S. Giuseppe Lavoratore

San Paolo D'Argon - Cantina Sociale Bergamasca
01-05-2020

Care sorelle e fratelli,
iniziamo questa Eucaristia nel giorno della memoria di San Giuseppe lavoratore che è diventata la festa del lavoro, la festa delle lavoratrici e dei lavoratori, una tradizione che in tutto il mondo si celebra.

Le condizioni che stiamo tutti sperimentando da mesi non ci permettono di ritrovarci insieme. Un grande servizio ci viene offerto dai mezzi della comunicazione e da coloro che vi lavorano, anche oggi, che ci uniscono in maniera tutta particolare.

Pregherò in questa celebrazione in modo particolare per tutte le donne e gli uomini che nel lavoro trovano tantissime delle espressioni più importanti della vita e della comunità umana.

Voglio ricordare al Signore le lavoratrici e i lavoratori di ogni settore, imprenditori e dirigenti; i sindacalisti (saluto il segretario provinciale della CISL in un anno molto particolare per questo sindacato che celebra il suo 70mo di fondazione), gli amministratori locali e i politici (saluto in modo particolare i sindaci dei comuni di Montello e di San Paolo d’Argon che sono qui).

Voglio ricordare al Signore i pensionati e i tutti volontari che in queste settimane in modo intensissimo hanno rappresentato la dedizione e la generosità della nostra terra.

Desidero pregare per i morti sul lavoro e per coloro che sono rimasti invalidati.

Desidero pregare in modo speciale per precari e disoccupati.

Siamo in un luogo molto particolare dove avevamo già pensato di venire prima che il contagio esplodesse. Siamo presso la Cantina Sociale Bergamasca e ringrazio di cuore la dirigenza e tutti coloro che vi lavorano per l’ospitalità che hanno voluto concederci.

In questo luogo, allora, vorrei ricordare al Signore coloro che lavorano nell’agricoltura, nella zootecnia e in tutta la filiera agroalimentare.

Voglio ricordare al Signore tutte le persone che in queste settimane e in questi mesi ci hanno garantito i servizi essenziali alla nostra convivenza e alla nostra stessa vita: come non ricordare in questo momento tutti coloro che hanno lavorato per la salute dei malati e per la preservazione della salute di tutti: medici, infermieri, personale sanitario ad ogni livello e coloro che hanno la responsabilità delle strutture sanitarie in ogni ambito.

Penso al mondo della scuola, penso al mondo della cura e in modo particolare alle nostre famiglie che hanno rappresentato ancora una volta una risorsa enorme nell’affrontare questo tempo così difficile.

Penso a coloro che si dedicano all’assistenza degli anziani, alle donne e agli uomini che garantiscono l’ordine pubblico e pubblica amministrazione, che si occupano della comunicazione e giornalismo, a coloro che lavorano bell’ambito dell’agricoltura e dell’alimentazione, del commercio, dei trasporti e della logistica, della pulizia e delle sanificazioni.

Non posso dimenticare il grande contributo e la testimonianza che le nostre parrocchie hanno dato in questo tempo.

La preghiera sale al Signore per tutti coloro che sono morti: il loro numero è impressionante in questi giorni, soprattutto perché la morte si è portata vita una generazione che ha lavorato ai fondamentali della società italiana, al suo sviluppo, alla sua affermazione nel mondo dopo le grandi tragedie della dittatura fascista e della seconda guerra mondiale.

L’Eucaristia, che come ogni anno – anche se in condizioni diverse – sto per celebrare rendendo grazie al Signore per tutti voi, per i vostri cari, per i defunti, possa rappresentare il segno di un Dio che per non abbandonarci si è fatto pane e vino per l’intera umanità.

***

Care sorelle e fratelli,
abbiamo udito nel Vangelo che Gesù viene riconosciuto come il figlio del falegname. Questo ci dice quanto il lavoro appartiene alla nostra condizione umana e ci qualifica. Così come ci ha consegnato la bellissima pagina della Genesi, il lavoro appartiene all’opera di Dio affidata alle mani dell’uomo.

Proprio a partire dalla nostra esperienza di lavoro, io mi faccio voce di una domanda: quante volte dovremo ripartire?

In questi anni, in maniera sempre più frequente, questa domanda è salita dai nostri cuori, dalle nostre famiglie, da tanti uomini e donne che riconoscono nel lavoro qualcosa di essenziale e decisivo per la loro vita, per la vita dei loro cari, per la vita del mondo.

Quante volte? Nella storia le ripartenze sono una costante e in questi anni ci sembra che l’accelerazione sia anche l’accelerazione di momenti di crisi che ci appaiono sempre più severi, cui segue una necessaria, voluta, decisa ripartenza.

Quante volte fino ad oggi abbiamo dovuto ripartire, abbiamo deciso di ripartire, a distanze sempre più ravvicinate. Quante volte ancora nel prossimo futuro.

Ma quante volte? A questa domanda si accompagnano due constatazioni.

La prima è che la constatazione che molte volte queste ripartenze hanno un prezzo: non soltanto quello del sacrificio di chi riparte, ma è quello della sofferenza, dello smarrimento, della disperazione di chi non ce la fa a ripartire. Ogni volta succede così: c’è sempre qualcuno che non ce la fa, qualcuno che addirittura rimane fuori, qualcuno che si sente improvvisamente inutile, incapace, inadatto e forse anche indesiderato. Quante volte!

La seconda considerazione che si accompagna a questa domanda è che occorre una grande forza morale. Si riparte non solo per necessità, non basta tanto meno la paura; si riparte non solo per interesse, ma una ripartenza reale che abbia i connotati di una solidità non solo organizzativa esige una grande forza morale.

Quando parliamo di grande forza morale pensiamo a quella condizione che non può prevedere che ci siano scartati, inutili, dimenticati, inadatti, indesiderati.

Insieme a questa domanda in queste settimane ho percepito un’infinità di sentimenti.

Nel silenzio che accompagna la vita delle nostre città non ho fatto fatica a sentire la voce delle nostre famiglie, delle nostre famiglie, delle persone sole, di tante donne e di tanti uomini. E di avvertire i loro sentimenti ascoltandoli e assimilandoli: sono entrati dentro di me e sono diventati i miei sentimenti: il dolore, la paura, lo sgomento, l’angoscia, il pianto, l’attesa, lo smarrimento… ma anche la speranza, la preghiera, la compostezza, la responsabilità, l’ingegno, il cuore… quanti sentimenti! Non possiamo dimenticarne nemmeno uno!

Ed è doloroso vedere insieme a questi sentimenti umanissimi quelli che invece rappresentano il volto scuro della nostra umanità, cioè la nostra disumanità: la sguaiatezza, il cinismo, l’indifferenza… Anche questo c’è, anche questo può abitare il nostro cuore.

Care sorelle e fratelli, in questa Eucaristia io desidero portare al Signore l’intensità dei vostri sentimenti, l’intensità dei sentimenti delle famiglie e delle comunità, l’intensità dei sentimenti di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici.

Una delle immagini che rappresenta quello che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo, anche se in maniera più placata, è quella della tempesta.

La tempesta si è scatenata su tutti. Siamo forse migliori perché meno colpiti di altri? Di cosa abbiamo ancora bisogno per comprendere che siamo tutti sulla stessa barca? Siamo ancora tentati di buttar fuori qualcuno dalla barca, per salvarci da soli?

Non dimenticheremo mai l’immagine del Papa, solo, sotto la pioggia, in una piazza deserta e la sua parola: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca … La tempesta ha smascherato la nostra vulnerabilità e le nostre false e superflue sicurezze … Non possiamo pensare di rimanere sempre sani in un mondo malato…. È venuto il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai”.

È alla luce di Dio, imbarcato sulla nostra stessa barca, che riconosciamo il prossimo non come un pericolo, ma come un fratello e dunque navighiamo non contro l’altro, non senza l’altro, ma insieme all’altro; non gli uni contro gli altri, non senza gli altri, ma insieme agli altri.

Che cosa raccogliamo da questa nostra preghiera? La consapevolezza del nostro limite e della nostra fragilità. Quella consapevolezza che dovrebbe indurci a dire senza vergogna: io ho bisogno di te.

Da questa dichiarazione umile ne nasce anche la possibilità di una risposta corale fatta non soltanto di competenze, ma di grande generosità e dedizione. Non c’è che la fraternità a permettere a questo mondo di vivere. In questa solitudine inaudita della nostra umanità, se non c’è la fraternità, il nostro mondo è un orrore assoluto.

Care sorelle e fratelli, non facciamo dell’eccellenza la giustificazione per l’esclusione sociale.

Da sempre siamo diventati consapevoli dell’interdipendenza degli uni dagli altri, di popoli da altri popoli, e mai come oggi l’abbiamo soffertamente riconosciuta. Non basta la constatazione dell’interdipendenza, perché questa è un fatto che si è andato imponendo: noi vogliamo dare un’anima a questo e l’anima dell’interdipendenza è la fraternità. La fraternità è una scelta etica: tutti responsabili di tutti.

Tutti ci siamo resi conto di come salute di tutti dipende dalla salute di ciascuno.

Si è parlato tanto della solidarietà che in questa prova si è manifestata. Non per nulla le due parole di assomigliano: la solidità delle nostre ripartenze si alimenterà dalla solidarietà delle nostre menti, dei nostri cuori, dei nostri gesti.

Non sarà una marcia trionfale. E senza sconti o incertezze il nostro cammino esige realmente e sinceramente la convinta “condivisione” di tutti.

Una “condivisione” in cui non hanno posto secondi fini, egoistiche furberie, disprezzo di quei convincimenti che sono stati il nerbo della risposta determinata alla virulenza del morbo.

Dal profondo delle radici o se volete delle sorgenti della nostra storia e della nostra cultura  del lavoro possiamo attingere le motivazioni e i criteri morali che diventano garanzia non solo di un progredire nel segno della giustizia, ma anche di un reale consolidamento sociale ed economico.

Concludo con una bellissima citazione, che mi ha conquistato, di Vaclav Havel che è stato presidente della Cecoslovacchia liberata. La conoscevo da tempo, ma mi sembra che in questi giorni possa risuonare in modo particolare:

La speranza non è ottimismo. La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato. Che abbia successo o meno. O abbiamo la speranza in noi, o non labbiamo; è una dimensione dellanima, e non dipende da una particolare osservazione del mondo o da una stima della situazione. La speranza non è una predizione, ma un orientamento dello spirito e del cuore; trascende il mondo che viene immediatamente sperimentato, ed è ancorata da qualche parte al di là dei suoi orizzonti”.

 Questa “qualche parte al di là dei nostri orizzonti” è quel Dio che noi vogliamo invocare oggi in modo speciale per tutte le lavoratrici e i lavoratori.