Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato – Trescore Balneario

19-01-2014
Grazie a te, don Ettore, ai sacerdoti, a tutta la comunità di Trescore. Grazie a tutti i sacerdoti e a tutte le comunità di questo vicariato. Grazie particolarmente al direttore dell’Ufficio Migranti, don Massimo, e ai suoi collaboratori, ai sacerdoti che sono al servizio delle diverse comunità linguistiche e etniche presenti nella nostra Diocesi. Un saluto ai sindaci presenti, alle autorità che rappresentano il nostro popolo. Un saluto a tutti voi, cari fratelli e sorelle e affettuosamente a voi, fratelli e sorelle che venite da lontano, da Paesi diversi dal nostro, alcuni ormai da tanti anni, altri più recentemente. Vogliamo pregare tutti insieme, così come don Ettore ci ha ricordato, così come questa 100a Giornata ci propone. Permettetemi di dire un grazie particolare ai fratelli della comunità musulmana, che mi hanno accolto offrendomi come segno di amicizia, di vicinanza, di condivisione il loro tè.
 
Anche questo contribuisce a quel cammino, che appunto non vuole allontanarci, ma avvicinarci, nonostante gli ostacoli che dobbiamo superare. In questo momento è proprio l’apertura, la grazia di Dio alla sua Parola, al suo Amore, che rinnova le nostre speranze, che ci rende irriducibilmente convinti che la strada da percorrere sia quella dell’unità. Entriamo insieme nei santi misteri domandando perdono per tutte le volte che in noi sono prevalsi i sentimenti che allontanano, che dividono, che ci rendono ostili gli uni gli altri, cominciando dalle nostre famiglie, fino alle comunità più estese.

 
Care sorelle e cari fratelli,
                celebriamo questa 100a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato all’insegna di quel titolo e di quel messaggio che il Papa che ci ha consegnato e recita così “Migranti e rifugiati verso un mondo migliore”. Che cos’è questo mondo migliore? È un mondo salvato, è un mondo riscattato dal male, è un mondo fondato sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore e sulla pace. Così come nel suo limpido e indimenticato magistero ci ricordava Papa Giovanni. Il mondo non sarà mai così, ma è chiamato ad essere così. E se noi vogliamo vivere in maniera degna del mondo che ci è affidato, ogni giorno dobbiamo corrispondere a questa chiamata del mondo. Il mondo perfetto sarà quando Dio sarà tutto in tutti. Il mondo migliore non può essere soltanto per qualcuno, un mondo soltanto per me, un mondo soltanto per noi. Abbiamo udito dal profeta Isaia “io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino alle estremità della Terra”. Il mondo migliore è un mondo in cui riconosciamo i segni del futuro, a partire da quella ricreazione che Gesù ha ricominciato. Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, l’innocente che prende la strada di portare su di se il peccato, l’ingiustizia, il male, che li affronta e li supera non con la loro logica, ma con una logica nuova: la logica dell’amore che trasforma, anche a prezzo del proprio sacrificio. In questa città, in questa terra, mi piace ricordare un segno, una persona che attraverso il suo sacrificio e attraverso la testimonianza della sua famiglia ci ricorda l’intensità sofferta di questa verità.
 
Il mondo migliore è il mondo nel quale nessuno è straniero, nessuno è escluso, nessuno è lontano, come dice il titolo di questa Giornata, celebrata nella nostra Diocesi a vent’anni dalla costituzione dell’Ufficio Migranti. È stato Papa Paolo VI, altro grande nostro testimone della fede, che a conclusione del Concilio ecumenico pronunciava queste parole che non sono semplicemente uno slogan, ma diventano un programma per la comunità cristiana e la Chiesa universale. Nella Chiesa e per la Chiesa nessuno è straniero, nessuno è escluso, nessuno è lontano. La ricchezza di queste prospettive viene accompagnata nell’insegnamento di Papa Francesco da delle indicazioni precise particolari dove il Papa ci ricorda che questa realtà, questa dimensione del mondo contemporaneo, va affrontata in maniera globale. Ogni tentativo di affrontare in termini parziali questo tema, questa realtà, è destinato al fallimento.
 
Il Papa ricorda che il tema della migrazione, oggi come allora, interpella i Paesi di origine di ciascuno e le politiche perché lo sviluppo possa garantire la possibilità di vivere nella propria terra, di vivere accanto alla propria famiglia. È un tema, ricorda il Papa, da affrontare soprattutto con una mentalità nuova. E allora ritorna quello che ormai è diventato uno stigma di questo pontificato, una parola rivolta innanzitutto ai cristiani e a tutti gli uomini: bisogna passare dalla cultura dello scarto alla cultura dell’incontro. Perché non è semplicemente superare la cultura dello scontro, ma superare quella cultura e qui meccanismi che continuamente producono scarti. Per cui i rifiuti non sono soltanto quelli che con grande difficoltà e a volte con altrettanti egoismi produciamo e non sappiamo smaltire, ma i rifiuti diventano: rifiuti umani. Qui vengono veramente tanti, in qualche modo, consumati e ridotti a questa stregua: migranti, rifugiati, anziani, disabili, improduttivi, persone che non sono capaci di reggere i ritmi delle eccellenze che ci vengono proposti.
 
Certamente questo cambio di mentalità si accompagna ad alcune condizioni che in termini essenziali ricordo. Dobbiamo sempre più renderci conto non in termini rassegnati che la migrazione, che pure ha connotato in termini così forte la storia del nostro Paese e che in questi momenti si sta rinnovando in forme nuove ma a volte altrettanto inquietanti, ebbene la grande migrazione di popoli in questi decenni è una realtà che non può essere considerata semplicemente con i criteri dell’emergenza. Il cambiamento di mentalità ci deve portare a riconoscere che il tema della libertà religiosa è un tema decisivo nel mondo contemporaneo, in Italia e in tutti i Paesi del mondo. A questo tema non possiamo sottrarci. Libertà religiosa significa anche diritto al culto, poter pregare secondo la propria religione e aver luogo degni dove poter celebrare e pregare. Ancora questo cambiamento interpella la comunità cristiana in un modo particolare. Cari fratelli e sorelle, questa lettura del Vangelo in molte lingue dice come è la Chiesa oggi: una Chiesa unita dalla fede, formata da popoli, i più diversi, dalle lingue più diverse, ma che riconoscono come decisivo il loro legame con Cristo e lo riconoscono come principio della fraternità che non deve fermarsi soltanto alla comunità cristiana. E allora permettete di immaginare come le nostre comunità cristiane e anche le nostre comunità civili possono diventare grembo di un mondo migliore. Lo diventeranno se alimentiamo ragioni di fiducia, è impensabile che il popolo italiano si trovi in questo momento ai livelli più bassi delle classifiche dei sentimenti di fiducia che un popolo nutre, non semplicemente nei confronti delle istituzioni, ma nei confronti dei propri concittadini.
 
Cari fratelli e sorelle, come cristiani, come cittadini, dobbiamo porci di fronte a questa istanza. Più alimentiamo ragioni di sfiducia, più diffondiamo ragioni di sfiducia, più ci rendiamo possibile un mondo migliore, un futuro che possa attrarre i nostri sforzi per illuminare gli occhi dei nostri figli. Una fondamentale fiducia nelle persone, che ci stanno vicina, con le quali possiamo costruire rapporti di fiducia certamente non ingenui, ma appunto nemmeno segnati da quella radicale sfiducia che sembra accompagnarci in questo tempo: la fiducia nel futuro, la fiducia nella ripresa, la fiducia nelle istituzioni potrà ritrovare il suo nervo nella misura in cui coltiviamo fiducia tra noi, con le persone che vivono con noi, col cuore di ogni persona, a qualsiasi popolo appartenga, a qualsiasi lingua sia la sua. Una fondamentale fiducia nelle persone e nel bene vuol dire fondamentale fiducia nei rapporti e nel significato di questi rapporti. Perché le comunità cristiane e civili diventino grembo di un mondo migliore è necessario che superiamo noi stessi, che le nostre stesse comunità superino se stesse. Noi stiamo scontando il grave peccato del ripiegamento su noi stessi, alla fine i nostri nemici rischiano di essere quelli che stanno nella nostra casa, nel nostro paese, nelle nostre comunità, a volte adottando la possibilità di adottare su chi è diverso, su chi è lontano, su chi proviene da altri Paesi gli esiti di questa cultura tutta centrata su di me, sul mio io, non potremo che rimanere fondamentalmente soli e impauriti da una condizione di questo genere. D’altra parte non basta che il mio io superi se stesso e la vicenda evangelica è tutto un superamento di noi. La realizzazione della vita non sta in questo ripiegamento e ne stiamo pagando conseguenze evidenti, eppure siamo così duri a comprendere. Il superamento di se e il superamento delle nostre stesse comunità, le nostre famiglie rinchiuse in se stesse, per cui il vicino, non solo straniero, ma della nostra stessa lingua, della nostra stessa cultura, diventa estraneo. Un’estraneità diffusa, i nostri paesi, le nostre città, non possiamo pensare così. È difficile, perché ci siamo abituati, perché crediamo che questa sia la ragione forte, che il resto sia impercorribile, impensabile, lasciato a qualche buon’anima. Superamento di se, superamento dei confini di ogni comunità, diventare grandi, diventare liberi, costruendo comunità da tanti noi che trasformano gli uomini in tanti altri, a un noi comunitario sempre più ampio, capace di condividere problemi e soluzioni e a guide che si facciano interpreti di questo noi comunitario e non soltanto di noi parziali ed esclusivi.
 
Cari fratelli e sorelle, mentre dico queste cose, ho presente gli ostacoli, le fatiche, le delusioni, le smentite che ci percorrono. Ho presente anche le paure che ci affliggono e che a volte ci irrigidiscono. Ma a chiusura noi aggiungiamo chiusura. E dove ci porta questo se non ad una radicale solitudine? I temi della sicurezza che sono temi di una grande serietà e che ogni giorno non solo riempiono le pagine dei giornali, ma riempiono le nostre riflessioni, le nostre responsabilità, vanno affrontati con gli strumenti appropriati che una società si dota. Ma è impensabile di immaginare a rinunciare a quella ricchezza di relazioni, forti, significative, che per altro hanno accompagnato la vita delle nostre comunità e che garantiscono quel tessuto dentro le quali l’insicurezza, la paura, trova innanzitutto una risposta comunitaria insieme alla risposta necessaria con gli strumenti e le persone competenti e appropriati.
 
Una comunità cristiana, una comunità civile come grembo di un mondo migliore è una comunità che nutre speranza, ma non una speranza affidata alla fortuna, al caso, al fato, al destino, una speranza che si fonda in Dio, nella fede in Dio.
Cari fratelli e sorelle, siamo qui, credenti di tutti i Paesi, di tutti i popoli, di tutte le lingue, è da questa fede condivisa che nasce una speranza forte, non semplicemente una speranza che viene messa alla prova della paura o della delusione, la speranza forte che nasce in quel Cristo che veramente ha iniziato la trasformazione del mondo e che se ci chiede di essere discepoli e per il quale vogliamo essere discepoli veramente siamo chiamati a seguirlo sulla strada che è la fede in Dio e che diventa speranza per tutti gli uomini. Quella fede diversa in Dio, anche nei confronti di uomini e di donne di altre religioni, non può più essere motivo di divisione, deve diventare motivo, desiderio di conoscenza più profonda, di conoscenza che percorra le strade possibili di una condivisione e di una vicinanza. Il Papa conclude il suo messaggio con questo auspicio, rivolto soprattutto a voi, cari immigrati: non perdere la speranza che anche a voi sia riservato un futuro più sicuro, che sui vostri sentieri possiate incontrare una mano tesa, che vi sia dato di sperimentare la solidarietà fraterna e il calore dell’amicizia.
 
Il segno delle mani che rappresenta il simbolo della celebrazione di quest’anno da parte del nostro Ufficio Migranti riprende proprio queste parole del Papa: possiate incontrare una mano tesa. Abbiamo vissuto la stagione delle mani pulite, il Papa ci indica la stagione delle mani tese, vogliamo raggiungere la stagione delle mani unite.