato lo zaino.

Che cosa sta guardando il viaggiatore? Intravede una strada, alcune colline, qualche abitazione e poi…nebbia, confusione. Il deserto dove Gesù è messo alla prova simboleggia la foschia, l’oscurità, la confusione in cui a volte ci troviamo. Non è l’opera organizzata dal Signore per farci cadere, per farci star male e neppure l’effetto di chissà chi si diverte a nostre spese ma fa parte della vita trovarsi davanti a un’alternativa e individuare abbagli e lusinghe per evitarli. L’artista stendendo sul fondo colori chiari e tenui, sembra confermare che tra poco il viandante, dopo la pausa (simboleggiata dai «quaranta giorni»), supererà la prova e riprenderà il cammino. Dopo aver attraversato le tentazioni, Gesù infatti continua il suo percorso, «proclamando il vangelo di Dio».

Nella vita del monaco Antonio (IV sec.), troviamo la risposta alla sua e nostra obiezione quando, superate le tentazioni, egli chiede al Signore apparsogli in un raggio luminoso: «Dov’eri? Perché non sei comparso subito per arrestare le mie sofferenze?». «Antonio, – replica Dio – ero qui a lottare con te».


Mercoledì delle Ceneri – 17/02/2021
“Fare dapprima la nostra parte dentro di noi”

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Col rito delle Ceneri, i cattolici iniziano il periodo quaresimale che porta alla celebrazione della passione, della morte e della risurrezione di Cristo, un tempo di preparazione scandito da momenti particolari nati dai cristiani che nei vari secoli hanno ascoltato e messo in pratica la Parola di Dio.

Nel brano di Vangelo secondo Matteo (6,1-6.16-18), Gesù propone ad ogni discepolo un programma di vita quaresimale improntato su elemosina, preghiera, digiuno da vivere non per «essere ammirati» dagli uomini ma perché «il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Quindi chi vive sotto lo sguardo del Padre è così libero nel cuore da agire non «come fanno gli ipocriti», cioè senza finzione e ostentazione, evitando di comportarsi per recitare, per fare colpo e cercare l’applauso.

Ci è di particolare aiuto l’immagine creata da Mimmo Paladino per il «nuovo» Messale e collocata nella pagina 66 che introduce la sezione della quaresima. «Non ho pensato – dichiara l’artista – né di illustrare né di decorare, ma di offrire il mio linguaggio per accompagnare il testo liturgico». Il profilo del volto di una persona, realizzato nella semplicità ed essenzialità, ad acquerello, è un forte invito a riflettere, per arrivare a prendere decisioni. La fronte rivolta al basso traduce la scelta di meditare, rivolgendosi alla propria interiorità, l’esortazione di Gesù quando dice: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini».

Il viola, colore proprio della quaresima, rimanda alla necessità di avviare l’intenso cammino verso la gioia della Pasqua che si inizia proprio con la celebrazione dove si piega il capo per ricevere le ceneri e si ascolta la parola del Maestro: «Convertitevi, e credete al Vangelo». A noi che, a volte, siamo talmente presi e affaccendati, questo volto, sobrio e suggestivo, delicato e sostanzioso, discreto e provocatorio, invita a fermarsi per guardarsi dentro e domandarsi di fronte al Signore: «posso vivere in modo più autentico attraverso le tre indicazioni del Vangelo?». La quaresima si rivelerà allora come l’itinerario di quaranta giorni in cui tornare a ciò che è essenziale: digiunare da ciò che non è necessario; dare più importanza alla preghiera, all’ascolto della Parola, alla cura dell’interiorità; crescere nel vivere, donando non solo qualcosa ma quel bene che siamo, soprattutto a chi ha più bisogno.

Due frasi tratte dallo splendido «Diario» lasciatoci dalla scrittrice olandese Etty Hillesum, morta a 29 anni ad Auschwitz nel novembre 1943, facilitano la nostra riflessione. «Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi». E poi: «Questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse [è il famoso inno alla carità, nella  1 ͣ lettera ai Corinti 1,1-13] agli abitanti di Corinto».


VI domenica del tempo ordinario – 14/02/2021
“Non amare solo noi stessi”

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Ogni anno, nell’ultima domenica di gennaio, si celebra la giornata mondiale dei malati di lebbra o malattia di Hansen, iniziata nel 1954 da Raoul Follereau, scrittore e giornalista francese, molto attivo nella lotta alla lebbra e morto nel 1977. Secondo gli ultimi dati (2019) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono stati registrati 202.185 nuovi casi di lebbra nel mondo che s’aggiungono ai molti già ammalati.

Proprio d’una persona colpita da questa malattia si parla nel Vangelo di Marco (1,40-45) che oggi è annunciato nelle Chiese cattoliche: «Allora venne a Gesù un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”». A quei tempi il lebbroso non era soltanto colpito nel fisico ma anche marchiato dall’impurità legale e perciò destinato a morte sociale: costretto a vivere lontano e rifiutato da tutti ed escluso dal culto. Gesù, venuto non per i sani ma per gli ammalati, prova di fronte a quell’uomo una profonda compassione che lo muove ad agire andando «oltre», più che contro la legge.

Continuiamo la lettura attraverso il dipinto «La guarigione del lebbroso» realizzato nel 1913 dal pittore e scultore Niels Larsen Stevns e oggi conservato al Museo Skovgaard di Viborg, in Danimarca. Nell’olio su tela, l’artista ferma la scena evangelica sul gesto che il Maestro compie, provocatoriamente, quando decide di entrare in contatto con l’ammalato: «Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”». Dalla Bibbia sappiamo che «stendere la mano» è l’espressione maggiormente utilizzata quando si parla di guarigione e di miracoli.

Gesù si muove verso il lebbroso che gli sta davanti, in ginocchio, lo tocca per condividere la sua situazione, mettendosi così dalla sua parte: lui stesso si trova ora emarginato. I presenti stanno fermi e indietro, pochi sono discosti e altri si curvano in avanti, guardando sorpresi quanto sta accadendo. Pure la natura, verde e fiorita, mostra quale effetto ha il gesto di Gesù: «Subito la lebbra scomparve ed egli guarì». A quel punto il lebbroso rientra a tutti gli effetti nella comunità mentre il Maestro, discriminato, «non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti».

Gesù ci insegna a sostituire alla fuga dal bisognoso e alla tentazione del guardare dall’altra parte, la logica dell’incontro che sempre porta vita, come ha fatto Raoul Follereau, esempio luminoso anche nel pregare.
«Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi,
a non amare soltanto i nostri cari,
a non amare soltanto quelli che ci amano.
Insegnaci a pensare agli altri,
ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.
Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo;
e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.
Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo


V domenica del tempo ordinario – 07/02/2021
“Amare vuol dire servire”

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Nel Vangelo secondo Marco (1,29-39) troviamo il primo racconto di guarigione compiuto da Gesù che: «uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni». Gesù e i due figli di Zebedeo, dopo l’incontro in sinagoga, vanno con Andrea a prendere cibo nella casa della famiglia di Simone che si trovava molto vicina. Lo conferma Egeria quando (393-396) racconta del suo pellegrinaggio nei luoghi santi: «A Cafarnao la casa del Principe degli Apostoli è diventata chiesa; ma si conservano ancora le parti della casa». Grazie alla cura e alla ricerca dei Padri Francescani, con l’edificio «Memoriale di Pietro», dal 1995 sono visibili parte della casa di Pietro e i mosaici del pavimento della basilica ottagonale costruita dai bizantini (metà V sec.).

Gesù con i primi quattro discepoli entra in questa abitazione dove: «La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei».

Incominciamo a leggere il disegno che Rembrandt realizzò con penna e pennello alla fine del 1658. Nella piccola opera a inchiostro – «La guarigione della suocera di San Pietro» – l’attenzione è posta proprio sui gesti semplici e profondamente umani di Gesù nei confronti di chi si trova nella sofferenza.

L’artista olandese evidenzia il centro del Vangelo, la Bella Notizia che è per tutti, perché nella mamma della moglie di Pietro ci siamo noi, ci sono gli uomini e le donne d’ogni tempo che cercano di rimettersi in piedi. Il verbo greco utilizzato da Marco equivalente a «fa rialzare, fa risuscitare», è lo stesso impiegato per la resurrezione di Gesù. Rembrandt riesce a concentrare la nostra attenzione sulla raffigurazione dell’essenzialità del racconto evangelico: Gesù «si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano». Il corpo della donna che ha appena lasciato il giaciglio indicato con pochi e deboli tratti, sta per essere alzato dal Maestro. Facendo forza sui piedi nudi, egli si piega verso l’ammalata, la prende per le mani per sollevarla con la sua forza. L’artista si mostra geniale anche qui: sottolinea non il risultato imminente ma l’intervento di Gesù e la reazione collaborante della donna. Il Figlio di Dio infatti è venuto sulla terra a salvare ogni persona «ammalata»: si china verso di essa con bontà e con misericordia, la rimette in piedi se trova risposta e partecipazione. Guardando il disegno, la nostra attenzione è posta sul gesto di Gesù, senza altri personaggi, narrato nella sua essenzialità, reale per ogni situazione, alla portata di tutti.

Silvano Fausti ci aiuta a riflettere: «Il miracolo sta non in ciò che avviene nella guarigione, ma in ciò che segue la guarigione: questa suocera, guarita dalla febbre, “serviva”. Il vero miracolo che ci rende simili a Dio è la capacità di amare, e amare vuol dire servire».


IV domenica del tempo ordinario – 31/01/2021
“Liberi dal male”

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Lambach, un paese in Alta Austria di circa quattromila abitanti, è famoso per la grande Abbazia del 1040, retta dai monaci Benedettini dal 1056. All’interno del complesso dei vasti edifici, in una cappella sopraelevata, nel 1960 sono stati riscoperti numerosi affreschi bizantineggianti di grande valore, risalenti al 1080.

In uno di questi – «Gesù libera l’invasato nella Sinagoga di Cafarnao» – la raffigurazione è caratterizzata da un motivo con colonne e capitelli sui quali s’appoggia una sorta d’architrave che corre nella parte superiore del dipinto. Quindi nella città di Cafarnao, descritta con le torri a destra e a sinistra, le raffigurazioni architettoniche in primo piano ricordano la sinagoga e inquadrano la scena dove si erge la figura di Cristo. Il Nazareno, con la particolare aureola attorno al capo, vestito con una tunica bianca e un mantello rosso, sta benedicendo con la mano destra mentre tiene nella sinistra il rotolo della Parola. Lo circondano due gruppi di uomini che guardano stupiti e commentano. I dodici alla sua destra sono gli apostoli, con indosso una veste simile a quella del Maestro che fanno da testimoni del suo intervento per guarire un uomo posseduto dal demonio. Il primo del gruppo è probabilmente Pietro che con entrambe le mani mostra a noi Gesù e dietro si riconosce Giovanni per l’aspetto giovanile. A sinistra di Cristo sta l’altro gruppo di persone, vestite diversamente dagli apostoli, formato da quattordici uomini, forse in riferimento al numero di Davide secondo la Bibbia, come Matteo ha organizzato la genealogia di Gesù: quattro gruppi di quattordici persone ciascuno (1,1-17).

Nella parte inferiore dell’immagine c’è la persona posseduta che ai piedi di Cristo, sta per essere guarita.

L’autore dell’affresco rende così leggibile anche ai numerosi analfabeti del tempo, il fatto raccontato dall’evangelista Marco (1,21-28) e avvenuto nella sinagoga di Cafarnao dove, quanti ascoltavano Gesù, erano stupiti perché «insegnava loro come uno che ha autorità». Subito dopo, «un uomo posseduto da uno spirito impuro cominciò a gridare, dicendo: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!”». Il Maestro quindi dimostra la sua «autorità» anche nel liberare dalle potenze del male ordinando: «Taci! Esci da lui!». Dalla bocca spalancata dell’uomo dipinto a terra, con gli occhi sbarrati, «lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte», è appena uscito. Riusciamo a intuirlo nel diavoletto, nero, che compare all’altezza della vita del primo personaggio, a sinistra di Gesù.

L’espressione «spirito impuro», usata da Marco in modo alternativo con il termine «demonio», indica una condizione di non libertà degli uomini. Secondo Dostoevskij, nell’opera «I fratelli Karamazov», il Grande inquisitore si rivolge a Gesù tornato sulla terra, dicendo: «Invece di impossessarti della libertà degli uomini, tu l’hai resa ancora più grande!».


III domenica del tempo ordinario – 24/01/2021
“No al rimanere immobili”

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All’inizio dell’anno, ecco un’opportunità per riflettere sul rapporto tra tempo ed eternità. Da quando Dio si è fatto carne in Gesù Cristo, accanto al tempo (chrónos) quale realtà contingente e misurabile, la Bibbia parla di un tempo (kairós) come occasione personale e favorevole, seme di eterno.

Dopo essere stato battezzato, Gesù inizia a proclamare il Vangelo pronunciando le prime parole pubbliche. È un annuncio essenziale e riassuntivo del perché è venuto tra noi: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Così narra l’evangelista Marco (1,14-20), nel primo dei vangeli, scritto ascoltando la testimonianza di Pietro, tra gli anni 50 e 60. Con il Natale di Gesù, infatti, il tempo umano è giunto a pienezza, la storia diventa l’epifania della salvezza. Siamo nel tempo ultimo: ogni istante è unico per prendere coscienza che Cristo è con noi, per decidere quale direzione dare alla vita, come quei primi quattro che subito hanno creduto all’Amore di Dio.

Entriamo nella chiesa prepositurale di S. Maria Assunta e S. Giacomo Maggiore a Romano di Lombardia e, dopo la preghiera, con lo sguardo alla volta, leggiamo il primo medaglione, «la chiamata di S. Giacomo Maggiore». Affrescato da Ponziano Loverini nel 1910 insieme agli altri tre (Presentazione di Gesù, Transito della Vergine, Assunzione di Maria), è la scrittura a colori della seconda parte del testo evangelico. Del pittore che ha guidato per oltre trent’anni l’Accademia Carrara, sono anche le tele collocate (1903) nel coro (Martirio di S. Giacomo e Transito di S. Giuseppe). L’artista, con una fresca e luminosa colorazione, raffigura al centro Gesù, solenne e con lo sguardo verso l’alto, mentre con la destra indica di seguirlo. Giacomo, ha appena accettato la chiamata e sta inginocchiato davanti al Maestro, con un remo accanto, per terra. Nell’affresco intuiamo che Simone e Andrea, i primi due fratelli, visti da Gesù lungo il mare di Galilea, hanno accettato l’invito («Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini») e si sono portati avanti. Sulla destra compare infatti, la prua della loro imbarcazione, con le reti. Sull’altra barca si trova Giovanni, fratello di Giacomo, dipinto in piedi, con le mani sul cuore, nell’atto di salutare il papà Zebedeo intento a riparare le reti. Nell’opera, dalla pennellata larga e vigorosa, tutto esprime «movimento»: l’onda del lago, il piede alzato di Gesù, le braccia e il corpo di Giacomo, l’attività di Zebedeo, il gesto di Giovanni, gli uccelli in volo.

Non si può rimanere immobili alla chiamata divina. La scrittrice e pensatrice Simone Weil descrive così gli effetti in chi s’affida al Cristo: «Quello che mi fa capire se uno è passato attraverso il fuoco dell’amore divino, non è il suo modo di parlare di Dio, è il suo modo di parlare delle cose terrene».


II domenica del tempo ordinario – 17/01/2021
“Un incontro ti cambia la vita”

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Ognuno ha nella memoria luogo, data, ora e, a volte, i minuti, dell’incontro che ha segnato la vita trasformandola, come il primo sguardo per due innamorati, il primo bacio, una decisione determinante della vita (matrimonio, ordinazione sacerdotale, vita consacrata, vita da single), la nascita di un figlio, di una figlia. Certi attimi sono per sempre e cambiano la vita!

Deve essere stato così anche per i due discepoli del Battista, Andrea e il suo amico, di cui si narra nel brano del Vangelo secondo Giovanni (1, 35-42). Vien da pensare che il discepolo di cui non sappiamo il nome sia lo stesso autore del quarto Vangelo, il quale, a distanza di circa settant’anni, ricorda benissimo quell’incontro che ha sconvolto la vita a lui e ad Andrea, quando rivela: «erano circa le quattro del pomeriggio». Il Precursore segnala ai due il Cristo Gesù, «l’agnello di Dio», invitandoli a seguirLo.

Sull’abside semicircolare della cappella della Casa di formazione al sacerdozio (Fraternità S. Carlo a Roma), si snoda un ciclo musivo, ispirato dalla Bibbia e realizzato da Mario Rupnik per la liturgia e la preghiera personale (2010). Sulla parte sinistra racconta la visita ad Abramo dei tre personaggi celesti e sulla destra leggiamo l’episodio evangelico «scritto» con le tessere di mosaico mentre i due discepoli s’incamminano per seguire Gesù. Andrea e Giovanni sono raffigurati in movimento: il primo, come il Maestro, tiene nella destra un rotolo a significare che ha accolto il Cristo, la Parola, l’altro con una mano sollevata, è rappresentato nell’atto di rispondere alla domanda di Gesù («Che cosa cercate?») con la richiesta: «Maestro, dove dimori?». Il Cristo a quel punto si gira, guarda verso chi sta in preghiera e, con la mano destra, indica ai discepoli e a tutte le persone in ricerca, la cupola, simbolo del cielo. Poi propone di fare un’esperienza, dicendo: «Venite e vedrete». Il Figlio di Dio abita presso il Padre e contemporaneamente si rende presente nella Chiesa, formata da tutti battezzati, suggerita dalle colonne della cupola e da Maria, la prima dei salvati, che nell’intero mosaico compare sulla sinistra del suo Figlio. Con una felice soluzione l’artista gesuita inserisce tra i discepoli e il Maestro, il tabernacolo al centro di una croce dorata, con una piccola tegola che fa da porta, recante l’immagine di due discepoli che remano su una barca (la Chiesa). I due guardano al Cristo figurato nel mosaico e non sembrano accorgersi che Lui sta seduto dietro di loro, al timone. Sorprende che le prime parole di Gesù nel Vangelo giovanneo siano: «Che cosa cercate?». Da lì ha tutto inizio per i due, per tanti e per noi.

Secondo il discepolo Platone, Socrate durante il processo dichiarò ai giudici ateniesi: «Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta».


Battesimo del Signore – 10/01/2021
“Luce e splendore”

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Il pittore bergamasco Gian Battista Moroni, regala una particolare lettura della pagina evangelica (Marco 1,7-11) invitandoci a prendere il posto dell’offerente raffigurato in primo piano nel quadro «Devoto in contemplazione del battesimo di Cristo», (1555/1560), ora in collezione privata. Nell’opera, una delle prime in cui il giovane artista cerca un equilibrio tra il ritratto e il tema religioso, è evidente il riferimento alle tecniche della «orazione mentale» propagate dai testi di devozione a cominciare dal 1400. Proprio negli anni del dipinto, anche a Bergamo si stava diffondendo il libro «Esercizi Spirituali» in cui Ignazio di Loyola, tra l’altro, insegnava: «la composizione consisterà nel vedere, con la vista dell’immaginazione, il luogo fisico dov’è quel che voglio contemplare».

Perciò Moroni propone l’esercizio di mettersi in contemplazione, di vedere con gli occhi della immaginazione il Battesimo di Gesù. Il devoto-committente, vestito alla moda del tempo, di profilo e con le mani giunte, dai tratti somatici e dall’abito resi con affascinante realismo, è assorto nella contemplazione dell’episodio evangelico che appare in visione-meditazione nella sua mente. Ce lo confermano due tratti della scena: il giovane, con gli occhi rapiti, guarda «fuori» dal quadro e «vive nella mente» il Battesimo di Gesù, davanti a una colonna e ad un muro diroccato che lo separano dallo spazio reale.

Coinvolti dal devoto all’interno del dipinto, leggiamo il brano di Marco così da meglio comprenderne il significato: «In quei giorni, Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni». Il pittore, apprezzato in tutt’Europa, rappresenta realmente la scena, immersa in una natura tipicamente lombarda. Il Battista che tiene con la sinistra la canna-bastone a forma di croce (prefigurazione della passione), va incontro a Gesù, trentenne con le mani in preghiera, un bianco perizoma ai fianchi, i piedi nell’acqua del Giordano e lo battezza versando con una conchiglia l’acqua sul capo chino.

«E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”». In alto, l’artista raffigura lo Spirito Santo che, sotto forma di colomba, fa scendere un fascio di luce sul capo del Cristo, dietro al quale svetta un florido albero, simbolo del Nuovo Testamento che si inizia. Il Vecchio Testamento che si conclude è simboleggiato dall’albero sottile e spoglio, sulla destra. Al centro, in fondo, una città fortificata, reale o fantasiosa, ricorda la «Gerusalemme celeste» alla quale, grazie al Battesimo di Cristo, ogni persona è destinata.

Ricordiamo con Gregorio Nazianzeno (IV secolo), non solo la data ma soprattutto il valore del nostro battesimo: «Cristo nel Battesimo si fa luce, entriamo anche noi nel suo splendore; Cristo riceve il battesimo, inabissiamoci con lui per poter con lui salire alla gloria».


Solennità dell’Epifania – 06/01/2021
“Luce che non ha l’eguale”

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Dal Vangelo secondo Matteo (2,1-12) sappiamo che «alcuni Magi» si sono messi in cammino da oriente a Gerusalemme per cercare il Figlio di Dio, grazie alla stella apparsa in cielo e alla profezia: «Da te [Betlemme] uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele» (Michea 5,1).

Immaginiamo di trovarci a Bologna, nella splendida basilica di San Petronio, dentro la Cappella Bolognini, a leggere il brano della «Epifania del Signore». La decorazione – Il Giudizio universale, Storie dei Magi, Storie di San Petronio – riconosciuta come il capolavoro della pittura tardogotica bolognese, è stata realizzata (1411-1412 circa) da Giovanni di Pietro Falloppi, noto come Giovanni da Modena.

Guardiamo alla parete di destra dove l’artista, per volontà di Bartolomeo, seguendo il Vangelo, illustrò, in otto riquadri, le Storie dei Re Magi, titolari della Cappella e protettori della famiglia Bolognini.

Nell’ordine superiore, a sinistra vediamo i preparativi della partenza dei Magi e a destra il difficile passaggio d’un fiume. A destra, nel second’ordine, appare la stella che tutti stupisce mentre a sinistra i Saggi orientali incontrano Erode. Il terzo ordine presenta, a destra: Erode in trono attorniato dai consiglieri e, in una sala accanto, i Magi aspettano la risposta «sul luogo in cui doveva nascere il Cristo». Nel riquadro di sinistra, i Tre guardano a un loro cavaliere che, precedendoli, indica la direzione da prendere. L’ultimo ordine mostra, a sinistra, i Magi davanti al Bambino e alla Madre, seduta all’esterno della capanna. Melchiorre dalla barba lunga e bianca, bacia con religiosa devozione il piede di Gesù mentre gli altri due stanno consegnando i doni per poi adorare il Figlio di Dio. Giuseppe dorme profondamente, con una mano appoggiata alla botticella dell’acqua.

M’ha colpito nel riquadro di destra, come Giovanni da Modena, ha scritto, dipingendo, la conclusione del brano: «Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese». Nella riproduzione del «Ritorno dei Magi» che raramente compare in altre narrazioni sia scritte sia iconografiche, il pittore, a sorpresa, sceglie di far ritornare i Magi in Oriente via mare, diretti a Tarsis. A fronte della raffigurazione, raramente presente, dei tre Saggi in una piccola barca, qui compare una scena vivace e complessa dove, attorniata da altre imbarcazioni per il gran numero di persone al seguito, al centro, su quella più grande, si vede Melchiorre tra Gaspare e Baldassarre. In lontananza, a destra, appare la cappella che i Tre edificheranno sul monte Vaus, dove saranno sepolti.

I Magi han trovato il Bambino perché l’hanno cercato e adorato. Poi, felici, l’hanno manifestato con la vita, nel loro mondo. Auguriamoci quindi di vivere ogni giorno secondo la formula di S. Tommaso: «contemplare e donare agli altri il frutto della propria contemplazione».


II domenica dopo Natale – 03/01/2021
“La Luce brilla ancora”

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Chi ha letto «Il nome della Rosa» di Umberto Eco, ricorderà che l’incipit tratto dallo scritto di Adso, riprende i primi due versetti del Vangelo (Giovanni 1,1-18): «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» e prosegue con «compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità». Giovanni infatti, presenta Gesù di Nazaret non solo come chi ha fatto del bene a tutti ma come la vita di un uomo che era il Verbo incarnato di Dio. Per questo Clemente d’Alessandria, il celebre vescovo della città egiziana, a metà del II secolo, definì «Vangelo spirituale» quello secondo Giovanni e «Vangeli corporali» quelli di Marco, Matteo, Luca.

L’incarnazione («E il Verbo si fece carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi») è la scelta di Dio per parlare a tutti e, di conseguenza, il criterio per vivere. Da questa contemplata ricerca della verità si ritrova anche il valore e il significato del presente. Pur nella fatica di questo tempo, siamo nuovamente immersi nel mistero del Natale. In Gesù fatto uomo, incontriamo il volto di Dio al fine di accettare la nostra condizione, sostenuti dalla «luce vera, quella che illumina ogni uomo». Se a questa luce apriamo il cuore neppure la pandemia può spegnerla.

La «Natività» qui rappresentata è stata realizzata intorno al 1545 dal bresciano Girolamo Romanino per la chiesa di san Giuseppe a Brescia, e ora al Museo Santa Giulia. È una raccolta meditazione sulla natività che traduce in immagine le parole del vangelo: «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio». Colpisce la Madre che adora il Figlio e ancor più sorprende il suo mantello per la voluta e smisurata ampiezza e per il colore cangiante bianco-perla, contornato d’oro. È l’effetto di chi si lascia incontrare dal Bambino di Betlemme: la Luce infrange ogni notte, cambia lo sguardo, permette di individuare la vera strada e di decifrare le sfumature della realtà. Il Cristo bambino è adagiato su un lembo del mantello materno. Stupisce questa divina manifestazione – garantita dai tre angeli in volo con cartiglio musicale – che «mette in luce» quanto sta in primo piano a fronte della serale penombra dorata. Sulla sinistra, un altro effetto della Luce: Giuseppe si fa testimone indicando Gesù con la destra ai due pastori, ai quali volge lo sguardo. Sopra di loro, appoggiata sull’imposta dell’arco, una civetta simboleggia Cristo che si troverà ad affrontare l’oscura notte della morte per salvare l’umanità: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta».

Dal grande papa Paolo VI, uno spunto di riflessione: «Se appena percepiamo qualcosa del significato oceanico di queste due termini, Dio e uomo, intravediamo il dramma immenso del Natale».


Solennità di Maria SS. Madre di Dio – 01/01/2021
“Prova a recità n’Ave Maria”

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Al centro delle celebrazioni, dei presepi, delle feste, sta un bambino: Gesù, figlio di Dio, «nato da donna», come conferma san Paolo nella più antica testimonianza mariana del Nuovo Testamento (Galati 4,4). Il Verbo divino è nato come tutte le persone, come ognuno di noi, «da donna». «Incarnatus est»: prende corpo grazie alla Sua mamma che ha nome e volto, Maria di Nazareth. I duecento padri al Concilio di Efeso, il 22 giugno 431 all’unanimità proclamarono Maria, «Theotòkos» (Madre di Dio).

Da allora, su ogni icona mariana, vicino al volto della Vergine leggiamo due digrammi in greco: a sinistra MP, abbreviazione di Meter («Madre»), a destra ΘY, abbreviazione di Theou («di Dio»). Compare questa scritta anche sull’icona riprodotta, la «Salus populi Romani» che Papa Gregorio I portò in processione per invocare la fine della peste (593). Papa Francesco che si reca a S. Maria Maggiore per rivolgere una preghiera, non soltanto nelle grandi feste mariane e prima e dopo i viaggi internazionali, nel pieno della pandemia (15 marzo), si è inginocchiato dinanzi all’immagine della Vergine per chiedere aiuto.

L’icona «scritta» in stile bizantino, dipinta su tela ingessata e applicata su tavola, raffigura Maria con un manto («maphorion») azzurro scuro, sopra ad una veste violacea. La Madre con il Figlio in braccio, tiene nella sinistra una celeste «mappula» (fazzoletto in mano alle alte cariche statali nelle cerimonie), forse perché l’icona è della tipologia, «Regina cœli». Gesù ha nella mano sinistra un libro, forse un evangeliario, mentre con la destra benedice e rivolge gli occhi alla Madre che ci guarda, tutta compresa della sua missione. Le tre stelle, sul capo e sulle spalle di Maria, simboleggiano la sua perpetua verginità (prima, durante, dopo il parto).

Nel primo giorno dell’anno contempliamo «Maria Santissima, Madre di Dio», perché il Figlio che dona la pace, ha offerto a Lei e offre a tutti gli uomini e a tutte le donne, una vita d’amore, per sempre. Nel Vangelo secondo Luca (2,16-21) Ella reagisce diversamente dai pastori e dagli indifferenti abitanti di Betlemme: «Maria, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Guarda, ascolta, prova a mettere insieme, cioè dà un senso a quanto le sta accadendo. È la sapiente che cerca di scoprire il progetto divino sotteso agli eventi.

A noi che da piccoli nell’Ave Maria abbiamo imparato a invocarla come «Madre di Dio», Trilussa nella sua: «Alla Madonna», ricorda:

«Qann’ero ragazzino,
mamma mia me diceva:
Ricordati, fijolo,
quanno te senti veramente solo
tu prova a recità n’Ave Maria.
L’anima tua da sola spicca er volo
e se solleva, come pe’ magìa.
Ormai so’ vecchio, er tempo m’è volato;
da un pezzo s’è addormita la vecchietta,
ma quer consijo nun l’ho mai scordato.
Come me sento veramente solo,
io prego la Madonna benedetta
e l’anima da sola pija er volo!».


Solennità della Santa Famiglia – 27/12/2020
“La famiglia di Gesù”

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Dal ritmo liturgico cristiano ecco un suggerimento prezioso: ampliare il contenuto d’una festa da gustare in più giorni e non in uno solo. Siamo infatti nel «tempo di Natale». Nella domenica dopo il Natale di Gesù, si ricorda la «Santa Famiglia» con il testo dell’evangelista Luca (2,22-40) che ci fa conoscere la vita del Bambino e dei suoi genitori. Come ogni famiglia, pure quella che diciamo santa, si trovò ad affrontare non pochi problemi (avversità, fuga, emigrazione, violenza, incomprensioni) «causati» da quel Figlio, del tutto particolare, magnifico ma anche sconcertante. Dopo che i pastori sono andati a raccontare la bella notizia vista alla grotta, Giuseppe e Maria portano al tempio il neonato di due mesi, non solo per compiere un rito ma per offrirlo al Signore. Qui si rendono conto che non devono tracciare la strada al figlio ma accettarla e favorirla: è la misteriosa vocazione dei genitori. Al tempio ci sono Simeone, un vegliardo e giusto, e Anna, anziana profetessa.

Nel dipinto «Presentazione» (1455), Andrea Mantegna racconta il momento centrale del rito, presentando i personaggi a mezzobusto, quasi scolpiti, come fossero affacciati a una balaustra o a una finestra. Maria, giovane e bella, con il gomito destro sul ripiano, sta per consegnare a Simeone il suo Gesù che, con i piedini appoggiati su un cuscino scuro, è fasciato da lunghe bende bianche tipiche dei neonati, in questo caso richiamo di quelle che lo avvolgeranno nel sepolcro. L’anziano dalla lunga barba bianca – simbolo dell’attesa secolare del popolo ebraico – sta per ricevere il bambino e ringrazia Dio per il momento desiderato da una vita. Mantegna fissa nella tempera su tela la reazione dei presenti alle parole che subito dopo Simeone rivolge a Maria: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». Scrutiamo come parlano gli sguardi: austero quello di Simeone, vicino al pianto in Gesù, preoccupato in Maria, contrariato quello di Giuseppe. Gli altri due presenti, senza aureola – a destra lo stesso artista e a sinistra la moglie Nicolosia Bellini, sorella di Giovanni – sono sposati da un anno: lei, non vuol vedere e sentire, guarda dalla parte opposta; Andrea, crucciato, partecipa.

Il frate Jacopone da Todi, tra gli scritti, sintesi di poesia e preghiera, ci ha lasciato anche lo Stabat Mater speciosa – parallelo allo Stabat Mater dolorosa – dove narra le gioie di Maria a Betlemme. Continuiamo la meditazione natalizia con una delle ventitré strofe di questa sequenza dimenticata dalla fine del 1400 fino a metà del 1800. Maria «Lasciami prendere in braccio il potente e bello / che con la sua nascita vinse la morte, / volendo tramandare la vita».


Santo Natale – 25/12/2020
“Natale di vita”

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Nei giorni di Natale – che liturgicamente terminano la domenica dopo l’Epifania – abbiamo una grande occasione di riscoprire l’evento fondamentale della nostra storia personale e mondiale, leggendo o rileggendo i cosiddetti «Vangeli dell’infanzia di Gesù». Li troviamo nei primi due capitoli del Vangelo secondo Luca e di quello secondo Matteo: sarà di certo un piacevole arricchimento. Le festività natalizie si iniziano con la celebrazione vigiliare per proseguire con tre formulari di preghiere e di letture per il giorno del Natale del Signore (Messa della notte, dell’aurora, del giorno).

Nella celebrazione dell’aurora si legge il brano dell’evangelista Luca (2,15-20). La lunga attesa d’un arrivo (avvento) si è trasformata in un fatto storico, constatato con i propri occhi, dai pastori, a Betlemme: «trovarono Maria e Giuseppe e il bambino in una mangiatoia». Ricordiamolo anche quando guardiamo il presepio e l’albero: Natale non è solo una bella tradizione, non si esaurisce in Babbo Natale, non è una fiaba. È una storia vera che ha cambiato il mondo.

Guardiamo all’opera «Nascita di Gesù», realizzata ai silicati da Adrian Paci nel 2004 a Romano di Lombardia come la prima delle otto «Storie di Gesù», volute da Giuseppe Longhi, allora sindaco, a completamento della facciata del Cimitero cittadino. Il pittore d’origine albanese, a quell’epoca trentacinquenne e poco conosciuto, che oggi ha un ruolo da protagonista nel panorama contemporaneo, si è attenuto al testo evangelico, raffigurando, anche per noi quanto hanno visto i pastori: un bimbo con i genitori. Secondo l’antica tradizione ha aggiunto l’asino e il bue, presenze attive e partecipanti. Le figure, dipinte con colori tenui e quasi in trasparenza, sono come collocate in ogni ambiente e contesto, e sembrano cercare casa, chiedendo ospitalità a chi guarda. Maria al centro, tiene in braccio come ogni mamma il figlio suo e figlio di Dio. Ce lo mostra, invitandoci con il suo sguardo a scoprire in lui bellissimo, il misterioso dono dall’alto, la conferma dell’amore divino fattosi carne. Paci veste la Madre con abiti rosso e blu, secondo la tradizione: il rosso, colore del sangue, ricorda l’umanità mentre l’azzurro/blu rappresenta la trascendenza e il divino. L’ampio e lungo manto evoca il determinante intervento divino: «Lo Spirito Santo scenderà su di te». Giuseppe, in secondo piano, ci assomiglia. Da dietro, più osserva la moglie e Gesù più crescono nella mente e nel cuore dubbi, perplessità, interrogativi. La posa e la figura grigia, senza alcun colore, lo confermano.

Per il Natale c’interpella l’augurio scritto da Salvatore Quasimodo nella conclusione della lirica Natale: «Pace nel cuore di Cristo in eterno; / ma non v’è pace nel cuore dell’uomo. / Anche con Cristo, e sono venti secoli, / il fratello si scaglia sul fratello. / Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino / che morirà poi in croce fra due ladri?».


Quarta domenica di Avvento – 20/12/2020
“Nella Madre s’inaugura la vita”

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Dante guarda in volto Maria di Nazareth più d’ogni altro somigliante al Figlio, «ché la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo» (Paradiso, XXXII, 86-87) che continua a ispirare scrittori, poeti, musicisti, pittori, scultori, architetti. La più antica (II secolo) immagine dell’Annunciazione, si trova affrescata sulla volta d’una piccola camera sepolcrale nelle catacombe di Priscilla a Roma.

L’evangelista Luca (1,26-38), riporta l’annuncio di Gabriele a Maria, ragazza d’un modesto villaggio lontano da Gerusalemme. I versetti introduttivi del brano, confermano che Dio vuol portare a compimento il suo progetto e, attraverso l’arcangelo, rivela alla Vergine il suo disegno di salvezza. Il messaggero, entra nel luogo dove si trova la promessa sposa di Giuseppe e la saluta con «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te». La prima parola di Dio rivolta a Maria è quindi un invito alla gioia perché è stata colmata di grazia per poter accogliere il Figlio di Dio nel suo grembo. Gabriele poi le svela delicatamente e in un crescendo, il mistero di lei Madre e del Figlio suo. L’adolescente alla fine offre la piena disponibilità a lasciar spazio alla Parola e a farla vivere in sé fino a riempirle tutta la vita.

Nella scultura «Annunciazione» (bronzo, ferro, vetro), Ugo Riva si conferma l’artifex che davanti ad ogni opera è – come dichiara in una preziosa intervista – «nella continua ricerca di capire il senso della vita magari nell’angusto tentativo di riunire il mondo della terra con quello del cielo». In quest’opera non leggiamo la ricerca di una forma meramente esteriore che si fa estetismo o maschera vuota con il solo intento di «lustrare» gli occhi. Si coglie invece la tappa di un cammino che, partito da lontano, nel cuore e nella mente dell’artista, dal 2005 continua a disvelare bellezza o almeno qualche suo raggio. Riva modella Maria, sorpresa, che abbassa lo sguardo, reclina il capo verso la destra e sembra ritrarsi. Con le mani dolcemente conserte, ella pare racchiudere con un’emozione religiosa, il suo grembo dove ha appena accolto Dio con il suo sì: «Avvenga per me secondo la tua parola». Per l’artista di Bergamo, apprezzato in tutto il mondo, che frequentemente crea angeli – forse per tenere socchiuso il collegamento tra la terra e il cielo – l’irruzione di Gabriele annunciante il messaggio della vita, ha una grande forza. L’arcangelo, solenne, dispiega le ali – rappresentanti la sollecitudine nel compiere il servizio divino – si muove verso chi guarda, appoggiandosi sulla punta d’un elegante piede. Non ha volto ma parla ad ognuno dello splendido mistero che dà inizio alla storia della salvezza.

Pier Paolo Pasolini nella delicata poesia «Annunciazione»: all’Angelo che chiede «Non senti i figli?», la Madre garantisce: « il grembo / sarà candore. / Pei figli vergini / io sarò vergine».


Terza domenica di Avvento – 13/12/2020
“Andare verso”

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Il testo tratto dal Vangelo secondo Giovanni (1,6-8.19-28) proclamato nella celebrazione domenicale, prima introduce Giovanni Battista (v. 6-8), poi lo presenta come il testimone. Egli è «un uomo mandato da Dio» e perciò, pur non essendo lui la luce, «doveva dare testimonianza alla luce, perché tutti [ebrei e pagani] credessero per mezzo di lui». Di fronte alla delegazione giunta da Gerusalemme per interrogarlo (v. 19-28) su chi egli fosse e per sapere cosa pensasse di Gesù, Giovanni si definisce innanzitutto come colui che «non è» nessuno dei tre personaggi attesi: il Cristo, Elia, il profeta. All’incalzare degli interroganti – «Che cosa dici di te stesso?» – risponde d’essere un inviato per preparare «la via del Signore». Egli infatti testimonia, prepara, mostra con il braccio destro e l’indice tesi colui che viene, Gesù il salvatore.

Quest’opera ci aiuta a «vedere» il Battista, con un corpo scavato, mentre parla e indica chi si deve seguire. Fa un certo effetto, trovarsi a due passi da Ponte Vecchio, di fronte agli «Uffizi», e incontrare una scultura, di circa due metri, realizzata in bronzo da Giuliano Vangi, nel 1996, per Firenze. È san Giovanni Battista, patrono della Città, e non un poveraccio che indica la luna, come qualche turista ha lasciato scritto. L’opera si staglia in un luogo dove transitano molti fiorentini e numerosi turisti e obbliga il passante a rendersi conto di una presenza autorevole che, soprattutto per l’alta qualità dell’ispirazione, non lascia di certo indifferenti.

Il Battista, nel volto e nei capelli quasi stilizzati, dalla bocca semi aperta, vestito con una pelle di cammello ed un mantello, staccati dal corpo scarno, è in movimento in quanto «inviato» a rendere testimonianza al Cristo, la «luce», segnalata con il braccio destro proteso in avanti quasi fosse una freccia che obbliga a guardare nella vera e giusta direzione. Vangi, considerato un grande artista all’avanguardia nella corrente della scultura figurativa italiana del dopoguerra, riesce anche qui ad esprimere, nella grande figura bronzea dai volumi essenziali, i sentimenti e la forza del Santo, con un modellato pulito e semplice.

Il nobile artefice fiorentino offre un capolavoro del testimone che non dà risposte ma accende una scintilla risvegliando la nostalgia di una persona affascinante appena intravista. Ad ogni viandante sembra dire: «Ora tocca a te. Vai più avanti se vuoi lasciarti incontrare dalla Luce…».

È provocatorio l’inizio della poesia «Disattenzione», della polacca Wisława Szymborska, nobel nel 1996. «Ieri mi sono comportata male nel cosmo. / Ho passato tutto il giorno senza fare domande, / senza stupirmi di niente. / Ho svolto attività quotidiane, / come se ciò fosse tutto il dovuto. / Inspirazione, espirazione, un passo dopo / l’altro, incombenze, / ma senza un pensiero che andasse più in là / dell’uscire di casa e del tornarmene a casa».


Solennità dell’Immacolata – 08/12/2020
“Nulla è impossibile a Dio”

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William Congdon, uno dei grandi esponenti della corrente artistica, l’espressionismo astratto («Action painting»), dall’anno del battesimo cattolico ad Assisi (1959), ha realizzato opere religiose rivalutate dalla critica solamente dal 1980, quando si trasferì a Milano dove nel 1998 morì a ottantasei anni.

Maria, la madre di Gesù è stata più volte raffigurata dall’artista statunitense. Questa rappresentazione della Madonna «Immacolata», realizzata nel 1964 ad olio su tavola, si rifà come ogni opera artistica dello stesso soggetto, al brano tratto dal libro dell’Apocalisse (12,1-4), sin dai primi secoli del cristianesimo interpretato in riferimento a Maria. «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle». A partire dal XIV secolo, le così dette «Immacolate», statue o pitture, dominano nell’iconografia mariana europea arricchendosi, dal XVI secolo, della falce lunare e del serpente della Genesi.

L’artista presenta un’immagine essenziale, dove la Vergine raffigurata all’interno di una «mandorla» piena di luce («vestita di sole»), è offerta alla contemplazione dei fedeli. Come Congdon era solito fare, anche in Maria, unica fonte luminosa in un mondo grigio e indecifrabile, non si colgono i lineamenti, «coperti» dai larghi colpi di spatola. Vale pure per questo dipinto quanto il grande maestro scrisse nel diario del 1974: «In tutti i soggetti che mi hanno coinvolto nella pittura, io sono stato condotto da un’urgenza di pescare dal creato, e di imporre sul creato il segno profetico della resurrezione, segno di profezia della mia, della nostra salvezza».

Il pittore fu uno degli artisti più apprezzati da Papa Paolo VI, che riuscì ad incontrare l’8 settembre 1971 a Subiaco. Infatti durante la visita del Pontefice ai monasteri, Congdon che da qualche anno trascorreva l’estate all’eremo del Beato Lorenzo, in accordo con l’abate e i monaci si presentò a Papa Montini per omaggiarlo proprio della sua «Immacolata». Il dipinto, accettato da Paolo VI, ancora oggi fa parte della Collezione d’Arte Contemporanea dei Musei Vaticani. Nel diario, l’artista ricorda l’emozione di quel momento: «Tutto sono preso dall’intimo incontro col Papa. Sono dentro i suoi occhi, così vivi, dolci d’amore penetrante, abbracciante e di sofferenza. […] Tre volte scendo su un ginocchio a baciare la sua piccola mano. E lasciandomi mi dice, e non retoricamente, “I will pray for you” (pregherò per te)».

Uniamoci all’invocazione di Congdon che nel 1995 accomunava la missione della Vergine alla sua missione di convertito: «O Madre, convertimi e illumina tutti con la mia vita. Allora e per sempre sarò luce per gli altri, per quelli che non credono, ma in particolare per quelli che soffrono. Ora sono unito a tutti i vivi e a tutti i defunti, che vivono sperando nel tuo Cristo. Illuminaci, Madre, Madre Vergine, mia e nostra».


Seconda domenica di Avvento – 06/12/2020
“La voce”

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«Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio». Così Marco titola il suo racconto destinato a una comunità di cristiani di Roma convertiti dal paganesimo, perseguitati e tentati dall’integralismo. Cominciando la narrazione, l’evangelista dichiara che il suo vuole essere un «vangelo», cioè una notizia lieta e sorprendente. Come dire: il «vangelo» è Gesù nella sua persona e nella sua opera, è il messaggio da Lui predicato, è il lieto annuncio della vita eterna. Quindi se il vangelo è ridotto a dottrina o a morale o a un insieme di cose di buon senso, perde la proprietà d’essere «lieta notizia», non è più vangelo. In sintesi Marco ci ricorda che il Figlio di Maria (Gesù), oltre al suo nuovo nome, quello di Messia (Cristo), è anche «Figlio di Dio».

Nel brano di Vangelo odierno (Marco 1,1-8) poi, attraverso una citazione biblica, leggiamo di Dio che prepara Giovanni Battista affinché questi possa, a sua volta, far conoscere Gesù. Giovanni è un profeta che vive da nomade asceta, come la «Voce di uno che grida nel deserto».

Nella zona del battistero della chiesa costruita tra il 2000 e il 2006, nel quartiere Stadio o 167 di Lecce e dedicata al Battista, si trova un’opera d’arte creata in quegli anni da Mimmo Paladino e dedicata allo stesso Precursore. L’artista campano che con le sue ventitré tavole ha impreziosito la nuova edizione in italiano del Messale Romano, da domenica scorsa presente in tutte le chiese, ha plasmato il «suo» Giovanni in una statua in bronzo ad altezza naturale, di particolare forza espressiva. Nella figura forgiata con gesti essenziali e vigorosi, Il santo s’impone quale presenza della «voce» che si fa eco della «Parola» incarnata. A mo’ di pettorale il maestro ha scolpito la scritta «Ioannes Baptista», su un’immagine inconfondibile per lo sguardo contemplativo e per lo slancio del profeta, evidenziato dal braccio sinistro che indica il battistero quale origine della sequela del Cristo. Notevole è l’intuizione artistica di modellare, nella parte inferiore, un fanciullo vicino al fusto di una palma. Dove l’acqua, ricordata dalla ciotola, giunge, ha inizio o riprende la vita, anche nel deserto. La «voce» e il gesto riescono a muovere la gente «di tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme» per il battesimo di acqua.

Per questo Giovanni è il personaggio sintesi dell’attesa e della preparazione d’Israele e degli uomini e delle donne di sempre, ad accogliere la «bella notizia» di Gesù Cristo.

Racconta Paladino: «Il mio lavoro non ha mai avuto la necessità di stupire e di provocare, perché provocazione e stupore sono nella magia del segno o della installazione o dell’opera». E aggiunge: «Nei nostri tempi penso che ci sia necessità di riflessione, di approfondimento, di tempi più lenti, anzi di frenare invece che correre».


Prima domenica di Avvento – 29/11/2020
“Volto sveglio”

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Siamo soliti vivere nella «pretesa» che quanto ci piace e chiediamo trovi immediatamente appagamento e risposta. All’inizio dell’anno liturgico 2020 – 2021, ci viene proposto un periodo di quattro settimane circa per allenarci o imparare a vivere, attendendo. Cominciamo infatti, con questa domenica, il tempo dell’attesa, chiamato «Avvento», una figura della vita come attesa. Nel brano secondo Marco (13,33-37), – l’evangelista ci accompagnerà nella maggior parte delle domeniche di quest’anno – leggiamo la parabola del padrone che deve ritornare nella notte, e non si sa quando, a conclusione dell’intervento di Gesù ai discepoli più vicini (le due coppie di fratelli: Pietro e Andrea, Giovanni e Giacomo) sugli ultimi tempi. Dopo aver sollecitato per tre volte gli apostoli a vegliare, il Nazareno, rispondendo alla loro domanda: «Dì a noi: quando accadranno queste cose» (13,4), non riferita alla distruzione del tempio, ma alla venuta del Figlio dell’uomo, estende «a tutti» l’esortazione alla vigilanza.

Ogni persona, con «il suo compito» ricevuto dall’uomo che sta per venire, compreso «il portiere» comandato a «vegliare», è chiamata a superare il pericolo frequente di non vivere più nell’attesa perché si è adattata alla situazione. La risposta di chi attende il ritorno del Signore è di non dormire ma di tenere mente e cuore svegli, evitando indifferenza e pigrizia, paralisi e inerzia, per essere pronti ed operare con amore in ogni momento.

Rileggiamo l’opera del geniale Pablo Picasso, realizzata nel 1962 e intitolata «Volto sveglio». L’ottantunenne artista affronta il tempo che passa e quanto l’attende, riprendendo con insistenza il tema del ritratto dove lo sguardo sembra fissare il futuro. Nel segno nitido e scorrevole emerge una forte energia da chi ci guarda con dei grandi occhi che indagano nell’oltre, con inquietudine e con malinconia, quasi in cerca di un «domani». Come la vita, pure l’arte attende in una continua tensione: guarda con attenzione, mette a fuoco, si concentra, non si distrae. Mi viene in mente la famosa incisione «Melencolia I» di Albrecht Dürer dove gli occhi tristi della donna-angelo, ai cui piedi stanno abbandonati gli strumenti di lavoro, guardano in alto quasi in attesa di «novità» desiderate.

Lo sguardo particolarmente «sveglio», dipinto dall’artista catalano, buca la tela e sembra dare uno scossone alla nostre noncuranza e abitudinarietà. Nel contempo ci sollecita a spalancare gli occhi e gli orecchi per saper leggere il presente e scoprirvi con il cuore un poco di eternità, vigilando perché, se in un primo momento pare che ci manchi qualcosa, poi ci si accorge che manca Qualcuno.

Nella raccolta di poesie «Il bar del tempo», scritte dal contemporaneo Davide Rondoni, una è stata composta di fronte alla moglie incinta da poco, per la prima volta. I versi conclusivi sono una splendida sintesi di come vivere il periodo che oggi si inizia.

«…La felicità
è l’attesa, è il tempo».


Solennità Cristo Re – 22/11/2020
“Solo l’amore crea”

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Conservo un libro ricco sulla splendida Cattedrale di Parma con la dedica-ricordo d’un felice incontro con il Vescovo, l’amico Cesare Bonicelli, da più di dieci anni passato nell’eternità. In quell’occasione visitai anche il Battistero, capolavoro spirituale e artistico, progettato da Benedetto Antelami che lasciò firma – «scultor Benedictus» – e data d’inizio dei lavori (1196) sull’architrave del Portale della Vergine che si affaccia a nord, su Piazza Duomo.

Oltre al Portale del Battista, posto a meridione, il Battistero in marmo rosa di Verona, di struttura ottagonale, sviluppata in altezza, ha l’ingresso principale che guarda ad ovest, attraverso il Portale del Redentore detto anche Portale del Giudizio perché mostra ai fedeli la via indicata da Gesù per arrivare «pronti» all’incontro definitivo con Lui. Nella lunetta sopra la porta è infatti scolpito il Cristo Giudice attorniato da angeli con i simboli della passione e, nell’architrave sottostante, sono rappresentati i morti che escono dai sepolcri al suono delle trombe angeliche.

Sullo stipite di destra è narrata la parabola evangelica della vigna per far memoria che Dio chiama alla salvezza ogni uomo e ogni donna, dalla prima fino all’ultima ora. La fascia scultorea sullo stipite di sinistra racconta in sei riquadri, su quali scelte di vita saremo giudicati.

Rileggiamo la pagina evangelica di Matteo (25,31-46), scritta nella pietra. Nel discorso sul giudizio finale il Redentore misericordioso insegna come essere misericordiosi. Saremo giudicati secondo la regola di vita così indicata da Dio: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi».

Il racconto per immagini dell’Antelami, da leggere partendo dal basso, ha come protagonista l’uomo caritatevole, con la fisionomia del Cristo, il «Beatus» che accoglie lo straniero con la tunica e il bordone del pellegrino in mano, lava i piedi al malato, porge una ciotola di cibo alla coppia affamata, dà un bicchiere d’acqua agli assetati, porta doni a un carcerato con le catene ai piedi, aiuta un ignudo a indossare la tunica. In dettaglio, nell’immagine corrispondente alla terza formella, il «Beatus» sta offrendo una ciotola di cibo a una coppia affamata, seduta su due sgabelli e, sotto, sta scritto: «escam larga manus hec porrigit esurienti» (a piene mani si dà da mangiare all’affamato). L’artista scolpisce umanizzando e rendendo la scena più realistica e leggibile: sulla spalla sinistra dell’uomo che è imboccato dal «Beatus», la donna appoggia la mano ad esprimere familiarità, condivisione e compartecipazione anche nel bisogno di cibo.

Quale attuale sintesi del Vangelo è la frase ripetuta da Lucia, la protagonista del romanzo I Promessi Sposi, che fece breccia nel cuore dell’Innominato, incaricato di rapirla: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!».


XXXIII domenica del tempo ordinario – 15/11/2020
“Per un talento creativo”

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Nel Vangelo (Matteo 25,14-30) Gesù ritorna su due caratteristiche necessarie a chi vuol seguirlo: vigilanza attiva e responsabilità coraggiosa. Il Cristo è come «un uomo che, partendo, per un viaggio» ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni che egli ha fatto a ciascuno. Ai tre servi ha lasciato molti dei suoi beni – «a uno cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo la capacità di ciascuno» – da amministrare saggiamente fino al ritorno.

Nell’opera «La parabola dei talenti», realizzata per la chiesa di Londra dedicata a St Edith, Clayton & Bell – uno dei laboratori di vetrate colorate più apprezzati in Inghilterra alla fine del XIX secolo – danno una dimostrazione e una conferma d’essere eccellenti nell’uso dei colori e maestri nel raccontare storie. Nella scena il padrone raffigurato al centro, in secondo piano, di spalle, con un prezioso abito, ha appena consegnato i talenti ai dipendenti e parte per un viaggio. I servi, con abiti diversi, vistosi per la foggia e per i colori, sono descritti con i loro talenti in mano. Quello sulla sinistra osserva i due e nel volto possiamo intuire che stia pensando a come valorizzare responsabilmente le occasioni della vita. Il servo di destra tiene in modo vistoso i cinque talenti e, mentre si sta muovendo per far fruttificare operosità e intraprendenza, guarda quasi compatendo il collega che, al centro, sta per nascondere sotterra il talento.

La scena centrale è tutta di questo servo, che non vuole correre rischi e perciò non traffica e si limita a conservare. Addirittura sostiene il talento con la mano ricoperta da un lembo del mantello quasi per paura di rovinarlo…Con l’altro braccio impugna una vanga ed è pronto a scavare una buca dove nascondere quanto ha ricevuto. In questa finestra, espressione artistica della pittura con la luce che attraverso i cambiamenti nel corso della giornata dà vita al vetro colorato, i due alberi grandi e rigogliosi sembrano confermare con efficacia l’avvenuto investimento dei doni ricevuti dai due servi.

Il centro del racconto sta nel dialogo tra il padrone e il servo che nasconde il talento perché ritiene il padrone «un uomo duro» e, di conseguenza, non può che aver paura fino a ritenersi giusto in quanto restituisce quanto ha ricevuto. «Il servo inutile» è gettato «fuori nelle tenebre» mentre gli altri due che hanno operato nel quotidiano con fantasia e creatività, sono chiamati uno dopo l’altro «servo buono e fedele», e perciò premiati: «prendi parte alla gioia del tuo padrone».

Dal «Diario 1941-1943» di Etty Hillesum, giovane olandese ebrea, vittima dell’Olocausto ad Auschwitz, un suggerimento stimolante: «Essere fedeli a se stessi, a Dio, ai propri momenti migliori. Soprattutto, devo essere più fedele a quel che vorrei chiamare il mio talento creativo, per modesto che sia».


XXXII domenica del tempo ordinario – 08/11/2020
“La differenza non sta nel dormire”

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Quando siamo invitati alle nozze ci prepariamo per tempo alla festa e non agli ultimi cinque minuti. Non parliamo poi degli sposi…Nel brano di Vangelo secondo Matteo (25,1-13), è lo sposo che ritarda l’arrivo. Ce lo narra Gesù nella parabola con cui precisa le condizioni per entrare nel Regno dei cieli. Dieci vergini sono state chiamate a fare le damigelle d’onore nell’attendere l’arrivo dello sposo per poi accompagnarlo in corteo al banchetto nuziale. Le ragazze dotate di lampade perché allora la cerimonia delle nozze di solito si celebrava la sera inoltrata, «poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono». Gesù precisa che cinque si sono dimostrate sagge perché previdenti (pro-videre, vedere prima, prepararsi) hanno portato con sé, oltre alle lampade, anche i vasetti con l’olio di riserva contrariamente alle altre cinque ritenute perciò stolte.

«A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”». Si erano tutte addormentate come a dire che non sta nel sonno la differenza tra i due gruppi. Le prudenti si svegliano, mettono l’olio nelle lampade e sono pronte. Mentre le altre vanno a comprare l’olio, arriva lo sposo e quelle «che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa». Arrivano quelle che non si sono preparate. All’insistente preghiera allo sposo: «Signore, signore, aprici!», si sentono rispondere le tremende parole: «non vi conosco». Oltre al tema generale (l’incontro con Cristo alla fine dei tempi) sono narrati simbolicamente: le vergini rappresentanti due differenti modi d’attendere il Regno, le lampade accese allegoria della vigilanza e l’olio di chi è fedele.

Rileggiamo ora il testo attraverso il polittico di Giulio Aristide Sartorio, «Le Vergini Savie e Le Vergini Stolte», (1927-1928), ora alla Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale. L’opera che conferma quanto i gusti dell’artista rimasero legati alla pittura di carattere liberty, segna il passaggio dalla rappresentazione oggettiva della realtà a una dimensione più intima e soggettiva. Nei due settori laterali del dipinto, espressione del simbolismo déco, Sartorio raffigura a sinistra le vergini sagge e a destra quelle stolte mentre nello scomparto centrale accenna alla sfera celeste dell’eterna beatitudine. Di grande effetto è il simbolismo della porta che, dall’anta aperta di sinistra, lascia trasparire la luce divina in contrasto con l’anta di destra che resta chiusa nonostante una ragazza stia bussando con il battente.

Oltre alle numerose ed evidenti citazioni (da Pisanello le aureole a rilievo e da Ghiberti l’iconografia della «Porta del Paradiso» nel Battistero di Firenze), il simbolismo è sottolineato anche dalle piante rappresentate come pini (alberi senza frutto) negli scomparti laterali mentre compaiono gli olivi oltre la porta dello scomparto centrale.

Nel cuore d’ogni persona c’è sempre l’attesa. «Non aspetto nessuno: /ma deve venire, /verrà, se resisto. /A sbocciare non visto, /verrà d’improvviso, /quando meno l’avverto: /… verrà, forse già viene /il Suo bisbiglio» (Clemente Rebora).


Solennità di Tutti i Santi – 01/11/2020
“Quale cammino per essere un buon cristiano?”

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Quale cammino per essere un buon cristiano?

Siamo chiamati a far trasparire nella vita d’ogni giorno quanto Gesù proclama con le Beatitudini dove si delinea il Suo volto. La pagina del Vangelo secondo Matteo (5,1-12) della solennità di Tutti i Santi, annuncia una santità raggiungibile da tutti con una vita buona, bella e persino allegra, già reale nei santi e nelle sante della porta accanto.

Le otto situazioni descritte dal Vangelo (chi patisce povertà, chi sente con mitezza, chi sa ancora piangere, chi è inquieto per la giustizia, chi avverte misericordia, chi ha educato il cuore a vincere ogni cattiveria, chi ricerca la pace per tutti, chi soffre persecuzione per la giustizia) sono come le situazioni quotidiane in cui la santità è possibile. Emerge il ritratto di credenti che sono felici proprio perché hanno tenuto aperta la loro sensibilità. I santi sono capaci di relazioni normali, di andare avanti nonostante gli errori.

Ogni attività – il lavoro e il riposo, la vita familiare e sociale, l’esercizio delle responsabilità politiche, culturali, economiche –sia piccola sia grande, se vissuta in unione con Cristo e con amore e nel servizio, è occasione per vivere in pienezza battesimo e santità evangelica.

Intorno al 1911 Wassily Kandinsky, l’artista di origine russa che ha lasciato opere straordinarie e un testo, forse il più celebre, «Lo spirituale nell’arte», studiò molto il tema «Tutti i Santi» realizzandone alcune versioni. Nel dipinto ad olio che si trova a Monaco (Städtische Galerie im Lenbachhaus), rappresentando il Giudizio Universale con richiami al libro dell’Apocalisse, egli conferma l’importanza svolta dai soggetti sacri nelle sue creazioni. Nella tela – una piacevolissima sinfonia di colori – sulla sinistra un possente angelo con la tromba annuncia il Giudizio per tutti, anche per gli abitanti di Mosca che compare lontano. Sono molto numerosi coloro che hanno seguito il Cristo in croce sul Golgota: i due abbracciati e felici ci guardano dal paradiso svelato dall’azzurro sotto i piedi; altre persone si stanno alzando dal sepolcro; qualcuno è premiato perché ha saputo vegliare (candela accesa); ci sono i rappresentanti dei pagani dell’Europa orientale che grazie alla predicazione di S. Stefano si sono convertiti; il patrono di Mosca, San Giorgio, sul cavallo bianco che s’impenna, sta trafiggendo il corpo rosso, giallo, blu del drago con le fauci aperte. Con tutti i santi, noti e ignoti, con l’aureola, siamo in Cielo. Lo conferma Kandinsky mostrandoci la farfalla figura dell’immortalità dell’anima, la rosa di Gerico volutamente ingrandita perché è il fiore della risurrezione, la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, simbolo del trionfo di Cristo e della nuova vita.

Quindi, ci conferma papa Francesco nella recente Esortazione sulla chiamata alla santità: «Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (Gaudete et exsultate 14).


XXX domenica del tempo ordinario – 25/10/2020
“L’unico amore”

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È probabile che la comunità alla quale Matteo scrive il vangelo, richiedesse un’indicazione per un comportamento non più soggetto alla selva d’obblighi e divieti. Erano infatti 613 i precetti da osservare, un numero carico di riferimenti simbolici: 248 (numero delle ossa del corpo umano) i comandamenti positivi + 365 (numero dei giorni dell’anno) quelli negativi. Leggiamo pertanto nel brano evangelico (Matteo 22,34-40) la provocazione d’un rappresentante dei farisei, un dottore della legge, che interroga Gesù per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il più grande comandamento?».

Gesù non sceglie tra i dieci comandamenti ma afferma che l’intera Legge si compendia nel vivere l’esistenza intera nell’amore che non separa mai Dio dal prossimo. E dà una risposta imprevista e illuminante rifacendosi a due testi tratti rispettivamente dal Deuteronomio (6,5) e dal Levitico (19,18). Il grande e primo comandamento è: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» e il secondo simile a quello: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».

Egli così sorprende il dottore della legge e i farisei. Non ci consegna due precetti in più ma due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in ogni persona. È il criterio autentico dell’esistere: l’amore del prossimo è inseparabile dall’amore che diamo a Dio. Lo conferma Giovanni: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1ᵃ 4,20). I due piani sono così uniti da intersecarsi formando una croce: la dimensione verticale (amore a Dio) ha il vertice in cielo e quella orizzontale (amore al prossimo) si espande per tutta la terra.

Molti uomini e molte donne hanno deciso di fare di questa sconvolgente rivelazione evangelica lo scopo della vita. Camillo de Lellis, nato a Bucchianico vicino a Chieti 470 anni fa, è uno di questi. In occasione della cerimonia della canonizzazione (29.6.1746) nella basilica di S. Pietro, il pittore francese Pierre Subleyras, su commissione dei Camilliani, realizzò l’opera «San Camillo salva gli ammalati dell’Ospedale Santo Spirito durante l’inondazione del Tevere del 1598». Nella corsia allagata, l’artista presenta una drammatica scena: Camillo si sta prodigando con alcuni confratelli, da lui convinti, a mettere in salvo gli ammalati portandoli al piano superiore. Religiosi e infermi, sono rappresentati con espressioni composte e dignitose, in forma quasi idealizzata. In primo piano un inserviente con nel cesto un pane e le poche cose velocemente salvate evidenzia la situazione critica.

Nel 1582 Camillo creò la «Compagnia dei Ministri degli Infermi» (riconoscibili per la croce rossa cucita sull’abito) secondo il comandamento dell’amore: «Voglio organizzare una compagnia di uomini pii e da bene, che non per mercede, ma volontariamente e per amor di Dio, servano gli infermi, con la carità e l’amorevolezza che hanno le madri per i propri figli infermi».


XXIX domenica del tempo ordinario – 18/10/2020
“La persona, «moneta» con l’immagine di Dio”

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Al tempo di Gesù, uomini, donne e schiavi dai 14 ai 65 anni dovevano versare annualmente all’erario di Roma una tassa pro capite di un denaro d’argento (il «census»), l’equivalente d’una giornata lavorativa, in quanto la Palestina era assoggettata al potere di Roma, e al Tempio, un denaro d’argento («fiscus Judaicus») con l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37) e la scritta: «Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto».

Farisei ed erodiani, secondo l’evangelista Matteo (Matteo 22,15-21) chiedono a Gesù: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Se Cristo avesse risposto: «Sì», lo avrebbero accusato d’essere complice dei romani; se avesse risposto «No», avrebbe violato la legge.

William Xerra indirizza il nostro sguardo a leggere nella sua opera (collage e tecnica mista su cartoncino) posta nel «Lezionario per le messe “ad diversa”» tra le pp. 394-395, i profili di volti che si oppongono e si sovrappongono, dove sembra tradurre visivamente la derivazione latina del verbo «confrontare»: «cum» (insieme) e «frons» (fronte), cioè «mettere di fronte». Oggetto del confronto è la frase di Gesù: «Mostratemi la moneta del tributo» (v. 19), scritta in stampatello e posta a metà dell’opera, in verticale.

Il Nazareno provoca dunque farisei ed erodiani. Li obbliga ad affrontare il quesito da loro sollevato ad arte per metterlo in difficoltà, perché prendano coscienza della presenza quotidiana: sia erodiani (collaborazionisti dell’impero romano) sia zeloti (negazionisti del diritto dei romani di riscuotere tasse) infatti pagavano tranquillamente il tributo anche se per ragioni diverse.

Xerra anche qui conferma il modo di operare secondo quanto ha dichiarato in un’intervista: «Nel mio lavoro, ho cercato sempre di collegare le parole allo spazio, far sì che i frammenti di parola che utilizzavo sul foglio germinassero nuovi spazi, nuove contaminazioni: volevo che fosse lo spazio a gestire la parola». Egli pone di fronte i volti di sei persone, delineati da un semplice tratto, allo scopo di sollecitare la reazione di coloro che hanno interrogato Gesù, facendo emergere somiglianze e differenze, pareri e opinioni. Il racconto evangelico in questo modo interpella tutti, donne e uomini, consegnandoci un messaggio sempre attuale: la questione del rapporto Stato-cittadini e di conseguenza quella delle tasse.

La risposta di Cristo: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (v. 22) segna una «distinzione» tra la sfera della politica e quella della fede, stabilisce una «gerarchia» tra Cesare e Dio (è quest’ultimo il primo), provoca a «discernere» che cosa dare a Cesare e che cosa a Dio.

«La barbarie inizia ove qualcuno e qualcosa si ritiene “dio” dell’altrui coscienza riducendo la persona a strumento o mezzo della propria astratta e assolutizzata visione della vita. Né Chiese braccio religioso degli Stati né Stati braccio secolare delle Chiese. Oltre ogni confusione non richiesta e ogni privilegio» (Luigino Bruni).


XXVIII domenica del tempo ordinario – 11/10/2020
“Tutti invitati”

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Alla vigilia della sua passione e morte, Gesù narra una parabola (Matteo 22,1-14) che si può dividere in tre parti. Iniziamo a «leggere» quanto l’anonimo pittore olandese, «il monogrammista di Brunswick», ha dipinto nel 1525 circa, nell’opera «Parabola del grande banchetto», oggi al Museo Nazionale di Varsavia.

Guardiamo con un poco di pazienza per orientarci nelle varie parti che l’artista ha tratto dal racconto evangelico. La prima scena è raffigurata a sinistra, sullo sfondo, come si era soliti fare nei dipinti olandesi del periodo. Due guardie reali a cavallo stanno sollecitando «i chiamati» (così nel testo originale, il greco) al banchetto nuziale, ma invano. Al loro rifiuto, il re ordina ai servi di ritornare dai «chiamati», dicendo che «tutto è pronto» (v. 4) e che vengano alle nozze del figlio. Alcuni sono indifferenti e pensano ai loro affari e altri, addirittura, insultano e uccidono i messaggeri regali. «Allora il re si indignò» e – lo vediamo nella scena che sta prima delle guardie a cavallo – «fece uccidere quegli assassini» (v. 7).

Nella seconda parte della parabola il re, a sorpresa, ordina ai servi d’invitare tutti al convito di nozze, buoni e cattivi, «e la sala delle nozze si riempì di commensali» (v. 10). Finalmente la festa si inizia. Sul palazzo dipinto, le torce sono accese e le tende alzate, i musicanti rallegrano i presenti e la sala si riempie di ospiti.

Al centro, in primo piano ci sono: un uomo ipovedente guidato dal suo cane, un altro, storpio, che si sostiene con la stampella e una donna, povera, che con un bimbo in braccio e una piccola attaccata alla vestaglia, cerca posto. I tre alludono alla fede, alla speranza e alla carità. Appena dietro, nel cortile, compaiono delle persone sedute intorno al tavolo che si aiutano vicendevolmente.

Siamo alla conclusione della parabola. Sotto i musici, il re è seduto al tavolo principale con alla destra gli sposi e attorno i familiari che banchettano. La scena successiva – in primo piano, a sinistra – ci presenta il re che entra «per vedere i commensali». Mentre sta salutando un ospite, scorge un uomo senza veste e gli chiede: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?» (v. 12). Per meglio comprendere il finale, ricordiamo la consuetudine orientale: il re donava ai «chiamati» la veste del convito. L’artista olandese dipinge il momento nel quale due servi stanno gettando in una buca l’uomo senza la veste nuziale, eseguendo così l’ordine regale: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori, nelle tenebre» (v. 13).

La scena, del tutto inattesa, ci ricorda che aver accolto l’invito ed essere entrati nella sala non dà alcuna garanzia d’essere salvati. Spiega san Gregorio Magno: «Entra alle nozze senza le vesti nuziali colui che crede nella Chiesa, ma non ha la carità».


XXVII domenica del tempo ordinario – 04/10/2020
“Niente scoraggia l’amore di Dio”

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Leggiamo il brano evangelico (Matteo 21,33-43) attraverso una splendida miniatura tratta dallo «Speculum Humanæ Salvationis» (Lo specchio dell’umana salvezza). L’opera del 1360 circa, attribuita a Ludolfo di Sassonia, certosino a Strasburgo, è un’esposizione in latino della storia dell’umana Redenzione in 45 capitoli di versi ritmati, abbellita di miniature e poi di xilografie. Il libro è costruito secondo il genere letterario conosciuto come uno «Speculum» (specchio) cioè il confronto tra episodi dell’Antico Testamento (detto tipo) con altri corrispondenti del Nuovo Testamento (antitipo).

Nella parte bassa della miniatura (tipo) è raffigurato un gigantesco grappolo d’uva che, appeso ad un palo, due uomini, aiutandosi con il bastone, stanno portando a spalla per mostrarlo al popolo ebraico in cammino, come prova della fertilità dell’ormai vicina terra promessa da loro appena esplorata (cfr. Numeri 13,23). A questo episodio biblico, segno delle abbondanti protezioni di Dio per Israele, fa da antitipo quanto è rappresentato nella parte superiore della miniatura: la «parabola dei vignaioli assassini» che racconta della risposta malvagia dei capi di Israele alle benedizioni di Dio.

Il proprietario affida la sua vigna a dei contadini perché la coltivino e la custodiscano fino al tempo dei frutti. I vignaioli non solo maltrattano e uccidono i servi inviati dal padrone a ritirare il raccolto ma uccidono addirittura il figlio, l’erede, convinti così di ottenere la vigna. È questa la scena miniata. Sul portale di ingresso alla vigna cinta di mura e rigogliosa di grappoli, dove al centro campeggia una torre alta e articolata, due servi stanno uccidendo il figlio.

A quel punto Gesù invita gli ascoltatori a giudicare la situazione descritta: «Quando verrà il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?» (v. 40). E la risposta ovvia dei capi religiosi di Israele destinatari del messaggio – questi vignaioli meritavano il peggio – finisce per incriminarli. «Perciò io [Gesù] vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti» (v. 43).

La parabola che traccia la storia della salvezza evidenziando tappe oscure e luminose, non contiene solo un giudizio ma anche una promessa. Il fallimento del popolo d’Israele fa nascere un popolo nuovo, «altri contadini che consegneranno i frutti a suo tempo» (v. 41).

Dio non abbandona mai il suo popolo. Egli ha continuato a inviare profeti nonostante la ribellione e i tradimenti. Nella pienezza dei tempi, Dio ha mandato il Suo stesso Figlio convinto che «Avranno rispetto per mio figlio!» (v. 37) non per condannare ma per richiamare tutti alla vita.

Facciamo nostra la preghiera che padre Turoldo scrisse in forma poetica a commento di questa pagina evangelica.

«La vera vite Tu sei e noi i tralci,
solo con Te porteremo frutto,
e della vigna faremo un giardino
dove ognuno si senta di casa».


XXVI domenica del tempo ordinario – 27/09/2020
“Camminare fiduciosi sulla via di Dio”

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Oggi il brano di Vangelo secondo Matteo (21, 28-32) fotografa un quadretto di vita in famiglia di immediata e facile comprensione. Molti genitori rivedono l’atteggiamento più o meno frequente dei propri figli ma anche il modo di fare quando, da figli, rispondevamo alle richieste del papà o della mamma.

Gesù vuole coinvolgere chi lo sta ad ascoltare – i sommi sacerdoti e gli anziani – e li invita a prendere posizione. In forma di parabola, narra di un padre che propone a ciascuno dei due figli di andare a lavorare nella vigna che possiede. Il primo risponde: «Non ne ho voglia». Poi si pente e ci va; il secondo dice: «Sì, signore». Ma non ci va. Quindi il Maestro provoca gli uditori: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».

Rileggiamo adesso la pagina evangelica guardando la «Parabola dei due figli» di Andrey Mironov, che ha definito il cristianesimo «il tema principale delle sue opere». Nello spazio della stanza appena indicato, all’inizio della giornata segnalata dalla prima luce dell’alba che si intravvede attraverso la finestra sulla destra, l’artista autodidatta fissa lo stato d’animo dei personaggi. L’attenzione è focalizzata sul viso e sulle mani dei tre, nettamente caratterizzati e portatori di esperienze umane di enorme intensità emotiva.

Nel dipinto del 2012 (Russia, collezione privata), il pittore russo contemporaneo presenta a sinistra il padre attempato che sull’abito bianco veste un ampio manto rosso. Nello sguardo profondo e nel gesto della mano sinistra, emerge la sofferenza conseguente al rifiuto ricevuto dal secondo figlio.

In primo piano è ritratto, quasi senza volto e con abiti dal tono grigio, il primo figlio, deferente, equilibrato, «obbediente» che sta davanti al padre col capo chino. Il secondo figlio è rappresentato in modo vivo, con un manto azzurro, nell’atto di rifiutare la chiamata al lavoro, con la mano destra alzata e il capo in posizione opposta allo sguardo paterno. Dietro la superficie scomposta e ribelle, c’è un cuore vero.

L’evangelista Matteo, prosegue il racconto con il rimprovero di Gesù ai sommi sacerdoti e agli anziani per non aver seguito l’esempio dei pubblicani e delle prostitute che, fidandosi della parola di Giovanni Battista, hanno accettato il battesimo di penitenza. «Voi, al contrario, – continua Gesù -avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

Il pentimento e la conversione non partono dalla conoscenza anche perfetta della legge ma dal cuore di chi riconosce in Dio non un padrone ma un padre che vuole solamente far felice ogni figlia e ogni figlio.

Giovanni Crisostomo anche a noi scrive: «Quando ritorniamo ad amare ardentemente Dio, egli non ricorda più il passato. Abbiate sempre fiducia e fatevi coraggio. Basta che vi incamminiate sulla via che porta alla salvezza e avanzerete rapidamente».


XXV domenica del tempo ordinario – 20/09/2020
“L’immensa misericordia di Dio”

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Verona, Museo di Castelvecchio. Cerchiamo la tela dei «Lavoratori della vigna» dipinta da Francesco Maffei nel 1645.

Prendiamo il brano del Vangelo secondo Matteo (20,1-16) e leggiamo. Gesù continua a narrare del «Regno dei cieli» raccontando la parabola degli operai della vigna. Come da noi in queste settimane, anche allora, per vendemmiare in tempo utile, era necessario l’impiego di braccianti giornalieri in aggiunta ai dipendenti fissi. Perciò questo padrone esce molto presto a cercare in piazza dei lavoratori, poi ci ritorna alle nove, a mezzogiorno, alle quindici e alle diciassette promettendo ai primi un denaro e agli altri «quello che è giusto» (v. 4). In Israele la giornata di lavoro si iniziava con i primi raggi del sole e proseguiva fino alle ore sei del pomeriggio. Era consuetudine fare un contratto orale che stabiliva il prezzo per la giornata da consegnare prima del tramonto del sole.

Guardiamo l’opera del pittore vicentino sapientemente ripartita, dai colori luminosi, stesi con pennellate veloci e leggiamola in parallelo con il testo evangelico.

Siamo al termine della giornata di lavoro, alle diciotto. Il fattore, raffigurato sulla sinistra, sta distribuendo, a partire dagli ultimi, la paga pattuita, aiutato da un servo che gli regge il vassoio con le monete d’argento. Il pittore risolve con uno stratagemma il seguito della parabola, inserendo nello spazio tra il primo lavoratore, il servo e il fattore, una «finestra» con la figura del padrone accompagnato dallo stesso fattore, in un registro più basso della scena principale, a livello dei due lavoratori della prima ora, a mezzo busto, in penombra, sulla destra. Questi si guardano sconcertati e stanno brontolando a motivo della retribuzione uguale per tutti, indipendentemente dalle ore e dalla fatica. Interviene il proprietario, con la destra appoggiata al petto e lo sguardo dritto verso di loro che, dopo aver ricordato d’essere stato ai patti, esclama: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (v. 15).

La conclusione della parabola («Così gli ultimi saranno i primi e i primi, ultimi») insegna che Dio chiama ogni persona alla salvezza, in qualsiasi momento della vita e dà prova d’una bontà senza limiti che supera la giustizia senza per questo comprometterla e nessuno dev’essere invidioso.

Ricordo che Bruce Marshall ha dedicato alla parabola il romanzo: «A ogni uomo un soldo» e che, esempio di chiamata «all’ultima ora», è «Giacomone», l’ubriacone e il bestemmiatore che Guareschi trasforma in un santo: si toglie il tabarro per riscaldare un crocifisso di legno e muore nella neve. «Il vecchio prete del paese rimase a lungo a guardare quella strana faccenda. Fece seppellire Giacomone nel cimitero del paesino e fece incidere sulla pietra: “Qui giace un cristiano, e non sappiamo il suo nome, ma Dio lo sa, perché è scritto nel libro dei Beati”».


XXIV domenica del tempo ordinario – 13/09/2020
“Perdonare sempre”

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Nel brano del Vangelo odierno (Matteo 18,21-35) ci viene confermato quanto è stupefacente e incredibile l’amore di Dio: sempre pronto a perdonare.

Pietro che ben conosce quanto prescrive la tradizione giudaica – perdonare fino a tre volte lo stesso peccato e poi riconciliarsi con chi l’ha commesso – si rivolge al Maestro chiedendo se basti perdonare «fino a sette volte» (v. 21) un debito al fratello. Gesù all’apostolo che si aspettava un apprezzamento per aver ecceduto nel numero, risponde: «Fino a settanta volte sette» (v. 22), cioè sempre, come fa il Padre con ogni persona. E subito, per far comprendere questo insegnamento e mettere in guardia chi rinchiudendosi nel proprio orgoglio è incapace di accogliere la gratuità del condono e di concederlo al fratello, racconta la parabola di un uomo che, pur essendo un debitore perdonato, si trasforma in un brutale creditore.

Sono poche le opere d’arte che nei secoli hanno «scritto» il racconto della «Parabola del servo malvagio». Leggiamo quella che si trova nel Musée des Beaux Arts di Tours in Francia, realizzata da Claude Vignon nel 1629, non da tutti riconosciuta con questo titolo. L’artista narra nel suo stile solenne, dai colori vivaci e luminosi, e in modo assai espressivo, la parte finale della parabola dove emerge la spietata crudeltà dell’uomo che, pur essendo stato graziato di un debito enorme, non ha saputo perdonare chi gli doveva una piccola somma. Vignon dà un particolare risalto alla reazione del padrone che, continua il racconto di Gesù, «fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto…perché mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”» (vv. 32-33). Osserviamo il dipinto. In un ambiente facilmente riconoscibile come parte di un’abitazione regale – mobilio, tendaggi, monete d’oro, libri di conto con un foglio in bilico dove sta la firma dell’autore e l’anno dell’opera – il sovrano, sontuosamente vestito, sta pronunciando la sentenza contro il malvagio accompagnando alle parole un evidente gesto del braccio sinistro con l’indice puntato. Per contrapposizione, sulla sinistra, in un piccolo spazio, vediamo il servo vestito semplicemente e trattenuto da due guardie dagli abiti preziosi che, resosi conto che il momento è tragico, con la mano sinistra sul cuore implora un’impossibile grazia mentre trattiene ancora nella destra un sacchetto, forse di denaro.

Ai tempi di Gesù un talento equivaleva a 6.000 denari e uno stipendio medio mensile era di 30 denari. Quindi per pagare il debito di 10.000 talenti, quell’uomo avrebbe dovuto lavorare circa 200.000 anni.

Siamo chiamati a perdonare «settanta volte sette», proprio perché siamo «sempre» perdonati dall’infinita misericordia di Dio.

Il monaco Serafino di Sarov (1754-1833), uno dei santi più popolari della Russia, ci rassicura: «Il peccato dell’uomo è un pugno di sabbia, la misericordia divina un mare sconfinato».


XXIII domenica del tempo ordinario – 06/09/2020
“Vivere fraternamente”

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Siamo ad Aquileia. Sin dalla fondazione (181 a.C.), la città fu avamposto di Roma, centro d’irradiazione del Cristianesimo nell’Italia del nord e nelle regioni europee del centro e dell’est, vivace porto commerciale del Mediterraneo. Dopo aver visitato con soddisfazione la Basilica, il più antico edificio cristiano dell’Italia del nord-est, portiamoci in località Monastero, entriamo nel Museo Paleocristiano che, dal 1961, si trova nell’ex- monastero delle Benedettine del IX secolo e saliamo al primo piano.

Fermiamoci a contemplare il bassorilievo in pietra calcarea della fine del IV secolo raffigurante l’abbraccio tra Pietro e Paolo, ritrovato nel 1901 nei dintorni della basilica paleocristiana dedicata ai martiri Felice e Fortunato. Il rilievo incompiuto dei busti degli apostoli, scolpiti di profilo, riempie lo spazio della lastra. I due santi, simbolo dell’unità della Chiesa, manifestano nei volti i caratteristici lineamenti codificati, poco dopo l’Editto di Milano (313), nell’iconografia chiamata «concordia apostolorum» (la concordia degli apostoli).

La mano che spunta dal mantello chiuso, rende ancor più evidente la stretta dell’abbraccio tra gli apostoli, raffigurati alle porte di Roma, poco prima del martirio. La caratterizzazione voluta e precisa dei volti rappresenta la diversità di Pietro e Paolo: pur molto differenti l’uno dall’altro, hanno saputo vivere da fratelli grazie al Vangelo del Cristo, realizzando il comandamento dell’amore, malgrado nel loro rapporto non siano mancati conflitti.

Prendiamo il Vangelo e leggiamo il testo (Matteo 18,15-20) che ci aiuta a comprendere come la sequela di Gesù conduce alla nuova fraternità, dove la diversità vissuta nell’amore è in grado di creare l’unità, non l’uniformità.

Matteo è l’unico evangelista ad usare il termine «chiesa» (ekklesìa, in greco). Dopo il passo del primato di Pietro, il vocabolo compare nel brano odierno dove Gesù, descrivendo le caratteristiche della comunità cristiana, esorta i discepoli ad esercitare, con delicatezza e crescente forza di persuasione, la correzione fraterna in tre precise graduali modalità. Inizialmente, se riesce a tu per tu: «avrai guadagnato il tuo fratello» (v. 15). Il secondo tentativo si fonda sulla forza giuridica derivante dalla presenza «di due o tre testimoni» (v. 16). Infine, se il fratello «non ascolterà neanche la comunità (ekklesìa), sia per te come il pagano e il pubblicano» (v. 17), cioè non appartiene più alla comunità cristiana: è scomunicato. Il Maestro poi, dopo aver ripresentato il tema del «legare» e «sciogliere» per non dimenticare la necessità di correggere e perdonare e non solo di giudicare, invita i discepoli a pregare insieme per la guarigione della comunità. Grazie a Lui il Padre esaudisce la preghiera: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (v. 20).

Proprio Paolo testimonia la forza dell’amore di Dio: «Colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per le genti» (Galati 2,8).


XXII domenica del tempo ordinario – 30/08/2020
“Seguire il Maestro”

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Roma, Piazza del Popolo. Entriamo nella Basilica di S. Maria del Popolo. Dopo una breve preghiera, andiamo alla prima cappella laterale nel transetto sinistro, la Cappella Cerasi, dedicata a S. Maria Assunta come narra la pala sull’altare. Ci troviamo avvolti da capolavori, realizzati nel 1600-1601 da due tra i più grandi maestri del barocco: l’«Assunta» di Annibale Carracci e la «Crocifissione di san Pietro» (a sinistra) e la «Conversione di san Paolo» (a destra), opere conosciute realizzate da Caravaggio.

Alziamo ora lo sguardo. Sulla volta a botte di questo vano interno della cappella, vediamo affreschi ideati dal Carracci ed eseguiti dal collaboratore Innocenzo Tacconi: «Incoronazione della Vergine» (ovale centrale), «Cristo ordina a Paolo di lasciare Gerusalemme» (riquadro destro), «Cristo appare a Pietro» (riquadro sinistro).

È il momento di leggere il Vangelo secondo Matteo (16,21-27). Dopo avergli assegnato il primato tra gli apostoli, Gesù ammonisce Pietro perché ha reagito in maniera impetuosa all’annuncio del Maestro che a Gerusalemme avrebbe sofferto, sarebbe stato ucciso per poi risorgere: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini» (v. 23). Gesù traduce subito dopo ai discepoli il significato del rimprovero a Pietro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (v. 24).

Riguardiamo la decorazione ad affresco della volta, alla scena di sinistra che raffigura l’incontro tra Cristo e Pietro lungo la Via Appia, secondo la narrazione di «Acta Petri» (scritto del XII secolo, sulla vita di san Pietro), ripresa due secoli dopo dalla «Legenda Aurea» di Jacopo da Varazze. Cristo appare al primo degli apostoli che sta fuggendo da Roma per evitare la persecuzione dei cristiani decisa da Nerone. Pietro, sbigottito, chiede al Maestro che tiene sulla spalla sinistra una grande croce: «Domine, quo vadis?» (Signore, dove vai?). Alla risposta: «Vengo a Roma, per farmi crocifiggere una seconda volta», Pietro comprende il messaggio, segue l’indicazione della mano destra di Gesù, ritorna a Roma e accetta il martirio.

È probabile che il cardinale Pietro Aldobrandini abbia così apprezzato questo affresco della cappella Cerasi, da commissionare al Carracci la splendida tavola – ora alla Royal Academy di Londra – che l’artista eseguì circa un anno dopo.

Il brano evangelico sollecita ad essere dei discepoli del Maestro senza la pretesa di tutto comprendere subito: dove e come si va, con chi si cammina, quando s’arriva. Il discepolo di Cristo è colui che si pone sulla strada indicata, disposto a procedere ovunque essa lo porti. Per Gesù fondamentale non è imparare ma seguirlo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me».

Oggi il calendario ricorda il beato Ildefonso Schuster, indimenticabile cardinale di Milano dal 1929 al 1954. Teniamo nel cuore una sua affermazione: «Alla fine, ciò che conta per la vera grandezza è l’amore».


XXI domenica del tempo ordinario – 23/08/2020
“Chi dite che io sia?”

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Che fascino trovarsi in piazza Vecchia, a «Bèrghem de Sura»! Dalla fontana del Contarini ci incamminiamo verso la Basilica di S. Maria Maggiore, passando sotto il duecentesco Palazzo della Ragione. A sinistra la Cattedrale, a destra il battistero ottagonale, davanti la Cappella Colleoni. Lì accanto, entriamo in Basilica e, dopo un momento di preghiera favorito dalle immagini, ci portiamo in fondo alla chiesa per ammirare, accanto alla tomba di Gaetano Donizetti, uno splendido confessionale, opera d’intaglio di Andrea Fantoni, terminato nel marzo 1705 dopo dieci mesi di lavoro. In questo mobile liturgico voluto dal Concilio di Trento nel 1551, vediamo un vano centrale riservato al confessore e due spazi laterali per i penitenti, per far sì che nella confessione i fedeli siano separati dal sacerdote.

Davanti a noi, in alto, sulla cimasa, sta la figura scolpita di Dio Padre e sotto, in cornice ovale, la scena di «Cristo consegna le chiavi a San Pietro».

Leggiamo il Vangelo di questa domenica (Matteo 16,13-20) che troviamo anche sul cellulare.

Gesù domanda ai suoi che cosa dice di lui la gente. Risposte: un grande uomo, un profeta, tipo Elia o Geremia, o Giovanni Battista. Il Maestro poi interroga i suoi: «Ma voi, chi dite che io sia?» (v. 15). È una domanda che da allora continua a proporsi, ad ogni persona credente o non: risposte senza fine, opinioni disparate, discussioni animate, filosofie e ideologie, mode e attualizzazioni, innumerevoli espressioni culturali. L’inchiesta di Gesù tra gli apostoli sulla sua identità, si conclude con la confessione di Pietro che, a nome di tutti, dà la risposta giusta: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (v. 16).

Continuiamo la lettura con uno sguardo d’insieme tra il testo scritto con i caratteri e quello nel legno. Lo scultore Andrea Fantoni, nato e morto ad Alzano Lombardo (Bergamo), ha messo a basso e alto rilievo in bosso, entro cornice in noce, il momento successivo: il conferimento del primato a Pietro. Gesù in piedi, rivolto all’apostolo, ha appena esclamato: «E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (v. 18) e sta consegnando le chiavi. Il pescatore di Galilea è sorpreso dalle parole e dal gesto del Nazareno. In ginocchio, si porta la mano sinistra al cuore come a dire «proprio a me?», guarda il volto del suo Maestro, allarga la destra per ricevere le chiavi. Il momento solenne anche per noi, è garantito dai due apostoli – testimoni, è impreziosito da Maria (dietro un discepolo), è partecipato dalla natura, è narrato in movimento come fa capire l’elegante movenza dei panneggi, è evidenziato dalla sinistra di Gesù che indirizza il nostro sguardo in alto, dove il Padre accoglie a braccia aperte

Pertanto: Chi è Gesù per ognuno e ognuna di noi?


Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria – 15/08/2020
“Maria, sicura speranza”

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Nella solennità dell’Assunta andiamo, a Celana di Caprino Bergamasco raggiungibile, deviando a Cisano, sulla strada Bergamo – Lecco. Raggiungiamo la parrocchiale adiacente al collegio-convitto sorto nel 1579 voluto da Carlo Borromeo (fra gli allievi anche Angelo Roncalli, poi papa Giovanni XXIII). Come entriamo in chiesa, siamo catturati dai colori, dalla luce, dai personaggi dipinti sulla vasta tela che si trova nell’abside: è la pala della «Assunzione della Vergine» di Lorenzo Lotto.

Prendiamo il Vangelo odierno (Luca 1,39-56) e leggiamo. Maria fa visita ad Elisabetta che, con ammirazione, così saluta la cugina: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (v. 42). Maria è benedetta in quanto ha generato il Figlio di Dio ma è ben più grande per la fede, perché ancor prima ha concepito nel cuore. E da allora, per tutta la vita, si è trovata a rinnovare il suo «Sì», a crescere nella fede fino alla prova suprema quando, sotto la croce, assiste alla morte del Figlio. Coinvolta sin dall’inizio nell’opera redentrice del Cristo, vincitore della morte, riceve in dono di essere la prima dei salvati e di essere portata in paradiso.

Contempliamo ora, la straordinaria pagina d’arte, scritta nel 1527 – è in parte leggibile sul rotolo, in basso a sinistra – a Venezia da Lorenzo Lotto, seguendo una tradizione del IV secolo. Gli apostoli dopo essersi radunati a pregare attorno a Maria morente, al suo trapasso portano il corpo in un sepolcro nella valle di Giosafat. Mentre stanno esprimendo il dolore, improvvisamente abbagliati da una grande luce, riescono a vedere il corpo della Madre di Dio portato in cielo. I dodici robusti popolani, vestiti di splendidi colori, reagiscono con vivacità: chi si appassiona indicando Maria, chi esprime meraviglia, chi contempla come Pietro al centro, in ginocchio e di schiena, chi cerca aiuto come i tre di destra che si abbracciano, chi cerca di guardare aiutandosi con la mano, chi sembra voler seguire la Vergine come quello a sinistra con il piede alzato. Due stanno ancora guardando all’interno del sepolcro: vicino a Giacomo il maggiore con il bordone da pellegrino, ce n’è uno con gli occhiali – forse Tommaso, sempre bisognoso di verifiche – che trova solo delle rose al posto del corpo della Vergine. Secondo alcuni, lo stesso apostolo, più o meno giustificato, era assente all’evento e Maria, che è sempre una mamma attenta a tutti, regala la sua cintura a lui che sta sotto l’albero di sinistra.

Nel mezzo della mandorla formata in basso dalla valle e in alto dalle nubi, Lotto dipinge una solenne e nel contempo leggera figura di Maria mentre, scortata da quattro angeli, sta salendo verso il cielo da cui proviene una potente luce che fa brillare persino il volto degli apostoli.

L’Assunzione di Maria, umana come noi, è l’anticipazione del finale glorioso riservato a chi si affida a Cristo, garanzia e promessa della vita senza fine. Perciò – afferma il Concilio Vaticano II nel documento sulla Chiesa (Lumen Gentium 68) – Maria «brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione».


XIX domenica del tempo ordinario – 09/08/2020
“Coraggio, non abbiate paura!”

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A Firenze, siamo appena usciti contenti dalla grandiosa Cattedrale di Santa Maria del Fiore, in stile gotico. Davanti abbiamo uno dei monumenti più importanti di Firenze, dal 1128 diventato il Battistero della città, dedicato al suo patrono San Giovanni Battista e perciò chiamato da Dante «mio bel San Giovanni» (Inferno, XIX 17).

Ammiriamo l’edificio a pianta ottagonale, con la cupola a forma di piramide pure ottagonale, caratterizzato all’esterno da tre porte (da poco sostituite da copie), ricche di preziosi e raffinati bassorilievi in bronzo. Avviciniamoci alla porta che Michelangelo chiamò «del Paradiso», realizzata per seconda da Lorenzo Ghiberti e poi muoviamoci verso destra fino a raggiungere la porta che si trova a nord, compiuta dallo stesso artista fiorentino. Proseguendo nella stessa direzione, incontreremo quella di Andrea Pisano (a sud).

La Porta nord è il primo capolavoro del Ghiberti, realizzato tra il 1403 e il 1424, su «Gesù, mediatore della nuova alleanza», seguendo il formato inventato da Pisano in ventotto formelle con cornici gotiche quadrilobate.

Prendiamo il Vangelo dalla borsetta o dallo zaino e leggiamo al capitolo 14 di quello secondo Matteo, dal versetto 22 al 33. Gesù ordina agli apostoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda del lago di Tiberiade. Nella notte la barca è in grande difficoltà a causa del forte vento contrario e all’alba i discepoli credono di vedere un fantasma venire verso di loro camminando sulle acque. Gesù si fa conoscere dicendo: «“Coraggio, sono io, non abbiate paura!”. Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”» (vv. 27-28). All’invito di Gesù, Pietro scende dalla barca e cammina verso il suo Maestro. Dopo poco comincia ad affondare e grida: «Signore salvami!» (v. 30).

Guardiamo alla formella n. 8 sul battente di sinistra della porta, e continuiamo la lettura evangelica attraverso la raffigurazione creata da oltre seicento anni. Gesù ha accolto l’invocazione di Pietro che sta per annegare e gli tende la destra alla quale l’apostolo si aggrappa con le due mani. Il Maestro, sicuro e ritto sui piedi appoggiati sulle onde, ammonisce Pietro il cui corpo si confonde con le ondulazioni del mare in tempesta: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (v. 31).

Il ritmico movimento della formella è sottolineato dalla barca in balia delle onde sulla quale gli apostoli terrorizzati si stringono a vicenda, in due gruppi, per affrontare il furore degli elementi, mentre uno scruta il cielo che sta per rasserenarsi e con la mano sinistra cerca di tenere a bada le vele arrotolate.

Sant’Agostino, immaginando di rivolgersi a Pietro e a ognuno di noi, annota: il Signore «si è abbassato e t’ha preso per mano. Con le tue sole forze non puoi alzarti. Stringi la mano di Colui che scende fino a te».


XVIII domenica del tempo ordinario – 02/08/2020
“Pani e pesci per tutti”

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In agosto e settembre, scriverò il commento artistico-spirituale al Vangelo domenicale, attraverso opere artistiche raggiungibili in gite giornaliere.

Oggi, immaginiamo d’essere a Ravenna davanti alla Basilica dal IX secolo intitolata a Sant’Apollinare Nuovo, fatta erigere da Teodorico nel 505 come chiesa di culto ariano, dedicata, nel 540, con l’avvento di Giustiniano, a S. Martino di Tours. Entriamo e gustiamo per un momento la preziosità della superficie delle pareti della navata centrale, interamente rivestita da mosaici, distribuiti su tre fasce distinte, realizzati tra il 493 e il 526. Volgiamo ora lo sguardo al registro superiore che, sul lato posto a sud, racconta episodi della passione di Cristo e, in quello a nord, parabole e miracoli. Qui riconosciamo il brano delle Nozze di Cana e, subito dopo, ci fermiamo davanti al miracolo della Moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Prendiamo il Vangelo secondo Matteo (14,13-21) e leggiamo il passo che narra di questo prodigio, ritenuto così rilevante dai primi cristiani da essere raccontato nei Vangeli per sei volte. Gesù prova tenerezza per la folla che lo ha seguito e guarisce gli ammalati e, verso sera, ai discepoli che lo avevano sollecitato a congedare la gente, dice: «voi stessi date loro da mangiare» (v. 16). Come fare se hanno a disposizione solo cinque pani e due pesci? Uomini, donne e bambini si siedono sull’erba e guardano a Gesù.

Ora continuiamo la lettura alzando gli occhi alla splendente scena mosaicale dal fondo dorato. Al centro, di fronte a noi, emerge prepotente la figura di un giovane e imberbe Cristo, con tunica e manto purpurei e con attorno al capo un’aureola nella quale è inscritta una croce. Egli «prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli alla folla» (v. 19).

Con le tessere policrome di pasta vitrea, l’anonimo artista ha fissato questo momento: Gesù è raffigurato con le braccia distese, in forma di croce. A destra stanno Andrea con i pesci e Pietro, suo fratello, con barba bianca; a sinistra ci sono probabilmente i fratelli Giacomo, con i pani e Giovanni. I quattro hanno le mani coperte, secondo la prescrizione prevista per chiunque potesse ricevere o fare doni all’imperatore. I pesci sono due e i pani solo quattro perché – i cristiani d’allora lo sapevano bene – il primo pane che ha fondato la chiesa, la nutre e le insegna a dar da mangiare a chi ha fame, è Gesù che più volte si definisce: «Io sono il pane della vita».

S. Pier Giuliano Eymard, fondatore dei religiosi «Sacramentini», che oggi ricordiamo, scrive: «Gesù è il padre che ha preparato la tavola di famiglia. Alla santa tavola, tutti sono dei figli che ricevono lo stesso cibo».


XVII domenica del tempo ordinario – 26/07/2020
“Il vero tesoro”

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«Chi trova un amico, trova un tesoro», è un proverbio assai conosciuto. Ha origini antiche quanto il libro biblico, l’unico dell’Antico Testamento con la firma dell’autore, il Siracide. Proprio da circa 2.200 anni, lì, dopo alcuni consigli per distinguere la vera dalla falsa amicizia, sta scritto: «Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro» (6,14). Per esperienza, tutti sappiamo che l’amicizia, se vera, è come un tesoro di gran valore che può cambiare la vita.

L’evangelista Matteo, nel brano oggi proclamato nelle Celebrazione eucaristiche di rito romano (13,44-52), presenta tre parabole narrate da Gesù: quelle simili del tesoro nascosto e del mercante di perle e quella della rete. Quest’ultima (vv. 45-50), con l’immagine della rete che raccoglie ogni genere di pesci, si rifà alla parabola del grano e della zizzania: il contrasto bene-male sarà risolto solo alla fine da Dio che, nell’attesa di quel giudizio, si dimostra paziente e disponibile.

Le parabole del tesoro nascosto (v. 44) e del mercante di perle (vv. 45-46) sono brevi ma efficaci per il nostro vivere. Per ben comprendere la prima – «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» – ricordiamoci che nell’antichità si usava nascondere sottoterra, in anfore o altri contenitori, denaro e oggetti preziosi, specialmente all’avvicinarsi di eserciti nemici. Dopo un po’ di tempo, superato il pericolo, qualcuno per caso trovava il nascondiglio e diventava improvvisamente ricco.

Ci aiuta ad approfondire il senso della parabola, il pittore olandese Gerrit Dou, che lavorava nella bottega di Rembrandt, con la tavola dipinta nel 1630 circa.

In primo piano sta l’uomo fortunato, in abiti del XVII secolo, con un ginocchio a terra, nella mano destra una pala e con la sinistra sembra indicare il tesoro scoperto. Sulla destra, risalta il contrasto tra le sue cose quotidiane (giacca, cesta con il pranzo, borraccia con l’acqua) e la fortuna appena trovata (pezzi in argento, una bisaccia con dei soldi, sacchetti per custodire gioielli).

Ma è lo sguardo dell’uomo che stupisce. Egli non osserva il tesoro e neppure l’ambiente della fatica quotidiana, i campi dove lavorano due contadini. Pare volgere lo sguardo fuori scena, pensando al suo passato o forse al futuro da costruire. L’artista raffigura al centro dei campi un campanile quasi a dire: per vivere in pienezza è fondamentale aver fede

Chi scopre il Regno dei cieli, chi cioè incontra Cristo, cambia radicalmente il suo vivere in meglio, lascia quanto ha perché ha trovato il tesoro, vende tutto per comperare la perla d’inestimabile valore. Quindi, dopo aver letto la parabola, il proverbio può diventare: «Chi trova il Cristo, trova un amico, trova un tesoro».


XVI domenica del tempo ordinario – 19/07/2020
“Grano e zizzania, insieme”

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«Extra Ecclesiam nulla salus» (Al di fuori della Chiesa non v’è salvezza) è una frase latina, quasi certamente del vescovo di Cartagine Cipriano in una lettera a papa Stefano del 256. Perfino nel film «8½» del 1963, uno dei capolavori di Fellini, il cardinale (Tito Masini) nell’indimenticabile scena del bagno turco, la cita in risposta all’affermazione di Guido (Marcello Mastroianni) – «Eminenza, io non sono felice» – attribuendola ad Origene.

Con il Concilio Vaticano II e le successive encicliche è stata superata l’affermazione della centralità della Chiesa, riconoscendo l’importanza delle altre religioni, restituendo al detto latino «il suo senso originale: esortare alla fedeltà i membri della Chiesa. Questa frase, non è più in contraddizione con la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza» (Commissione Teologica Internazionale, n. 30, 1997). È come dire che da sempre nel mondo e nella chiesa il «grano» cresce insieme alla «zizzania» e la «zizzania» insieme al «grano», e il bene cresce sullo stesso terreno della natura umana.

Nel brano odierno del Vangelo (Matteo 13,24-43), Gesù, dopo aver pronunciato la parabola all’aperto, davanti a tanta gente, saluta e si porta nella casa di Pietro. Qui i discepoli chiedono spiegazioni che noi possiamo ampliare così: «Se il mondo e il cuore degli umani sono stati creati da Dio per il bene, da dove viene il male? Perché c’è sempre stato il male e forse sempre ci sarà?».

Preso atto che il mito dei «puri», presente in ogni epoca quanto meno come tentazione, è tipico, da una parte, delle sette e, all’opposto, di quanti, per paura, scelgono di non fare nulla, Gesù risponde: «Lasciate che la zizzania e il grano crescano insieme fino alla mietitura» (v. 30). Cioè, in ogni uomo e in ogni donna, credente o non credente, nella Chiesa e in ogni realtà, il grano e la zizzania ci saranno fino alla fine.

Rileggiamo l’insegnamento evangelico nell’opera che il pittore olandese, Abraham Bloemaert, realizza nel 1624. In secondo piano il diavolo, riconoscibile dalle corna e dalla coda, sta spargendo i semi di zizzania in un campo già seminato. L’artista mostra in primo piano gli effetti di questa semina: le persone non vigilano dall’inizio (Adamo ed Eva, nudi) e per sempre (i dormienti). Di conseguenza crescono le erbacce, le ceste sono senza cibo e per tutti il futuro è solo morte eterna (ai piedi di Adamo, il caprone lo ricorda).

Bloemaert che fu un cattolico praticante, suggerisce anche a noi due elementi per contrastare e vincere il male: l’intelligenza, rappresentata dal cavallo che sta pascolando (sulla destra) e la Grazia che è data attraverso la Chiesa simbolicamente raffigurata dalla piccionaia (a sinistra). Il meraviglioso pavone appollaiato sul muro diroccato (a sinistra), in quanto simbolo della risurrezione dei corpi, è garanzia di vita piena ed eterna per chi vive con intelligenza e nella Grazia.


XV domenica del tempo ordinario – 12/07/2020
“Sta a noi far profumare la vita”

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Gesù sceglie un pulpito insolito: una barca. Seduto, come fa di solito un maestro, racconta sette parabole alla gente che lo ascolta sulla riva, iniziando da quella del «seminatore». La parabola, una specie di paragone in forma di racconto, è uno dei mezzi impiegati da Gesù per presentare il suo insegnamento.

Immergiamoci nella lettura del Vangelo di oggi (Matteo 13,1-23). Pare che, diversamente da noi, nel terreno palestinese si iniziasse a seminare e, solo dopo, ad arare; inevitabile così che parte del seme finisse tra le pietre o sul sentiero oppure tra i cespugli.

Nel brano evangelico, il risultato della semina operata dal contadino che, definito con l’articolo determinativo (il seminatore), non può che essere Gesù, è legato a due fattori determinanti: la libertà di ogni cuore che non accoglie o perché indurito o perché troppo pieno d’altro, o che accoglie superficialmente e la forza del seme abbondante – Gesù stesso e la sua parola – che alla fine dà un risultato superiore ad ogni attesa.

Ora «rileggiamo» la parabola nel quadro «Il seminatore al tramonto» realizzato da Van Gogh in Provenza, nel 1888, dopo otto anni di studio sull’omonima opera di Jean-François Millet. Così Vincent scrive al fratello Theo: «Ho avuto una settimana di lavoro intenso e senza fiato nei campi di grano in pieno sole. Ne sono risultati degli studi di grano, dei paesaggi e lo schizzo di un seminatore. Su un campo arato c’è una lunga striscia di zolle di terra viola e sull’orizzonte si staglia un seminatore bianco e azzurro. Nella linea dell’orizzonte del campo, grano maturo corto. Su tutto ciò, cielo giallo con sole giallo. Dalla semplice nomenclatura di queste tonalità, puoi vedere che il colore ha una parte molto importante in questa composizione» (Lettera 501). Il pittore olandese raffigura nel punto focale il sole che, in un giallo infuocato e quasi sfolgorante, fa rifiorire la natura, sullo sfondo di una messe che biondeggia. Meravigliosa la genialità dell’artista: la semina e la mietitura del grano sono contemporanee. Dio infatti, non smette di spargere semente, incurante che gabbiani e corvi ne mangino.

Papa Francesco frequentemente invita a: «Seminare pace intorno a noi: questo è santità» (Gaudete et exultate, 89); «Anche questa è misericordia: seminare bellezza e allegria in un mondo a volte cupo e triste» (16.6.2016); «Semina olio di speranza, semina profumo di speranza e non aceto di amarezza e di dis-speranza» (31.5.2017).

Saverio Ghilardi – il ventiseienne di Romano di Lombardia morto sabato 27 giugno a Edolo, presso i Corni di Premassone, tradito da una delle amate vette – cinque giorni prima, durante una gita in bicicletta con i genitori e il fratello più grande, uscì con una frase molto stimolante anche per noi: «Una vita trascorsa da spettatori, puzza! Sta a noi farla profumare».


XIV domenica del tempo ordinario – 05/07/2020
“«Piccola via» alla santità”

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Molti di noi custodiscono nel cuore la semplicità del modo di vivere di genitori e nonni, di alcune persone, che con profonda fiducia in Dio, da noi, a volte, guardata con sufficienza, sapevano ricondurre tutto – gioie e fatiche, soddisfazioni e contrarietà, progetti e insuccessi – alla «Provvidenza» riconosciuta in ogni persona, nel creato, nelle stagioni, nel suono delle campane. Uomini e donne che ci sono di esempio nello scoprire e gustare i piccoli grandi miracoli quotidiani della vita e nel mantenere la curiosità di stupirci e di conoscere.

Penso a loro mentre rileggo il brano del Vangelo (Matteo 11,25-30) specialmente nella prima parte quando Gesù benedice il Padre in un momento difficile perché le città della Galilea hanno rifiutato l’opera da Lui compiuta. «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (v. 25-26). I «piccoli» sono i semplici, elogiati dal Maestro («Beati i poveri in spirito»), i fanciulli nella mente e nel cuore che si affidano al Signore e ai quali, diversamente da chi vuol fare da sé, Egli ri-vela il Padre che nel Figlio manifesta il suo eterno amore per noi.

Marcello Mondazzi riscrive l’affermazione di Gesù in una tavola (matita e tecnica mista su carta e plexiglas), riprodotta e posta nel «Lezionario per le celebrazioni dei Santi» tra le pp. 528-529. È il racconto di un mondo dove, in un gioco di ombre tra le immagini che si sovrappongono creando trasparenze leggere, sono rappresentati un pastore adulto a figura piena e scura su fondo chiaro e, in primo piano, un ragazzo che sorride. L’uno e l’altro attorniati da pecore, ne portano una sulle proprie spalle. L’artista abruzzese allude al Natale in cui Dio stesso, nascendo in una stalla, si è fatto piccolo bambino, visitato e riconosciuto innanzitutto dai pastori. Nel contempo accenna all’antica immagine di Cristo, buon pastore, pronto a lasciare il gregge per ritrovare la pecorella smarrita.

Teresa di Lisieux, carmelitana, morta nel 1897 a soli 24 anni, segnò la spiritualità del ‘900 con la sua «piccola via» alla santità. «Vorrei anch’io trovare un ascensore per salire la dura scala della perfezione. Allora ho cercato nei libri dei santi l’indicazione dell’ascensore, oggetto del mio desiderio, e ho letto queste parole: “Se qualcuno è piccolissimo, venga a me. Come una madre carezza il suo bimbo, io vi consolerò, vi poserò sul mio cuore e vi terrò sulle mie ginocchia”. Mai parole più tenere, più armoniose hanno allietato l’anima mia: l’ascensore che deve innalzarmi fino al cielo sono le vostre braccia, Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, al contrario bisogna che resti piccola, che lo divenga sempre più».


XIII domenica del tempo ordinario – 28/06/2020
“Cristiano: «cireneo» della gioia”

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Cireneo: «Chi, spontaneamente o costretto, si addossa una fatica o una pena che toccherebbe ad altri o sopporta comunque il peso di colpe non sue: fare il cireneo» (Treccani, Vocabolario on line). Cireneo è il nome con cui è indicato Simone da Cirene che, secondo i Vangeli, fu costretto dai soldati che scortavano Gesù al Golgota, a portarne la croce.

Nel Vangelo di oggi (Matteo 10,37-42), ascoltiamo la conclusione del discorso missionario che Gesù ha rivolto ai discepoli rimarcando due note indispensabili nella vita di chi lo vuol seguire: sia Lui al centro del cuore e del vivere, e il contenuto dell’annuncio. Le parole di Gesù «chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (v. 38), non sono un invito a soffrire perché è l’amore il nucleo della bella notizia portataci dal Figlio di Dio, una vita donata nell’amore, ogni giorno, fino alla morte.

Il Cireneo è un esempio di sequela di Gesù. Egli, senza volerlo e saperlo, si ritrova accanto a Lui per aiutarlo a portare la Croce. A volte, noi pure incappiamo in situazioni difficili che non comprendiamo e per di più non abbiamo cercato. Eppure, se questo accade a credenti e no, esse chiedono ai cristiani d’essere «portate» come una croce, d’essere cioè vissute con lo stesso amore di Dio che offre la vita per gli altri: dalla croce alla vita piena, da risorti.

Nel quadro «Simone di Cirene», realizzato dall’artista e sacerdote tedesco Sieger Köder come parte di un ciclo sulla passione di Gesù, i due sono rappresentati mentre si sostengono l’un l’altro, in un unico corpo, avvinghiati spalla a spalla, uniti guancia a guancia, sotto un pesante legno che portano insieme. Anche Simone, che si è trovato dalla parte di Gesù sulla salita al Calvario, ci guarda con la stessa espressione del Condannato e cerca aiuto e conforto. L’artista, scomparso recentemente, differenzia chi tra poco sarà crocifisso dal compagno di strada: quello, con la veste di colore rosso sangue, è pallido nel viso e nelle mani più sottili, mentre questo, nel colore del volto e nelle dimensione delle mani, mostra «che veniva dalla campagna» (Marco 15,21).

Ogni croce è meno pesante se la si porta insieme e il cristiano sa che, con lui c’è sempre Chi per primo ha preso sulle spalle le croci di tutti.

Facciamo nostro l’intento del detenuto che così concludeva la sua riflessione nella quinta stazione della Via Crucis, presieduta dal Papa sul sagrato di S. Pietro, il venerdì santo scorso: «Sogno di diventare un cireneo della gioia per qualcuno. Anche noi, come il Cireneo, vogliamo farci prossimi dei nostri fratelli e delle nostre sorelle e collaborare con la misericordia del Padre ad alleviare il giogo del male che li opprime».


XII domenica del tempo ordinario – 21/06/2020
“Nolite timere”

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Chi non ricorda l’esortazione di Giovanni Paolo II in apertura del pontificato: «Non abbiate paura! Spalancate le porte a Cristo!»?
Frequentemente nella Bibbia compare l’esortazione «Non temere», con cui Dio garantisce la presenza al suo popolo e a chi si affida a Lui. Così Mosè in uno degli ultimi atti: «Siate forti, fatevi animo, non temete e non vi spaventate di loro [nazioni vicine], perché il Signore, tuo Dio, cammina con te; non ti lascerà e non ti abbandonerà» (Deuteronomio 31,6).

Nel Vangelo di questa domenica (Matteo 10,26-33), Gesù per tre volte ripete ai suoi discepoli: «Non abbiate paura» di chi è contrario all’annuncio, di chi uccide il corpo ma nulla può contro l’anima, perché voi valete molto. Dio non vuole la sofferenza e la morte. Chiede di aver fede e di affidarsi a Lui che condivide la storia di ogni persona, partecipa al suo vivere, la sostiene: «Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Giovanni 16,33).

Il grande pittore e artista francese Jean-Marie Pirot, conosciuto come Arcabas, morto a 91 anni nel 2018, trovava nella Bibbia la fonte principale d’ispirazione. La sua opera più importante è il monumentale ciclo di decorazioni realizzato dal 1953 al 1986 nella chiesa de Saint-Hugues de Chartreuse, dove egli ha raccolto gran parte delle opere, dal 1984 diventata Museo Dipartimentale d’Arte Sacra. Grazie all’amicizia con il fondatore e responsabile della Comunità Nazareth, l’artista negli anni 1993-1994 ha creato un fantastico percorso artistico sul racconto evangelico dei pellegrini di Emmaus nella chiesa della Risurrezione a Torre de’ Roveri (Bergamo) e, nel 2002, nella Cappella della Riconciliazione di Costa Serina (Bergamo), insieme alle vetrate, ha realizzato su tela un maestoso dipinto sulla parabola del Padre misericordioso.

Il tema biblico «Nolite timere» attraversa tutta la poetica di Arcabas e, forse, ne è la sintesi. L’aveva affrescato sin dall’inizio all’ingresso della sua casa di Grenoble, «come se – aveva dichiarato – volessi dire alla gente, entra, sii libera!». Lo ha ripreso più volte nelle sue indimenticabili opere, presenti nel mondo, giustificandolo, secondo il Vangelo, in questo modo: «La frase [Nolite timere] e gli angeli che la dicono, sono esistiti nella mia casa per più di 40 anni».

È un pro-memoria anche per noi, profondamente feriti negli ultimi tre mesi, angustiati dal presente, preoccupati dal futuro. «Nolite timere, non abbiate paura», sembra dire a chi l’ammira, il messaggero celeste che il maestro dell’arte sacra del Novecento ha ricavato da un ritratto della figlia di dieci anni. Leggero come le sue ali dipinte in piccoli cerchi di rame, l’angelo accoglie i visitatori di Saint-Hugues guardandoli negli occhi e traducendo nella serenità del suo volto, quanto sta in maiuscolo sul cartello.
Con gratitudine, riconosciamo che ad Arcabas, «Dio – come egli diceva dei colleghi – certamente ha concesso il suo sorriso e la sua tenerezza».


Solennità del Sacro Cuore di Gesù – 19/06/2020

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La devozione della Chiesa cattolica al Sacro Cuore di Gesù si inizia ufficialmente nel 1600 in seguito a rivelazioni ad alcuni santi tra i quali i più noti sono i francesi Giovanni Eudes e Margherita Maria Alacoque. Questa giovane monaca nel 1673 svela un’apparizione: il Sacro Cuore di Gesù attorniato da fiamme e «da una corona di spine e sormontato da una croce». Poco dopo, con una matita, ne traccia un disegno. Il pittore Pompeo Batoni, seguendo la descrizione della monaca, nel 1760 realizzò su rame una rappresentazione che fu posta in una cappella della Chiesa del Gesù a Roma e che, d’allora, divenne l’immagine ufficiale per la devozione popolare al Sacro Cuore di Gesù.

La naturalezza della raffigurazione sorprese anche Lucio Fontana, il multiforme e rivoluzionario artista del novecento italiano. A lui, il gesuita padre Arcangelo Favaro, fondatore nel 1951 a Milano del centro culturale S. Fedele, commissionò la grande pala in ceramica smaltata e invetriata del «Sacro Cuore di Gesù», che dal 1956 si trova all’altare della Cappella Guastalla, la seconda a destra, della chiesa dei Gesuiti dedicata a S. Fedele.

Il grande artista argentino di origine italiana realizzò, sul tema molto caro alla spiritualità della Compagnia di Gesù, l’imponente opera, composta da ventotto formelle, seguendo l’iconografia tradizionale iniziatasi con gli scritti di S. Margherita e diffusa dal direttore spirituale, il gesuita francese Claude de la Colombière. Nella ceramica, accesa genialmente da Fontana, il Cristo nella sua sfolgorante solennità, traduce l’irrompere di Dio nella storia umana. È una presenza a cui siamo invitati per accogliere in dono l’amore divino simboleggiato, al centro, dal cuore rosso sangue che offre a tutti vita piena e abbondante, figurata dai raggi dorati che vanno in ogni direzione. In basso, a sinistra, la santa, a braccia aperte e in ginocchio, aiuta a contemplare la meravigliosa rivelazione, indirizzando anche il nostro sguardo, stupito, verso il Cuore. Nell’angolo, in alto, a destra, l’artista riproduce la facciata della chiesa milanese dei seguaci di S. Ignazio di Loyola.

Lucio Fontana ritornò sullo stesso tema nel 1958, realizzando per la chiesa del Centro studi dei Gesuiti di Villa Baragalla a Reggio Emilia, una grandiosa opera in ventisette formelle che dal 2012 si trova nella nuova Chiesa del Sacro Cuore della stessa città.

In un passaggio del Vangelo odierno (Matteo 11,25-30), Gesù chiede ai discepoli e a noi: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (v. 29). Perciò la tradizione della Chiesa invita a recitare nel mese di giugno, dedicato al Sacro Cuore, una breve preghiera, recitata da Papa Francesco all’Angelus di domenica 7 giugno, dopo aver confessato di averla imparata dalla nonna piemontese: «Gesù, mite e umile di cuore, fa’ il cuore mio simile al tuo».


Solennità del Corpus Domini – 14/06/2020
“Ave verum Corpus”

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Una delle composizioni sacre più celebri, l’«Ave verum corpus», è nata dal genio creativo di Mozart per il Corpus Domini del 1791 quando, a metà giugno, visita la moglie presente per cure a Baden, paese vicino a Vienna. Sollecitato dal direttore del coro parrocchiale, tra il 17 e 18 del mese compone il mottetto, eseguito in chiesa dalla stessa corale il 23 successivo, nella celebrazione del Corpus Domini, il giovedì seguente la domenica della Trinità.

La preghiera «Ave verum Corpus», dal 1300 recitata come devozione privata all’elevazione dell’ostia nella Messa, è un testo eucaristico in cui alla triplice professione della reale presenza del Corpo del Signore («nato da Maria, immolato sulla croce, trafitto nel costato»), segue la preghiera: «Sii per noi un pegno nel momento della morte». Nel 1500 il testo è arricchito da un’aria gregoriana che risulta dolce e meditativa perché composta nel sesto schema melodico gregoriano.

Nel 1264 papa Urbano IV, da Orvieto estese alla Chiesa universale la solennità che, grazie alle visioni della mistica Giuliana di Cornillon, dal 1246 si celebrava nella diocesi di Liegi. La solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo – Corpus Domini – ha una data fissa nel giovedì dopo la Trinità o direttamente la domenica successiva, come in Italia e altri Paesi.

L’opera di Filippo Rossi, realizzata in acrilico e foglia d’oro su carta, (Lezionario Messe ad Diversa e Votive, tra le pp. 846-847), riscrive il Vangelo secondo Giovanni (6,51-58) proclamato nella celebrazione eucaristica odierna. «Voglio la croce al contempo ben visibile ma non invasiva, riconoscibile ma non subito; quello che cerco nei miei lavori è una richiesta di sosta davanti all’immagine, così che l’opera, all’inizio affascinante per colori e composizione, acquisti anche “senso” ad una più profonda lettura». Rossi così sintetizza quanto ritiene centrale nelle sue opere e come ci si deve avvicinare ad esse. Nell’oro che si fa croce – segno cristiano, perno e sostegno di tutto, presente nell’intera produzione dell’artista – la luce preziosa illumina e apre sempre al giorno qualsiasi notte. Dio, fattosi uomo in Gesù, ci avvicina alla sintesi del supremo dono d’amore che si fa quotidiano cibo nel mistero eucaristico. La superficie che sostiene ed è penetrata dalla croce gloriosa, evidenzia un segno pittorico steso con linguaggio allusivo a uno spazio che donne e uomini, viandanti sulle strade della vita, in ogni tempo possono letteralmente in-crociare.

Ascoltiamo il brano di Mozart e imitiamo S. Francesco che per seguire Cristo crocifisso si nutriva alla Messa dove riceveva la santa Comunione: «Il Signore – leggiamo nel Testamento del 1226 – mi dette tanta fede nelle chiese, che così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù, in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo».


Solennità della Santissima Trinità – 07/06/2020
“Un Dio che sconcerta”

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«Ogni volta che l’orario mi permette una piccola sosta nella stazione di Firenze, non manco di entrare nella vicina basilica di S. Maria Novella. E corro subito, sulla sinistra, a inginocchiarmi davanti a un singolare affresco intitolato “Trinità”». Così iniziava l’articolo apparso sul settimanale diocesano il 7 marzo 1993, scritto dal grande vescovo di Molfetta, Tonino Bello, morto di tumore il 20 aprile successivo.

Realizzato (1426-1427) da Tommaso Guidi, detto Masaccio, l’affresco raffigura il tema trinitario nell’iconografia del «Trono di grazia» secondo il testo della lettera agli Ebrei: «Accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia» (4,16), immaginato all’interno di una cappella rappresentata in prospettiva. Le tre persone della Trinità – il Padre, il Figlio, lo Spirito – sono poste sullo stesso asse verticale, sovrapponendosi una sull’altra, quasi ad evidenziare l’identità di sostanza pur nella differenza delle persone.

Nella parte superiore della composizione, Dio Padre, rappresentato come l’«Antico di giorni» (Daniele 7,9), a piedi nudi, non seduto – variante al «Trono di grazia» – sorregge e mostra Gesù Cristo morto in croce a conferma che lo stesso Figlio di Dio ha condiviso la nostra condizione mortale. Fra i volti del Padre e di Gesù, è posto lo Spirito Santo, simboleggiato da una bianca colomba. Masaccio dipinge la vita che dall’eternità di Dio uno e trino scende, in e per Cristo, nella storia dei santi – Maria, la madre di Gesù e Giovanni evangelista – e nella storia delle persone – i donatori, ritratti con gli abiti del tempo. Ogni storia umana infatti è raggiunta dal mistero trinitario.

Maria ci guarda e invita a meditare su quanto ammiriamo, aiutandoci a comprendere che Dio, anche se resta sempre l’Inafferrabile alla comprensione della mente, ha lasciato tracce indelebili nella storia soprattutto facendosi uomo. La Bibbia più che cercare una definizione di Dio, narra le grandi opere che Egli ha compiuto e continua a compiere sin dall’inizio per amore, come afferma il Vangelo odierno (Giovanni 3,16-18).

Alla Trinità si deve giungere con l’adorazione, in silenzio, come suggeriscono i Padri della Chiesa, e con la preghiera contemplante come stanno facendo i coniugi, che l’artista ha dipinto in ginocchio.

Ci viene in soccorso don Tonino, quando alla fine del suo articolo, così prega:

«Grazie, Trinità Santissima, per questo messaggio di luce, di speranza e di coraggio che ci trasmetti dalle croste di quelle pareti. Io non so se tornerò più a Firenze, a contemplarti in questo mistero del Tuo “con-soffrire” con gli uomini. Una cosa è certa: che continuerò a lottare, perché so che alle spalle ci sei Tu e che, quando per me incomberanno le ombre della notte, forse grazie anche all’affresco del Masaccio, mi addormenterò tranquillo tra le Tue braccia».


Solennità di Pentecoste – 31/05/2020
“Pentecoste”

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Farà bene rileggere il brano evangelico della solennità di Pentecoste (Giovanni 20,19-23), già considerato nella terza domenica di Pasqua. Qui si narra una «Prima» discesa dello Spirito che non avviene, come dice la parola Pentecoste, cinquanta giorni dopo Pasqua, ma la sera di Pasqua. Gesù, morto e risorto, dona ai suoi, chiusi nel Cenacolo, la pace e lo Spirito per il perdono dei peccati, attraverso il «soffio», come avvenne nella creazione raccontata nel libro della Genesi (2,7).

L’opera riprodotta (in Lezionario domenicale e festivo, anno A, tra le pp. 296-297) realizzata da Stefano Di Stasio, è la scrittura in immagine del testo degli Atti degli Apostoli (2,1-11) proclamato oggi. Si vedono gli effetti del fragore che «venne all’improvviso dal cielo» e del «vento che si abbatte impetuoso» (v. 2) su quanti erano riuniti: movimento e sorpresa per alcuni, accoglienza mansueta per pochi, consapevolezza che il prodigio viene dall’alto per Maria e per altri. Su ognuno è sceso lo Spirito sotto forma di «lingue come di fuoco» (v. 3). Mentre uno guarda stupito alla forza del vento che penetra con veemenza dalla finestra fino a quasi strapparne la tenda, due discepoli, in secondo piano, stanno uscendo per iniziare la narrazione delle grandi opere di Dio in modo comprensibile a tutti. Lo Spirito del Cristo, allora come oggi, abilita uomini e donne a costruire comunità dove ci si capisce e a superare la Babele della confusione e dell’incomunicabilità, dell’incomprensione e dello scontro che, a volte, sembra avere il sopravvento pure nel nostro tempo. In Gerusalemme, a Pentecoste, grazie allo Spirito, nei discepoli scompare la paura, sgorga una nuova forza e, tra i numerosi convenuti da oltre quindici popoli, nascono unità e comprensione dove c’erano divisione ed estraneità.

L’artista regala una Pentecoste attuale che si realizza in chi è disponibile a cambiare in meglio, a fare comunione, ad essere artigiano di giustizia e di pace. Perciò gli abiti di Maria e degli apostoli sono contemporanei, come le sedie e il tavolo, come il condominio visibile attraverso la finestra, quasi una prosecuzione del Cenacolo nelle nostre strade.

Giovanni Paolo II, nella Pentecoste del 1986 firmava l’enciclica Dominun et vivificantem sullo Spirito Santo, dove tra l’altro scriveva: «Dio, comunicandosi nello Spirito Santo come dono all’uomo, trasforma il mondo umano dal di dentro, dall’interno dei cuori e delle coscienze. Su questa via il mondo, diventa – come insegna il Concilio – “sempre più umano, sempre più profondamente umano”» (n. 59).

Apriamo la vela del cuore al vento e alla fantasia dello Spirito ri-creatore che giunge dove vuole per seminare doni differenti, spalancare porte e finestre, superare chiusure e particolarismi, vincere monotonia e piattume, costruire comunione e luoghi d’amore.


Settima domenica di Pasqua – 24/05/2020
“In alto i nostri cuori”

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L’ultimo saluto di Gesù ai suoi discepoli avviene su un monte. Lo scrive l’evangelista nel brano di Vangelo che si proclama nelle Messe dell’Ascensione del Signore (Matteo 28,16-20).

Il monte è il luogo che rappresenta l’incontro tra il cielo e la terra. Per questo tutti i popoli hanno almeno un monte sacro che simboleggia la salvezza e indica la vicinanza con Dio. Come l’ascendere si dice d’una scalata verso la vetta così la montagna è anche la figura del cammino verso Dio.

L’Ascensione che si celebra quaranta giorni dopo la Risurrezione, conclude la permanenza visibile di Gesù fra i discepoli, prelude alla Pentecoste e segna l’inizio della storia della Chiesa. La Chiesa infatti esiste proprio e solo per annunciare il Vangelo. Il vescovo di Cesarea, Eusebio (265-340), dà la prima testimonianza della festa dell’Ascensione che fino al 1977 in Italia è stata anche festa civile.

Gesù garantisce ai suoi e a noi che non si nasconde dietro le nubi o sparisce o va lontano oppure sarà assente ma promette che, grazie al ritorno dal Padre, Lui mediante il suo Spirito, è vivo in mezzo a noi in modo nuovo, più vicino che mai, presente ovunque e per sempre: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (v. 20). Da allora la terra non è più lontana dal cielo.

Una terra segnata e graffiata da striature scure quella narrata da Luigi Pagano nella sua particolare «Ascensione del Signore» (Lezionario domenicale e festivo, anno liturgico A, tra le pp. 276-277; tecnica mista su carta), a conferma delle situazioni in cui non di rado avvertiamo il peso delle realtà quotidiane che ci tiene ancorati in basso, intorpiditi dalla stanchezza, incerti nel dubbio.

A nostro conforto, appena sopra, tra la nube, leggiamo il ritorno al Padre del Figlio, non solo quale Dio ma – lo confermano i piedi piagati d’amore – quale uomo che ha dato la vita per tutti. È l’invito a guardare in cielo, a tenere i cuori in alto (sursum corda), «rivolti al Signore» e, allo stesso tempo, a camminare sull’unica strada per arrivarci e per vivere intensamente ogni giorno: amarci gli uni gli altri, portando così a tutti la bella notizia del Vangelo.

L’indimenticabile don Antonio Seghezzi, morto 75 anni or sono a Dachau (21.5.1945), così scriveva ai giovani nell’Ascensione del 1937 a commento dell’odierno vangelo: «Cielo sempre aperto. Il Padre e lo Spirito Santo continuano a discendere sulla terra e l’incontro col Figlio è il tema dominante nei discorsi di Gesù. Il Padre ha mostrato il suo volto e il cielo, da allora, è diventato una casa alla quale i cuori dei figliuoli pensano con inguaribile nostalgia. L’umanità sa finalmente che cosa è e dove cammina; sa che non è una carovana perpetuamente errante, ma che ha una casa e qualcuno che attende».


Sesta domenica di Pasqua – 17/05/2020
“Complimenti per il tuo avvocato!”

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Così dovrebbe sentirsi dire chi, proprio perché si affida a Cristo e vive secondo la sua parola, è «cristiano» o «cristiana». In effetti, anche nelle situazioni peggiori, san Giovanni rassicura: «Figlioli miei, se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto» (Prima lettera 2,1). Il Paràclito è «il chiamato accanto a qualcuno», un avvocato difensore, un assistente che aiuta e accompagna. Gesù, durante l’Ultima Cena, prega il Padre per i discepoli, prega per noi. Nel brano evangelico (Giovanni 14,15-21) di questa domenica, la VI di Pasqua, dichiara: «Pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità» (vv. 16-17). Gesù parla di «un altro Paràclito». Infatti, mentre continua a fare l’avvocato difensore dei discepoli, sostenendoli e consolandoli, egli annuncia che, dopo il ritorno al Padre, sarà lo Spirito a continuare tale servizio.

Nella parte dell’affresco sulla «Creazione del mondo», dipinto dai due fratelli moldavi Zugravul nel 1596, sotto un arco nella chiesa del monastero ortodosso di Sucevita (Romania), visitato con alcuni romanesi nel 2008, a sinistra e a destra si intravedono le mani dei due angeli che sostengono rispettivamente il sole e la luna.

Nell’immagine centrale, Dio Padre – riconoscibile per il nimbo a otto punte, attorno al capo – è circondato dalla cosiddetta «gloria», un riflesso a forma di mandorla. Secondo l’abitudine da secoli in uso negli ambienti bizantino e latino, Dio Padre è qui rappresentato con il volto di Gesù Cristo, colui che ce lo ha rivelato, come disse il Maestro all’apostolo Filippo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (v. 9); come rispose ai Giudei: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (10,30).

Il Padre che si identifica con il Figlio – come confermano le lettere IS CS («Gesù Cristo») poste sopra il capo – tiene nella sinistra il rotolo e benedice con la destra una grande colomba con la stessa aureola crociata del Padre e del Figlio, al centro della «gloria», con il medesimo nome «Gesù Cristo». I due scrittori-teologi Zugravul riscrivono in immagine, la promessa del Cristo: «il Padre vi darà un altro Paràclito» (v. 16) perché se già abita «presso di voi», poi sarà «con voi per sempre» fino a essere addirittura «in voi». Rappresentando il Paràclito nella forma corporea della colomba, i fratelli moldavi sin dalla Creazione fanno coincidere il Cristo con lo Spirito Santo e attualizzano l’impegno del Maestro ai suoi: «Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (vv. 18-19).

Quindi, da cristiani, grazie all’azione di questo Avvocato, continuiamo a seguire Gesù per crescere ogni giorno nell’amarci gli uni gli altri. Agostino, nel Dibattito con Felice Manicheo, del 397-398, aveva ben chiaro il compito dello Spirito: «Non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: Vi manderò il Paràclito che vi insegnerà come vanno il sole e la luna. Voleva formare dei cristiani, non dei matematici».


Quinta domenica di Pasqua – 10/05/2020
“La religione del Volto”

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Viviamo in momenti difficili. Cresce in tutti la ricerca di sorgenti di senso, di fonti di speranza. L’essere umano è un pensatore per natura, osserva, si chiede, scruta, si fa domande e tenta di conoscere.

Nel brano di Vangelo di questa quinta domenica di Pasqua, San Giovanni (14,1-12) ci racconta di un altro episodio accaduto all’interno del Cenacolo, di sera, poco prima dell’arresto di Gesù. L’apostolo Filippo interviene nel dialogo tra il Maestro e Tommaso con una decisa richiesta: «Signore, mostraci il Padre, e ci basta» (v. 8). Quanto ci assomigliano gli Apostoli! Si pongono domande, vogliono comprendere, cercano risposte. E Gesù, forse un poco scoraggiato, non si tira indietro: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”?» (v. 9).

William Xerra riscrive da artista questo momento della conversazione e sollecita il nostro sguardo a leggere la sua opera (collage e tecnica mista su cartoncino) posta nel Lezionario per le celebrazioni dei Santi tra le pp. 224-225.

Un rimando, una reinvenzione che rende attuale il messaggio sia della supplica dell’apostolo sia della risposta di Gesù. Il giovane al centro della tavola – Filippo o ognuno di noi – in un ritaglio di fotografia in bianco e nero, con la mano sinistra sostiene la testa, ci guarda e indaga pensieroso. Tutt’attorno, sopra e sotto, a larghe pennellate e in maiuscolo, si alternano, si ripetono, si sovrappongono, emergono le parole centrali della domanda e della risposta. La scelta di Xerra evidenzia così che la richiesta dell’apostolo è anche la nostra, di tanti, cristiani e non. Filippo non si accontenta di chi conosce da circa tre anni e rende esplicito il desiderio che ogni credente, presto o tardi, matura nel suo profondo: poter vedere il volto di Dio. Quante volte nei Salmi chi prega ha nel cuore questa infinita aspirazione: «Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (26,9).

L’artista insiste nel ripresentare al nostro sguardo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre». Stanno qui, in effetti, il centro e il nocciolo della fede cristiana: un incontro da cui nasce una visione nuova della vita che è altra cosa dal limitarsi a dire: «Dio esiste». Analogamente è del tutto diverso sapere che esiste l’amore e non amare di fatto alcuna persona. Dio si è dato un volto umano, quello di Gesù. Perciò, se vogliamo conoscere davvero chi è Dio, facciamo esperienza del Cristo: contempliamo il suo volto e viviamo come lui di autentico amore.

Pure l’insigne poeta Giuseppe Ungaretti, ventottenne soldato di fanteria al Carso, confessa il tormento di ogni creatura umana nella lirica del 1916: «Chiuso / fra cose mortali / (anche il cielo / stellato finirà) / Perché bramo Dio?». Successivamente, nella poesia «Mio fiume anche tu» scritta nel 1944, mentre Roma era occupata, arriverà a dare un volto al Dio ardentemente desiderato, invocandolo come: «Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo».


Quarta domenica di Pasqua – 03/05/2020
“Il pastore buono e bello”

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Il pastore ha un carattere simbolico religioso presso tutti i nomadi, così anche in Israele. Nell’arte mesopotamica e greca in riferimento al culto sacrificale compare la figura del pastore che porta sulle spalle un agnello. Tale motivo iconografico era il più frequente nell’arte del cristianesimo delle origini perché traduceva il «Buon Pastore» narrato dal Vangelo secondo Giovanni (10,1 ss.) e secondo Luca (15,1 ss.) e per i cristiani aveva un valore pari a quello dell’immagine del Crocifisso, rappresentata a partire dal IV secolo. Nel brano di Giovanni, dopo essersi presentato come la porta dell’ovile, Gesù afferma per due volte: «Io sono il pastore buono e bello» (kalós, nell’originale in greco), riassumendo in sé la memoria dei pastori donati da Dio al suo popolo (Mosè, Davide, i profeti), ma anche l’immagine di Dio stesso, pregato e onorato come il «Pastore di Israele» (Salmo 80,2).

Il fiorentino Sandro Chia, ha «scritto» un originale «Buon Pastore» per la IV domenica di Pasqua (Lezionario domenicale e festivo, anno liturgico B, tra le pp. 204-205; acquarello, matite colorate e tecnica mista su carta) che ha così commentato: «Ho voluto realizzare un Buon pastore lontano dalla solita iconografia, colto nel preciso istante in cui sta meditando di lasciare il gregge per andare a cercare la pecorella smarrita».

L’artista ci presenta il Cristo, giovane e senza barba come fu raccontato fino al VI secolo, seduto, con accanto la pecora che è appena stata ritrovata. Il pastore tiene in evidenza il bastone, reso in un intenso e largo segno nero, per esprimere l’indispensabile funzione di guidare le pecore ai pascoli e di difenderle dai rischi del «ladro» e del «brigante» (Giovanni 10,1).

Chia sembra prendere ispirazione da una strofa del «Dies iræ», la Sequenza liturgica, composta verso la fine del XII secolo. Il poeta, con gratitudine si rivolge a Dio che, spinto dall’amore, si mette alla ricerca di ogni uomo e ogni donna: «Venendo in cerca di me, ti sei fermato, stanco (Quærens me, sedisti lassus), mi hai redento con il supplizio della Croce» e, a nome di tutti, implora: «Non sia vana una fatica così grande!».

La pecora fissa il suo pastore, pende dai suoi occhi e dalle sue labbra, sente il calore della sua presenza e sta immobile, in riconoscente contemplazione perché è al sicuro. Nella tavola dal tratto essenziale, il pittore ci restituisce il modo di agire del pastore: ha un rapporto strettamente personale («egli chiama ciascuna per nome», v. 3), dialoga confidenzialmente con ognuna («conoscono la sua voce», v. 4) e, proprio per questo, «le pecore lo seguono» (idem). È come dire che il rapporto personale ha sempre priorità anche nel servizio pastorale.

La conclusione del brano è la folgorante sintesi del perché questo pastore è per tutti: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (v. 10). Scrive Papa Francesco per questa domenica: «Coraggio, non abbiate paura! Gesù è accanto a noi e, se lo riconosciamo come unico Signore della nostra vita, Egli ci tende la mano e ci afferra per salvarci».


Terza domenica di Pasqua – 26/04/2020
“I due discepoli di Emmaus”

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Con il testo scritto e dipinto, le tavole del «Lezionario» rimandano all’interazione tra immagini e parole che caratterizza la tradizione europea, a cominciare dai manoscritti miniati d’uso liturgico. Un esempio straordinario è l’«Exsultet» il cui nome deriva dalla prima parola del canto liturgico che, dal secolo 7°, in ogni chiesa cattolica, nella Veglia pasquale, proclama la vittoria della luce sulle tenebre, simboleggiata dal cero pasquale acceso. Il manoscritto «Exsultet», a forma di rotolo, lungo alcuni metri, era tenuto tra le mani dal diacono che, mentre vi leggeva cantando dall’ambone l’annunzio della risurrezione di Cristo, lo svolgeva cosicché i fedeli sottostanti, gioivano ascoltandolo e guardando le immagini e i colori.

La parola evangelica di Luca 24,13-35 è stata «scritta» nel 2007, in acrilico su carta, dall’artista Stefano Di Stasio ed è posta nel Lezionario domenicale e festivo, anno B, tra le pp. 152-153. L’invenzione creativa ci fa sentire dentro l’avvenimento: chi di noi almeno un giorno non si è ritrovato, come Cleopa e il suo amico, sulla strada di Emmaus con nel cuore delusioni e interrogativi?

I due discepoli vestiti con la nostra quotidianità, stanno tornando a casa profondamente scoraggiati perché non è accaduto nulla di quanto si aspettavano. Sono raffigurati disorientati, insieme a un terzo viandante – al centro, barba e capelli abbondanti, lungo cappotto rosso – che accompagna con il muoversi delle mani la conversazione in corso. Da Gerusalemme a Emmaus, per undici chilometri i discepoli camminano con passo triste, su una via che ricorda tutte le strade del mondo, facendo domande, narrando insoddisfatte aspirazioni, rivelando progetti e sogni svaniti. Di Stasio ci porta così a non dimenticare che la Bibbia si fa sempre quotidiana. Sono io, siamo noi che camminiamo su questa strada e, se vogliamo, il Viandante sconosciuto si affianca nel nostro procedere e per prima cosa ci ascolta. L’artista insiste nel farci memoria che il fatto raccontato dall’evangelista accade qui, dove scorre l’orologio della storia, tra le nostre case pure loro intristite e dalle finestre chiuse, dipinte in una figurazione visionaria che richiama De Chirico, incontrato dal «nostro» all’età di circa dodici anni. La creatività del pittore di origine napoletana, pone alle spalle dei tre camminatori una sorprendente e vivace fonte di luce che viene da Gerusalemme dove il Cristo sì è morto ma è anche risorto. È un chiarore che tutto illumina fino a tracciare dei tre, ombre lunghe perché tra poco è sera.

Nel seguito del brano evangelico lo sconosciuto che, con pazienza ha condotto i due a rileggere e a comprendere alla luce delle Scritture gli eventi vissuti, accetta l’invito insistente: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (v. 29). Si ferma e sta nella loro notte. Solo quando egli «spezza il pane» i due lo riconoscono, ma lui scompare.

Restituiti alla vita, i due riprendono la strada in direzione opposta per ritornare dagli altri discepoli. «La stella del mattino che non conosce tramonto, Cristo risuscitato dai morti fa risplendere sul genere umano la sua luce serena», cantano gli ultimi versetti dell’«Exsultet». C’è per tutti e sempre, un nuovo inizio.


Seconda domenica di Pasqua – 19/04/2020
“La luce, se nasce fa schiudere muri”

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Nel «Lezionario» – il libro per l’annuncio della Parola nella celebrazione della Messa – sono contenute le letture dell’Antico e del Nuovo Testamento. Di fianco al testo biblico, la tradizione della Chiesa ha sempre posto immagini «narranti», con la scrittura artistica, il significato dei passi che sono proclamati. Scopo del «Lezionario» è dunque proclamare la parola di Dio mostrandola.

Dal 2007 al 2009 la Chiesa italiana ha predisposto un «Lezionario», in nove volumi, per i vari tempi dell’anno liturgico, con 211 tavole create da 88 pittori che, di volta in volta, «riscrivono artisticamente» il brano annunciato nella celebrazione, realizzando così una particolare pinacoteca d’arte sacra contemporanea.

Nell’immagine di Velasco Vitali – pastello e acquarello su carta in «Lezionario domenicale e festivo, Anno A», tra pp. 252 e 253 – leggiamo il brano del Vangelo di Giovanni (20,19-31) proclamato nella II domenica di Pasqua che parla de «Il Risorto e l’apostolo Tommaso».

Nel Cenacolo, a porte chiuse, la sera del «primo giorno della settimana» (v. 19), in assenza di Tommaso, il Risorto appare agli apostoli, mostra loro i segni della passione e dona la pace e lo Spirito. Al racconto di ciò che è avvenuto, l’apostolo, un uomo tutto d’un pezzo, reagisce dicendo: «Se non vedo… io non credo» (v. 25). Il Signore comprende tutto questo e otto giorni dopo la Pasqua, si presenta in casa, agli undici e invita Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!» (v. 27).

Vitali dà forma con grande efficacia al testo evangelico dividendo in due il racconto. Nella parte superiore della tavola, colorata di leggerezza, a destra si legge il Risorto, in un movimento proprio di chi è vivente e nella sottostante, al centro, compare un grande occhio aperto, in cerca di luce che sta per essere sfiorato da un dito. Infatti si tratta dell’indice di una mano destra che viene dall’alto, disegnata dall’artista con una sottile linea di pastello dello stesso azzurro del manto del Cristo risorto. È evidente il richiamo biblico. L’espressione «dito di Dio» nell’Antico Testamento indica la cura attenta, premurosa, particolare di Dio verso le creature da lui plasmate e nel Nuovo Testamento è applicata a Gesù che dona salvezza.

Con la mano Gesù guarisce Tommaso, che non vede perché non crede, ridà la vista a ogni cieco e afferma: «Beati coloro che credono senza vedere» (v. 29). Il Risorto chiama beati, felici, realizzati pure coloro che fanno fatica a credere, chi ricomincia, chi cerca a tentoni, appunto chi non vede, come l’apostolo.

Lasciarsi guarire, ascoltare la parola che ricrea e che narra la convivenza di Dio con la storia e con le nostre storie, può diventare per ognuno una memoria incantata, in una ripresa di vita, come lo fu per Tommaso.

Perché – recita un frammento mirabile di una poesia di Pierluigi Cappello – «la luce, se nasce fa schiudere muri».


Santa Pasqua – 12/04/2020
“Il mattino di Pasqua”

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Il contatto vero con un’opera d’arte è sempre qualcosa di segreto, nasce e vive di una relazione misteriosa e va molto oltre le eventuali spiegazioni o i possibili commenti. Nella «Maddalena» di Giovanni Savoldo leggo un’indimenticabile pagina della storia e della nostra vita «scritta nei colori», come dichiarò il Concilio Costantinopolitano IV nell’870, a conferma della condanna dell’iconoclastia dichiarata al Niceno (787): «quanto il discorso dice in sillabe, “la scrittura in colori” lo annuncia e lo rende presente».

L’episodio raffigura l’inizio del brano del Vangelo secondo Giovanni (20,1-9) che è proclamato nelle chiese cattoliche del mondo, nella domenica di Pasqua. Maria di Magdala, identificabile dal vasetto degli unguenti e dal vestito rosso sotto il mantello grigio, in cui è avvolta, si reca alla tomba di Gesù, «di mattino, quando era ancora buio» (v. 1). Ha seguito il Maestro fin sotto la croce, fin dentro lo scandalo del sepolcro e ne porta i segni. Con gli occhi cerchiati per il pianto, in un volto non giovanissimo, guarda a noi partecipi o spettatori. Un improvviso bagliore inizia ad illuminare il viso della Maddalena e a ravvivarle il mantello di seta cangiante, dai riflessi argentei. Nella tela, oggi alla National Gallery di Londra, realizzata tra il 1535 e il 1540, il pittore bresciano fissa la reazione della donna mentre volge il capo verso Gesù che l’ha appena chiamata per nome e che prima ha confuso con il giardiniere.

In basso a sinistra ella abbandona l’ampolla arrotondata, su di una base quadrata, davanti a un’apertura sul cui spigolo cresce una piantina verde e corre in città, ancora immersa nel sonno. Agli impauriti e dubbiosi apostoli riuscirà ad annunciare: «Ho visto il Signore» (v. 18) confermandosi la prima testimone, l’«apostola» della Risurrezione di Cristo. All’orizzonte sta sorgendo il sole, la stella del mattino che gradualmente dà vita e colore ad ogni realtà. Ogni notte muore nell’aurora che giunge sempre e per tutti, credenti e non credenti. Se la debolezza e la fragilità rischiano di farci vivere al buio, la speranza che ha nel Risorto radice e senso, ci garantisce il «già» e ci apre alla pienezza che nel presente non riusciamo a cogliere.

Ci scambiamo gli auguri traducendo in concreto quanto scrisse p. Turoldo nella sua «Per il mattino di Pasqua».

Io vorrei donare una cosa al Signore, / ma non so che cosa. / Andrò in giro per le strade / zuffolando, così, / fino a che gli altri dicano: è pazzo! / E mi fermerò soprattutto coi bambini / a giocare in periferia, / e poi lascerò un fiore / ad ogni finestra dei poveri / e saluterò chiunque incontrerò per via / inchinandomi fino a terra. / E poi suonerò con le mie mani / le campane sulla torre / a più riprese / finché non sarò esausto. / E a chiunque venga / – anche al ricco – dirò: / siedi pure alla mia mensa / (anche il ricco è un povero uomo). / E dirò a tutti: / avete visto il Signore? / Ma lo dirò in silenzio / e solo con un sorriso.


Sabato Santo – 11/04/2020
“Il Sabato di Maria”

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Il Sabato santo è il giorno del riposo di Cristo nel sepolcro, del silenzio di Dio ma anche il giorno delle nostre domande che sanno di delusione: «Ma è possibile che tutto finisca così? Che i sogni, le attese, le speranze restino dietro la pietra della tomba?». Siamo come gli apostoli che hanno già sentito parlare della risurrezione e tuttavia «per timore dei Giudei» (Giovanni 20,19) sono ancora chiusi in casa, nel Cenacolo. Del futuro proviamo più smarrimento e paura che desiderio. Ci dimentichiamo che le domande e i dubbi aiutano a riflettere, a purificare, a ricercare, ad ascoltare e a sperare anche quando fanno soffrire.

Ci viene in aiuto la madre di Gesù perché il Sabato Santo è anche il sabato di Maria, la «mater dolorosa», che vive l’attesa con forza d’animo e sostiene la nostra speranza mentre la invochiamo: «prega per noi» Vincent Van Gogh, in uno dei momenti più drammatici della vita – il ricovero della casa di cura di Saint Remy-en-Provence – realizza nel 1889 la «Pietà», dipinto a olio su tela (cm. 41,5×34), ora ai Musei Vaticani. È l’unica volta in cui egli dipinge l’immagine di Cristo, lui che, poco prima, aveva scritto al fratello Theo (lettera 556), di avere «una natura doppia, di monaco e di pittore».

Come chiarisce l’annotazione autografa nell’angolo destro, Vincent trasforma e reinterpreta in modo del tutto originale l’incisione omonima realizzata, qualche decina d’anni prima, da Eugène Delacroix, un pittore da lui amato: «Quello che cercavo è il quasi sorridendo di Delacroix, che aveva il sole in testa e la tempesta nel cuore, e che si diceva fosse morto quasi sorridendo». In questa e nella copia più grande conservata al Van Gogh Museum di Amsterdam, la Madonna è raffigurata nella sua veste di «Madre addolorata» che con le mani di contadina protese in avanti, ci accoglie e ci sollecita a guardare il suo Figlio, morto per amore. Il pittore commenta alla sorella Willemien: «E poiché il viso del morto è nell’ombra, la testa pallida della donna si staglia chiara contro una nuvola – contrapposizione che fa sì che le due teste paiano un fiore scuro e un fiore chiaro, disposti appositamente per risaltare» (lettera 804).

Fermiamoci a contemplare. Maria ci guarda nel suo immenso amore e resta in silenzio e attende che si realizzi la promessa del Figlio: «Dopo tre giorni risorgerò» (Matteo 27,63).

Ci è di aiuto l’indimenticabile cardinale Martini quando nella Lettera pastorale alla diocesi di Milano (2000-2001) tra l’altro scriveva: «Tu conosci, o Maria, probabilmente per esperienza personale, come il buio del Sabato santo possa talora penetrare fino in fondo all’anima pur nella completa dedizione della volontà al disegno di Dio. Tu ci ottieni sempre, o Maria, questa consolazione che sostiene lo spirito senza che ne abbiamo coscienza, e ci darai, a suo tempo, di vedere i frutti del nostro “tener duro”, intercedendo per la nostra fecondità spirituale. Non ci si pente mai di aver continuato a voler bene!».


Venerdì Santo – 10/04/2020
“Il Crocifisso in un cimitero”

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Ben ricordo l’emozionante curiosità che provai davanti alla tavola alta e stretta (cm 80 x 48,9) di Giovanni Bellini nella mostra «Antonello da Messina. L’opera completa» tenutasi a Roma nel 2016. Condivido quanto scrisse G. C. F. Villa nella scheda del catalogo, definendo il capolavoro una «Meditazione sul sacrificio di Cristo e non una crocifissione narrativa in senso lato» (p. 310). Il «Crocifisso con cimitero ebraico» è infatti particolare sia per la collocazione dell’evento sia per la forte carica simbolica sia per il paesaggio esterno a una città reale e ideale nello stesso tempo.

Nella mirabile architettura della composizione, ogni realtà creata è dentro l’abbraccio del Crocifisso, è «irrorata» dal Suo sangue, obbligandoci a guardare attraverso di Lui ogni esistente, vicino e lontano, piccolo e grande, fatto dalla natura e dall’uomo, terra e cielo. Al committente inginocchiato in preghiera a contemplare l’immagine, Bellini fa vedere gli effetti della Crocifissione sul mondo, evidenziando il passaggio dall’Antico mondo al Nuovo, come un’autentica «nuova Creazione»: l’umanità, il mondo, la storia ritrovano centro e vita in Gesù Crocifisso e sono ricostruiti a immagine di Dio, secondo il progetto iniziale. E l’artista dà concretezza a questa sorprendente notizia destinata a tutti, attraverso molti simboli, studiati con precisione.

Colui che è inchiodato sulla croce, ben piantata per terra, con il suo sangue porta vita perfino in un cimitero. Proprio lì, tra i teschi, le ossa, le lapidi, la terra secca, Bellini pone con estrema cura una lucertola che vive del sole, una colomba simbolo di pace, un alloro allegoria di vittoria, un erbario di oltre trenta specie, indicanti l’oblazione del Cristo. È l’affermazione che la vita donata per amore è sempre capace di ridare esistenza pure a quanto è morto e perduto. E non solo, ma il confronto tra questo che è dipinto nella parte bassa della tavola e il resto, paesaggio e città, conferma: misura di tutto è il Crocifisso. Da Lui proviene l’energia creativa sia alle donne e agli uomini di campagna, dove accanto alle case si vedono i campi, il mulino e le macine, gli animali, un corso d’acqua, un sentiero sia alle persone abitanti la città che con suoi edifici civili e religiosi, raffigura la Gerusalemme Celeste. Tra le tante allusioni simboliche, compare anche il cielo azzurro in cui, oltre le nuvole di temporale, s’intravede il lontano chiarore, segnalale della Risurrezione.

Nel giorno in cui facciamo annualmente memoria della sua morte, Cristo si propone come una lezione di umanità per credenti e non, segno di un Dio che non interviene dall’esterno ma, per amore, salva immergendosi nel nostro dolore e condividendolo con noi.

Ce lo ha ricordato nell’emozionante serata di venerdì 27 marzo, Papa Francesco, da solo in piazza S. Pietro, quando, facendosi interprete dei dolori del mondo, implora: «Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Non lasciarci in balia della tempesta».

Lasciamoci guardare dal Crocifisso e uniamoci all’invocazione di Francesco.


Giovedì Santo – 09/04/2020
“L’Ultima Cena”

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L’Ultima Cena è una delle scene bibliche più conosciute e rappresentate nella storia dell’arte.

Oltre all’Istituzione dell’Eucaristia e, dopo il Concilio di Trento, la Comunione degli Apostoli, l’altro tema iconografico, splendidamente illustrato da Leonardo nell’affresco del Cenacolo a Milano, è il momento in cui Gesù, prima di istituire l’Eucaristia, afferma, come narrano i quattro evangelisti: «Uno di voi mi tradirà».

Dove si fermano i Vangeli, continuano come sempre gli artisti che hanno immaginato quanto mancava nel Cenacolo e che hanno aggiunto riferimenti al tempo della composizione.

Nella grande tela realizzata per la parrocchiale di Romano di Lombardia nel 1569, Giovanni Battista Moroni, come Leonardo, sceglie la situazione più drammatica dell’Ultima Cena e studia la reazione degli apostoli al Cristo che pronuncia la frase del tradimento: «Dette queste cose, Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: “In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà”» (Giovanni 13,21). Nel volto composto e solenne del Cristo, l’artista esprime la consapevolezza di chi, nel momento più tragico della vita, si sente solo ma nel contempo accetta con nobile serenità una missione che tra poco si completerà. L’artista di Albino raffigura la continuazione del testo evangelico – «I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse» (v. 22) – presentando ogni apostolo, preso da pensieri e ricordi, che si interroga o cerca risposte indagando il volto dei vicini, in una atmosfera gravida di attesa. Le realistiche facce dei dodici esprimono sgomento e meraviglia, scandalo e angoscia mentre Gesù sta al centro, con le braccia allargate e le mani aperte, pronto ad accogliere l’eventuale pentito. Nessuno tocca cibo e il coppiere, in piedi, dietro a tutti, con una trasparente brocca di vino tra le mani, resta immobile.

Da subito, cominciando dall’arcivescovo Carlo Borromeo che in occasione della Visita Apostolica (1575) lodò la pala come: «icona multum honorifica», fino ad oggi, l’opera del Moroni continua ad essere elogiata, visitata e richiesta per esposizioni. In ordine di tempo (25.10.2014 – 25.1.2015), ha ottenuto un grande e unanime successo la sua partecipazione alla mostra «Giovanni Battista Moroni. The sackler Wing» curata da Simone Facchinetti, il migliore studioso dell’artista bergamasco, e da Arturo Galansino, presso la Royal Academy of Arts di Londra. Dopo l’ultimo restauro (2016), sostenuto dalla Fondazione Credito Bergamasco, «la bellissima Ultima Cena di Romano» (V. Sgarbi), un «capolavoro assoluto» (P. Daverio), continua a proporci il Cristo che ci interpella.

Resta attuale e folgorante la conclusione dell’omelia che don Mazzolari tenne alla sua gente proprio il Giovedì Santo del 1958. «La Pasqua è questa parola detta ad un povero Giuda come me, detta a dei poveri Giuda come voi. Questa è la gioia: che Cristo ci ama, che Cristo ci perdona, che Cristo non vuole che noi ci disperiamo. Anche quando noi ci rivolteremo tutti i momenti contro di Lui, anche quando lo bestemmieremo, anche quando rifiuteremo il Sacerdote all’ultimo momento della nostra vita, ricordatevi che per Lui noi saremo sempre gli amici».


Domenica delle Palme – 05/04/2020
“Ingresso in Gerusalemme”

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La domenica precedente la Pasqua, detta «della Passione del Signore» e, dal VII secolo, anche «delle Palme», nella liturgia è scandita da: benedizione delle palme o degli ulivi, processione, commemorazione della Passione di Cristo nella Messa.

Ciò che maggiormente caratterizza questa domenica è la celebrazione dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, in sella ad un asino, osannato dalla folla che lo saluta agitando rami (Matteo 21,1-11). «La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via» (v. 8). Si inizia così la Settimana Santa, il periodo che, dalla Domenica delle Palme al Sabato Santo, precede la Pasqua, la festa nella Resurrezione dai morti di Gesù Cristo. Sono giorni in cui si fa memoria dell’Ultima Cena di Gesù con gli Apostoli, del tradimento di Giuda, del rinnegamento di Pietro, di Gesù che, a conclusione della via crucis, agonizza e muore in croce.

L’opera di Renato Guttuso qui presentata risale al 1985 e fu inserita nell’Evangelario delle Chiese d’Italia, composto grazie alla collaborazione di teologi, intellettuali e diciotto artisti italiani, ciascuno dei quali realizzò un’opera in riferimento a un brano del vangelo. L’Evangeliario creato in modo che la Parola sacra diventasse non solo udibile, ma anche visibile e non un solo apparato illustrativo, fu presentato a Paolo VI nel marzo 1987, due mesi dopo la morte di Guttuso.

L’artista scelse di illustrare con un’incisione all’acquaforte l’«Ingresso in Gerusalemme», evidenziando più la festa movimentata che la processione verso la città santa. L’opera, dipinta con colori accesi e simbolici, pare essere costruita intorno allo sguardo che il Nazareno, in abito bianco, scambia con la donna in nero, posta vicino alla testa dell’asino: il Cristo è luce per ogni persona, specialmente per chi soffre.

In primo piano, sulla sinistra, una donna, ha deposto a terra le palme e implora innalzando le mani al cielo quasi disegnando quelle della passione sulla croce. Guttuso fa qui un’evidente citazione di Raffaello raffigurando ciò che nel 1965 aveva dichiarato: «Guardando la donna di schiena in ginocchio nell’Incendio di Borgo non posso non pensare alla Maddalena nella Crocifissione di Masaccio a Napoli».

Il Cristo, al centro della composizione, è attorniato da figure colorate con i rami di palma levati in alto e da numerose mani stese anche da fuori scena. Tra queste, osannanti e supplicanti aiuto al «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (v. 9), a destra, sopra la donna in nero, si protendono due mani, quelle dello stesso artista, come egli confermò. Uniamo pure le nostre, supplicanti serenità in questi giorni di fatica.

La Pasqua è vicina. Accogliamo l’invito di S. Proclo, morto nel 446 da vescovo di Costantinopoli: «Prepariamo la dimora della nostra anima. Togliamo le ragnatele, cioè ogni rancore contro i fratelli. Non si trovi in noi la polvere delle critiche, ma laviamo abbondantemente tutto con l’acqua dell’amore. Livelliamo le gobbe dell’inimicizia, inghirlandiamo i portici delle nostre labbra con i fiori della bontà».


Quinta domenica di Quaresima – 29/03/2020
“La risurrezione di Lazzaro”

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Nel 1303 il padovano Enrico Scrovegni, affida a Giotto la decorazione ad affresco della cappella che porta il suo nome. Dopo soli due anni i lavori sono terminati e subito meravigliano per la forza e per la novità. Ne dà conferma alla fine del XIV secolo il pittore senese Cennino Cennini nel primo capitolo del suo Il libro dell’Arte: «Giotto rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno». L’artista fiorentino seppe infatti introdurre nella pittura il senso della natura e il valore della storia, assenti nell’arte bizantina.

Nella parete sinistra, guardando all’altare, si trova la formella della «Risurrezione di Lazzaro», compresa nelle «Storie di Gesù» del registro centrale superiore. L’affresco (200×185 cm) fa riferimento al racconto del Vangelo di Giovanni (cap. 11) in cui si narra della cosiddetta «risurrezione» di Lazzaro, il miracolo/segno di Gesù che riportò in vita l’amico di Betania. Leggiamo con attenzione il brano evangelico e guardiamo l’immagine affidandoci agli occhi e al cuore, oltre che alla mente e alla ragione.

Le due sorelle, Marta e Maria, mandano a dire all’amico Gesù di venire a Betania per curare il fratello Lazzaro gravemente ammalato. Quando Cristo arriva, l’amico è già sepolto da quattro giorni e alle sorelle che lo implorano di riportare in vita Lazzaro, chiede di fidarsi di Lui, di essere accompagnato al sepolcro e lì, profondamente commosso, chiede che sia tolta la pietra. Giotto raffigura la parte finale del racconto giovanneo: Gesù, dopo aver pregato Dio Padre, ordina: «Lazzaro, vieni fuori!».

Leggiamo la scena da sinistra, partendo da Gesù che, concentrato, accompagna il comando all’amico con il gesto della mano isolata nello spazio fra i discepoli e le altre persone che rivelano una sbalordita tensione. Marta e Maria, diverse nel modo di seguire il Maestro, sono insieme prostrate ai suoi piedi e implorano.

Nell’impianto iconografico delle miniature, l’artista inserisce, tra gli altri, un elemento nuovo. Al centro, il giovane in abiti verdi, colto in pieno movimento, sembra guardare con attenzione il cadavere di Lazzaro in attesa dell’imminente istante della sua rianimazione, prestando gli occhi ai visitatori e anche a noi, affinché pur desiderosi di vedere il «miracolo», giungiamo a cogliere il «segno» del soprannaturale. Pure la montagna, sulla destra, non è più brulla: ci sono alberi frondosi e un giglio, simboli della forza di Dio che farà ritornare la vita allo stesso Cristo. Lazzaro, avvolto nelle bende bianche con cui era stato deposto nel sepolcro, è stato appena richiamato alla vita e, sorretto da due discepoli (l’aureola lo conferma), mostra il volto segnato dalla morte. Un discepolo e chi sta dietro di lui, si coprono il naso per il fetore dell’iniziata decomposizione mentre due personaggi, in basso, spostano la lastra del sepolcro.

Com’è efficace nel romanzo di Moravia l’affermazione di Michele: «…ricordatevi questo: ciascuno di voi è Lazzaro… e io leggendo la storia di Lazzaro ho parlato di voi, di tutti voi…» (La ciociara, Milano 1957, p. 123).

P.S.
Altra lettura o rilettura, con al centro La Risurrezione di Lazzaro: F. Dostoevskij, Delitto e Castigo.


Solennità dell’Annunciazione del Signore – 26/03/2020
“L’Annunciazione a Maria”

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Nell’Annunciazione a Maria – la festa dell’Incarnazione – si realizza il compimento delle promesse. Maria è chiamata a concepire, mediante la potenza dello Spirito, Colui nel quale, secondo S. Paolo, abiterà «corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Colossesi 2,9). Leggiamo o rileggiamo la narrazione nel Vangelo secondo Luca (1,26-38).

Qualche anno fa potei visitare ad Arezzo lo straordinario ciclo le «Storie della Vera Croce» che Piero della Francesca realizzò ad affresco, dal 1452 al 1458, nella cappella maggiore della basilica di S. Francesco. Il soggetto delle storie rappresentate deriva dalla «Legenda Aurea» di Jacopo da Varazze, risalente al XIII secolo, che narra la storia miracolosa del legno della croce di Cristo. In simmetria al famoso Sogno di Costantino, l’artista ha dipinto, sulla parete di fondo del coro, a sinistra, L’Annunciazione, l’affresco (329×193 cm) che, secondo il grande critico d’arte Roberto Longhi, starebbe quasi a riassumere le vicende della passione di Cristo. Questa scena, non prevista dalla «Legenda Aurea» e inclusa da Piero, in quanto inizio della Storia della Salvezza, trova conferma nell’inno alla croce – «Pange lingua gloriosi prœlium certaminis» (Canta, o lingua, il combattimento della gloriosa lotta) – composto da S. Venanzio Fortunato (530-c.600) e ancora oggi utilizzato per la preghiera liturgica nella settimana di Passione e nella festa dell’Esaltazione della Croce. In una strofa centrale il poeta tratta ampiamente dell’Annunciazione: «Quando, dunque, venne la pienezza del sacro tempo, / fu inviato, dalla rocca del Padre, il Figlio creatore del mondo, / che, fattosi carne, fu partorito da un ventre verginale».

In un’architettura che ricorda il classicismo dell’Alberti, la stupenda immediatezza della pittura presenta l’episodio evangelico in una doppia spazialità, divisa dalla colonna centrale: l’arcangelo Gabriele arriva dall’aperto, fa un gesto di saluto, porge un ramoscello di palma, simbolo del vittorioso martirio di Cristo, alla Vergine raffigurata mentre accoglie l’annuncio nella rigorosa prospettiva di un portico che pare esaltare la sua figura regale. Maria è una giovane donna, assorta, ad occhi socchiusi che, accoglie con solenne gravità il messaggio dell’arcangelo. La Vergine con la mano destra fa un gesto di sorpresa e con la sinistra regge il libro delle Sacre Scritture nel quale tiene il segno con un dito così da poter ricominciare la lettura dopo l’imprevista visita. A sinistra in alto, sullo sfondo di un cielo chiaro, Dio Padre, dipinto a mezzo busto, sopra una nuvola, stendendo le mani, invia sotto forma di raggi dorati lo Spirito Santo per donare al mondo il «Dio con noi».

Piero della Francesca ci ha lasciato una rappresentazione del mistero del Verbo incarnato, incipit della salvezza di ogni persona, da due millenni reinterpretato da un numero illimitato di artisti che presentano Maria come una donna che liberamente ha accolto e donato la vita, per amore.

La contemplazione dell’affresco di Piero colpì anche la fantasia poetica di Pasolini, quando, nel 1955, davanti all’Annunciazione, descrivendo la luce crepuscolare del vespro, scrive: «È una luce / – ah, certo non meno soave / di quella, ma suprema – che si spande / da un sole racchiuso dove fu divino / l’Uomo, su quell’umile ora dell’Ave» (P.P. Pasolini, La ricchezza, in La religione del mio tempo, Milano 1961, pp. 8-9).


Quarta domenica di Quaresima – 22/03/2020
“Guarigione di un cieco dalla nascita”

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Emmanouil Tzanes Bounialìs, prete ortodosso, nato a Creta nel 1610, è uno degli iconografi e dei pittori greci più famosi del suo tempo, che sin da giovane è andato a Venezia dove ha realizzato la maggior parte delle sue opere e dove è morto nel 1690.

Tra le numerose sue icone firmate, in buona parte conservate nella importante collezione di San Giorgio dei Greci a Venezia, una è stata da lui “scritta” a commento del capitolo 9 del Vangelo di Giovanni, proprio il brano proclamato nelle Messe di domenica, IV del cammino di quaresima.

Il racconto della «Guarigione di un cieco dalla nascita» si può così suddividere: descrizione del miracolo (vv. 1-12), a cui segue un interrogatorio con al centro l’uomo, che ha recuperato la vista (13-17); interrogazione dei suoi genitori (18-23); ancora domande dei farisei al cieco guarito (24-34); colloquio con il Maestro (35-38); annuncio di Gesù sui motivi della sua venuta (39-41): perché gli uomini abbiano la vista, ma anche per giudicare quelli che presumono di averla.

Tzanes che firma e data (1686) l’icona in basso e in alto la titola «La guarigione del cieco» (in greco e anablepsis tou tuflou), ci aiuta a comprendere le varie fasi narrate da Giovanni. In mezzo, mediante l’impiego del primo piano scenico, sta la scena centrale: il momento in cui il Signore spalma il fango sugli occhi chiusi del cieco dalla nascita, attorniato dai dodici discepoli sorpresi perché spiritualmente «ciechi». Infatti sono ancora fermi a chiedersi chi è il colpevole di quella malattia.

Sulla sinistra, davanti a una solenne costruzione con arco a tutto sesto, il cieco – secondo l’ordine di Gesù – si sta lavando con l’acqua della piscina di Siloe per poi, esultante e senza bastone, correre verso la gente. Lo ritroviamo difatto in prima fila, trattenuto per le braccia, che risponde alle domande dei farisei, davanti a una folla, nell’atrio di una maestosa costruzione, ad archi veneziani. Sulla destra, si vedono i genitori del cieco guarito che, usciti dalla città, sono accompagnati per essere pure loro interrogati.

I dialoghi narrati dall’evangelista trattano da una parte il graduale cammino di fede di colui che era cieco e, dall’altra, il progressivo indurimento nell’incredulità dei farisei di fronte al compito principale del Cristo, il Messia, che è venuto a portare la luce e guarire dalla cecità, stimolando una decisione di fiducia o di rifiuto.

Guardiamo con cura la riproduzione dell’icona e ascoltiamo il consiglio di Papa Francesco: «Io vi suggerisco, oggi: prendete il Vangelo di Giovanni e leggete questo brano del capitolo 9. Vi farà bene, perché così vedrete questa strada dalla cecità alla luce e l’altra strada cattiva verso una più profonda cecità. […] Non dobbiamo avere paura! Apriamoci alla luce del Signore, Lui ci aspetta sempre per farci vedere meglio, per darci più luce, per perdonarci» (Angelus del 30 marzo 2014).


Solennità di San Giuseppe – 19/03/2020

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Il santo papa Giovanni XXIII parlava spesso di san Giuseppe nei suoi discorsi e fu lui ad inserire il nome di «san Giuseppe» nella preghiera eucaristica del Canone Romano, alla fine del primo periodo del Concilio Ecumenico Vaticano II (13.11.1962).

Dopo essersi accorto che nella basilica vaticana non vi era un altare o un monumento dedicato al padre putativo di Gesù, il Papa prese una decisione. Nella sua lettera apostolica Le voci (19.3.1961), affidò allo sposo di Maria il buon esito del Concilio Vaticano II e annunciò la dedicazione di un altare nella basilica di san Pietro. Infatti il 19 marzo 1963 il santo papa bergamasco benedisse il mosaico «San Giuseppe, patrono della Chiesa universale», posto sull’altare del transetto meridionale di san Pietro e si complimentò con l’autore Achille Funi (1890 – 1972), per aver ritratto «finalmente un san Giuseppe dall’aspetto giovanile».

Il mosaico riproduce una pala a tempera dell’artista – dal 1945 docente di pittura e poi direttore dell’Accademia Carrara – e mostra, vicino ad una cattedra in stile bizantino, san Giuseppe in piedi, che con tenerezza tiene con la destra il figlio Gesù e con la sinistra un alto giglio fiorito, la conferma d’essere stato scelto da Dio a fare il padre putativo.

Nella parte opposta, in cielo, compare un angelo che mostra un cartiglio con la scritta Tu eris super domum meam (Tu veglierai sulla mia casa): la missione affidata da Dio a Giuseppe di proteggere la Chiesa universale, simboleggiata sia dal cupolone della basilica vaticana, posto al centro della scena, sul fondo, sia dal modellino della nave della chiesa offerta al Santo da un altro angelo genuflesso. Sulla sinistra, un giovane inginocchiato, presenta un ramo d’ulivo, simbolo di pace.

Mi piace proporre la domanda tratta da uno scritto del 1952 di don Giuseppe De Luca, un grande prete e intellettuale, in un rapporto così filiale con Giovanni XXIII fino al punto che il Papa corse al suo capezzale a salutarlo, pregando, nel momento del passaggio al Paradiso. Era il 19 marzo 1962, solennità di san Giuseppe.

«Quanti sono i cristiani, che il giorno di san Giuseppe raccomandano al Santo, non dico la Chiesa universale, ma quel tanto di Chiesa che è nel loro paese, col suo campanile e il suo cimitero, con il suo parroco e con i suoi poveri e i suoi malati, con i suoi vecchi e con i suoi ragazzi, con i suoi vivi e con i suoi morti?».

Cari papà: Auguri di cuore e buona festa! Prego il buon Dio attraverso san Giuseppe affinché come lui siate i custodi della crescita e del cammino dei vostri figli.


Terza domenica di Quaresima – 15/03/2020
“Dammi da bere”

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L’itinerario mistico della Quaresima verso la Pasqua continua con il personaggio della samaritana che il Signore Gesù incontra vicino al pozzo di Giacobbe, alla ricerca di acqua. In questa terza domenica quaresimale, è l’evangelista Giovanni (4, 4-42), a narrarci l’episodio.

La samaritana, dopo la Maddalena, è la donna del vangelo maggiormente presente nella storia dell’arte a partire da quella che dal IV secolo si trova nella catacomba di via Latina a Roma.

Nella cattedrale di Monreale, uno fra i più begli esempi di arte arabo-normanna, nello stile delle chiese cluniacensi, si trova un imponente ciclo musivo del XII secolo con una decorazione di oltre seimila e quattrocento metri quadrati ripartiti.

L’anonimo mosaicista, sul braccio destro del transetto, ci mostra il fatto descritto da Giovanni nella splendida icona di Gesù che presso il pozzo di Sicar incontra la donna samaritana. Secondo la tradizione bizantina, la composizione ha come perno il pozzo, nella forma tipica dell’era arabo-normanna; Cristo è seduto vicino al pozzo; sul lato opposto la Samaritana, in piedi.

La scritta in latino dice: Christus sedens iuxta / puteum loquitur cum Sa / maritana (Cristo, seduto ai margini del pozzo, parla con la donna samaritana).

Gesù è raffigurato come il Redentore, con la mano destra benedicente e con la sinistra che regge il rotolo, il chirografo del peccato, cioè il documento con il nostro debito da Lui estinto con la croce, nella consueta iconografia di un uomo con la barba e con l’aureola in cui è inscritta una croce rossa di cui si vedono solo tre braccia e che definisce il suo carattere divino.

La samaritana, raffigurata con abiti solenni e splendidi ornamenti mentre sta manovrando la corda per calare o forse ritirare il secchio dal pozzo, è immagine di ogni cristiano e della Chiesa.

Dietro il Maestro figurano gli Apostoli, cappeggiati da Pietro, di ritorno dalla città dove erano andati per comperare i pani che egli tiene tra le mani.

In tutte le cappelle delle Missionarie della carità, per la volontà della fondatrice S. Madre Teresa di Calcutta, compare la grande scritta «Ho sete», proprio la richiesta di Gesù alla samaritana che, il 10 settembre 1946, cambiò la vita di Madre Teresa e diede inizio alla nuova famiglia religiosa. La Santa che cominciava la sua missione ogni giorno, prima dell’alba, stando tre ore davanti all’Eucaristia, sorgente della sua carità, così motivò la scritta alle «sue» suore: «Solo la sete di Gesù, sentendola, ascoltandola, rispondendovi con tutto il cuore, terrà vivo il vostro amore. Più vi avvicinate a Gesù e meglio conoscerete la Sua sete”.

L’evangelista Giovanni ci aiuta a scoprire che il tuo, il mio, ogni incontro con Gesù apre sempre a orizzonti sorprendenti, introduce di continuo a una vita più bella e migliore.

P.S.

Consiglio l’ascolto attraverso youtube de Il forestiero, un brano cantato da Adriano Celentano che, negli anni 70, metteva in musica il lungo dialogo evangelico fra Gesù e la samaritana (testo di Luciano Beretta e Miki Del Prete; musica di Gino Santercole e Nando de Luca).


Seconda domenica di Quaresima – 08/03/2020

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Oggi il Vangelo proclamato nella II domenica di Quaresima (Matteo 17,1-9) narra la Trasfigurazione di Gesù. Tra le numerose immagini, ho meditato La trasfigurazione di Gesù di Raffaello Sanzio, che si trova nei Musei Vaticani. Condivido con voi alcune riflessioni, quasi a significare anche così la presenza viva del M.A.C.S.

Il Vasari definisce questa opera “la più celebrata, la più bella e la più divina” tra le opere realizzate dal Maestro d’Urbino.

Raffaello che nasce e muore di Venerdì Santo, fa in tempo a dipingere il volto del Trasfigurato prima di ammalarsi e morire improvvisamente il 6 aprile del 1520, a 37 anni.

Quel giorno, nella chiesa del Pantheon, tutta Roma piangeva anche perché, dice il Vasari, dietro il corpo di Raffaello posto sul catafalco, era stata collocata proprio la tavola della Trasfigurazione così che nel vedere “il corpo morto e quella viva” era impossibile trattenere le lacrime.

Raffaello è artista straordinario. Gesù non è solo illuminato da una luce divina ma egli stesso si trasforma in luce e illumina l’umanità. Per questo le due scene sono contrapposte. La parte superiore è luminosa e celebra la vittoria della speranza mentre quella in basso riporta tutti alla realtà quotidiana. Sotto la Trasfigurazione, continua il racconto del Vangelo che parla del ragazzo ammalato, qui presentato agli apostoli non saliti sul monte. La mamma, il papà e gli altri che gli sono accanto, vogliono aiutarlo, consapevoli che la sua guarigione è anche la loro. Ma solo Cristo, trasfigurato sul Tabor, può salvare.

SOTTO ci siamo anche tutti noi! Ci sono le nostre paure, i contrastanti sentimenti (gli uomini e le donne che si agitano), c’è lo splendore del mondo (il tramonto romano dietro il monte Tabor), c’è il conforto della bellezza che accende il cuore e ci aiuta a sentirci, nonostante tutto, felici di esistere. Raffaello ci fa capire che la luce che abita Gesù, non è per lui solo ma è luce per ogni donna e ogni uomo. Guardiamo a Lui, ascoltiamolo e ci aiuterà a giungere alla vita piena, alla nostra trasfigurazione.

Un OMAGGIO a tutte le donne.

La splendida figura femminile di spalle, inginocchiata, in basso, sarebbe il simbolo della fede operosa (o amore). Ella non solo ci chiede di affidarci a Gesù e alla sua bellezza, ma ci addita il compito quotidiano di cercare la luce e la bellezza di Dio in ogni donna e in ogni uomo.

GRAZIE a voi, donne.