15-08-2015
Cari fratelli e sorelle,
all’inizio di questa Eucaristia, a nome della comunità, ho elevato a Dio questa preghiera: “Dio onnipotente ed eterno, che hai innalzato alla gloria del cielo in corpo e anima l’immacolata vergine Maria, madre di Cristo, tuo Figlio, fa’ che viviamo in questo mondo costantemente rivolti ai beni eterni per condividerne la sua stessa gloria”.
La prima riflessione è proprio attorno a questi “beni eterni”. Mi sono interrogato su che cosa significhi un’espressione di questo genere. Parlare di beni eterni che cosa vuol dire? Quali sono? Sono capaci di esercitare su di noi una forza di attrazione che diventa significativa per la nostra esistenza?
Certamente beni eterni possono essere quei valori che ci è sembrato – almeno fino ad oggi – che potessero essere universali, valori nei quali tutte le persone umane di ogni tempo, di ogni luogo e di ogni cultura potevano riconoscersi. Uso l’imperfetto perché stiamo attraversando un momento così delicato che dubitiamo anche di questo. Quello che per tanti di noi, certamente per quelli della mia generazione, poteva sembrare qualcosa di certo, ora non lo è più. Questa incertezza ci sta sotto gli occhi, per cui ci risulta faticoso a volte ritrovarci insieme e convenire su alcuni valori umani indiscutibili che possano veramente abbracciare tutto dell’uomo e tutti gli uomini.
D’altra parte mi permetto di ridire a me stesso e di ricondividere con voi questa convinzione: quelle famose leggi “non scritte” che i grandi padri della nostra civiltà in maniera intensamente efficace hanno rappresentato. Queste leggi non scritte sono più forti delle leggi scritte e addirittura ne rappresentano la sorgente inesauribile. Recentemente mi sono recato in Grecia con il pellegrinaggio diocesano e ho respirato l’aria di questa civiltà antica che ha segnato la “nostra”, non solo in Italia ma la nostra in Europa.
Care sorelle e cari fratelli, mi sembra che questo sguardo che siamo chiamati a rivolgere ai beni eterni sia uno sguardo verso questi valori che ancora vogliamo riaffermare come decisivi per noi e per il nostro comportamento, ma anche per la costruzione di un mondo realmente umano.
Il primo di questi valori – non dimentichiamolo – è quello della dignità di ogni persona, qualsiasi sia la sua condizione, qualsiasi sia la sua estrazione, qualsiasi sia la sua cultura.
Tra questi valori eterni, mi sembra che ce ne sia uno che per i cristiani brilla in una maniera chiarissima ed è quel bene veramente eterno che è l’amore, l’amore di Dio e l’amore del prossimo, inseparabili. Vivere l’esistenza con lo sguardo volto ai beni eterni significa interpretarla alla luce di questo comandamento incancellabile dalla coscienza cristiana, che è il comandamento dell’amore. Un comandamento di una fecondità inesauribile, proprio perché continuamente declinato su Dio e sul prossimo, quasi a ricordarci che non possiamo amare Dio se non amiamo il prossimo e non possiamo veramente amare il prossimo in tutta la sua interezza se non amiamo Dio.
Infine un terzo aspetto di questi beni eterni è rappresentato dalla salvezza eterna. Care sorelle e cari fratelli, noi un po’ più anziani e i giovani nonostante risorse migliori delle nostre viviamo un senso di precarietà. Ci sembra che tutto sia provvisorio, compresi i traguardi che ci sembrava di aver raggiunto, le sicurezze che ci sembravano consolidate, quelle di natura ideale e quelle di natura pratica, compresa la sicurezza economica, la sicurezza sociale, la sicurezza lavorativa. Tutto in questo momento ci sembra fluido, tutto ci sembra provvisorio. Anche il momento della soddisfazione, della gioia più intensa è segnato dall’ombra della precarietà: non sarà sempre così e comunque tutto sarà destinato a concludersi.
Ebbene la coscienza del credente si alimenta di questa certezza, appunto un bene eterno: l’opera di Cristo è “radicale”, nel senso che riscatta la mia umanità e insieme tutte le umanità, l’intera umanità, addirittura l’intero universo da un destino oscuro di morte.
Leggevo in questi giorni come l’affascinante capacità dell’uomo di esplorare l’universo ci dice che tra cento milioni di anni, alcuni di noi forse ci saranno ancora!!!, comunque la luce andrà via perché l’universo di spegnerà. Non serve pensare a questo. Basta pensare alla nostra vita e alla vita dei nostri cari. Bene eterno è questa salvezza radicale, questo riscatto radicale dall’oscurità, dall’oscurità del male, dall’oscurità della morte che Cristo è venuto a inaugurare. Questa è la nostra fede.
Io credo che un cristiano credente sia chiamato a interpretare la sua vita, a illuminare i suoi giudizi, a determinare le sue scelte, ad attuare i suoi comportamenti alla luce di tutto questo.
Nel passato alcuni hanno criticato fortemente la fede cristiana, come “alienante”. Cioè il pensare ai beni eterni, il pensare all’al di là diventava secondo alcuni un modo per distogliere la responsabilità nei confronti dell’al di qua. La religione come droga per dimenticare le fatiche del tempo presente e disporsi all’attesa di una giustizia finale. Non è proprio così, anzi debbo dire che in questi decenni i cristiani nel mondo hanno dato proprio testimonianza di come la loro fede nei beni eterni sia stata capace di spronarli e di impegnarli in una serietà dei confronti del bene del mondo, vissuta sotto il segno dei nostri peccati, ma certamente anche attuata con una determinazione che non deve inorgoglirci ma stimolarci piuttosto ad una testimonianza sempre più grande.
L’assunzione di Maria ci ricorda proprio questo: è stata assunta “in anima e corpo”. Al di là delle difficoltà che una affermazione del genere può portare alla nostra ragione – in una riflessione nella quale in questo momento non intendo soffermarmi -, desidero ricordare che questo mistero della vita di Maria ci ricorda che la vita del cristiano è una vita in cui anima e corpo vanno considerati sempre insieme. Mai un corpo senza anima, quasi fosse un oggetto, una cosa, uno strumento. Mai un’anima senza corpo, quasi che il corpo fosse soltanto un peso da sopportare o qualcosa del tutto estraneo della vita interiore spirituale di ogni creatura umana.
Questo vuol dire che anche l’impegno del cristiano nei confronti del prossimo non potrà prescindere da questa unità: curare l’anima, curare il corpo. Quante volte abbiamo visto proprio sotto la forma delle opere di misericordia corporali e spirituali esprimersi nella storia cristiana questa attenzione che tiene insieme anima e corpo.
L’assunzione di Maria in anima e corpo ci ricorda che non possiamo mai evocare Dio senza richiamare alla nostra coscienza il prossimo.
Cari fratelli, come faremo a dirci cristiani nel momento in cui abbiamo il coraggio di voltare le spalle al nostro prossimo? Non possiamo. Non possiamo ma non per le condizioni esterne, non possiamo non per le emergenze che ti toccano, non possiamo per la nostra coscienza di cristiani.
Ricordando le parole che Papa Francesco ci ha scritto nella recente lettera enciclica sul creato, sulla cura – lui dice – della casa comune, “per i cristiani è tanto importante la storia degli uomini come la casa come la casa che loro abitano”. Tenere uniti anima e corpo significa anche tenere unita la cura della creazione con la cura della costruzione di una comunità veramente umana.
Che la grande sconvolgente visione del Magnificat che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo si traduca, come per Maria che visita Elisabetta, nei gesti più quotidiani, nella vicinanza che offriamo gli uni agli altri soprattutto nel momento del bisogno.
(trascrizione da registrazione)