la benedizione che abbiamo udito nella pagina tratta dal libro dei Numeri è una benedizione che vorremmo abbracciasse l’anno che si chiude e lo porti a compimento, diventando il segno e l’augurio di Dio sull’anno che si apre.
Questa considerazione ci introduce a qualche riflessione sul tempo, come è abbastanza naturale in questo ultimo giorno dell’anno. C’è un passaggio della lettera che il Papa ha scritto, intitolandola “il Vangelo della gioia”, che fa riflettere sul tema del tempo. Il Papa con una espressione molto sintetica dice: “Il tempo è superiore allo spazio. Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà pone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci”.
Mi sembra una bellissima pagina che ci permette di leggere, senza troppa rassegnazione, i giorni che si stanno compiendo e soprattutto ci permette di illuminare lo sguardo sui giorni che ci attendono. Nella prospettiva del tempo rappresentato dall’anno che si conclude e dalla riflessione che il Santo Padre ci consegna, io vorrei dire grazie. Prima ancora che dirci auguri, diciamoci grazie, perché gli auguri siano più veri.
L’augurio non è qualcosa che noi vogliamo affidare alla fortuna, al destino. Auguri, ma non sappiamo perché e se sia alla fine sensata una parola di questo genere. L’augurio non è affidato alla fortuna, ma noi vogliamo affidarlo all’amore. L’augurio come espressione di amore e quindi di responsabilità, di disponibilità al sacrificio di noi stessi. Lo affidiamo all’amore che è umiltà e accoglienza, che è condivisione e creatività. Ecco il nostro augurio.
Un augurio che diventa il frutto della riconoscenza. La riconoscenza nasce da un rapporto personale. Non si è riconoscenti al caso, non si è riconoscenti alla fortuna senza volto, che può trasformarsi senza alcun motivo in sfortuna, non si è riconoscenti neppure ad una macchina, seppur efficiente e spesso magari è qualcosa che rende migliore il nostro lavoro e la nostra vita. Si è riconoscenti a qualcuno. La riconoscenza è espressione di un rapporto, di una relazione.
Anche la riconoscenza, come gli auguri, non è soltanto un dovere o un segno di buona educazione, ma è soprattutto un atto d’amore. È l’amore che accoglie il dono e proprio perché lo riconosce come un dono, non lo paga, ma lo apprezza. La riconoscenza esprime con tutta la nostra persona, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre intenzioni e convinzioni, la gioia di aver ricevuto un dono, la consapevolezza che non lo restituiremo nello stesso modo, ma a partire dalla nostra condizione, dalla nostra originalità, da uno spirito profondo di gratuità. La riconoscenza non può essere imposta. La riconoscenza la impone la mafia, la riconoscenza la impone un rapporto corrotto o corruttore – “mi sarai riconoscente” è più una minaccia che un dono -. La riconoscenza è affidata alla libertà, anche alla libertà di chi è irriconoscente. Appartiene al mondo della gratuità, appartiene al mondo dell’amore.
Riconoscenza per quello che abbiamo ricevuto e augurio che altro potremo ricevere. Sono due espressioni di un cuore che ama, di relazioni personali.
Mentre noi diciamo grazie, qualcuno maledice. Maledice la sfortuna? Maledice Dio? Maledice certamente le disgrazie che lo hanno afflitto durante quest’anno. Un piccolissimo apologo orientale dice: “Venne un terremoto e la mia casa resistette. Uscii per ringraziare Dio, ma nel momento in cui lo ringraziavo mi sono accorto che la casa del mio vicino era completamente distrutta. Come faceva lui a ringraziarlo?”.
Cari fratelli e sorelle la fede ci porta qui a dire grazie, a dirci auguri, ma soprattutto a riconoscere il dono più grande dentro il quale ogni esperienza umana, anche quella disastrosa e dolorosa, può essere recuperata: è l’esperienza di Gesù Cristo, è il dono di Gesù Cristo. Siamo qui innanzitutto per dire questo: come la nostra vita assume un senso e un significato nel momento in cui la nostra fede ci concentra intimamente nella relazione con il Signore. Allora il grazie affonda nel profondo, allora l’augurio appunto non è un gesto o una parola affidata al destino, ma a lui, il grande dono di Dio che in questi giorni natalizi noi ci siamo disposti nuovamente ad accogliere.
La nostra riconoscenza per il bene e per i doni ricevuti diventa comprensione e condivisione con chi non ha o non ha trovato o non riesce a trovare motivi per dire grazie. Che la nostra comprensione e condivisione diventi motivo anche per chi fa fatica a dire grazie, di vedere una luce.
Carissimi, continuiamo la nostra celebrazione, canteremo il Te Deum, riceveremo la benedizione, ma soprattutto incontriamo Lui, la ragione della nostra speranza e quindi del nostro augurio cordiale, ma soprattutto la ragione della nostra riconoscenza a Dio che trasforma la vita.
È quella riconoscenza che ha espresso Maria, Madre di Dio. L’ha espressa dicendo: “Eccomi, avvenga di me secondo la tua parola”. È quella riconoscenza che ha espresso dicendo il suo Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva”. È quella riconoscenza che Maria manifesta al mondo e alla storia facendo il dono di suo figlio: che cosa c’è di più grande da donare che il figlio? Maria, alla fine, donerà quel figlio che le è stato donato. Cari fratelli, che così avvenga in questa Eucaristia, che la nostra fede ci faccia capaci di riconoscenza e augurio per tutti i giorni che ci attendono.