25-01-2014
La conversione di Paolo: un assimilazione a Cristo
La vita, l’amore, la morte delle suore come assimilazione a Cristo: dare la vita per gli altri, fino a condividere la loro morte
In queste Suore, come anche nelle altre che hanno condiviso l’esperienza della missione in Zaire, emerge anzitutto l’entusiasmo e la passione di poter vivere la loro consacrazione come missionarie. È come se in queste Suore la forza propulsiva della loro consacrazione religiosa dovesse necessariamente sfociare in una donazione missionaria, cioè al di là di ogni limite di spazio, di cultura, di lingua, di razza, lasciandosi guidare solo dalla ricerca dei più poveri, anche a sacrificio di lasciare le proprie famiglie, la sicurezza del proprio ambiente sociale e religioso. L’esperienza missionaria non era certamente nuova nella Chiesa, anche se era stata assunta soprattutto da uomini; per le donne ci voleva senz’altro più coraggio e soprattutto più fede. In ciò va raccolta la forte testimonianza di una vita cristiana, di una Chiesa, che non può non essere connotata da un afflato missionario, ossia da un’apertura continua oltre le proprie circoscrizioni: è la conversione che Papa Francesco chiede oggi a tutte le comunità cristiane.
Le sei Suore hanno operato all’interno di strutture mediche (ospedali, ambulatori, lebbrosari, maternità, orfanatrofi, sanatori, …), mettendo a frutto le proprie acquisizioni infermieristiche. Ma, a detta di tante persone che sono state curate da loro e che hanno operato con loro (medici o infermieri laici), esse hanno impresso nella loro azione una carica umana che andava al di là di un semplice lavoro. Era come se queste Suore andassero alla ricerca dei malati, dei denutriti, degli abbandonati, dei “non raggiunti” da nessuno per essere anzitutto vicine e far sentire il loro affetto. Spesso le Suore erano chiamate con il dolce titolo di “mamma” o di “nonna” (nkoko), proprio perché la gente curata si sentiva anzitutto amata. Alcune Suore avevano raggiunto una competenza professionale molto alta, tanto che i medici in certe situazioni chiedevano consiglio a loro su come operare. Ma la competenza più alta che ha lasciato il segno nei vari luoghi dove sono state le Suore, e che è ricordata anche oggi, è la capacità di trasformare questi luoghi di dolore in luoghi di accorato sostegno e quindi di speranza: esse avevano a cuore i loro poveri, come e forse di più della loro vita. Questo è il “contagio” vero che queste Suore hanno diffuso, certo più forte di quello della malattia. Si tratta della conversione da un’azione colonialistica o nazionalistica ad un’azione di autentica umanità, di ricerca del vero bene delle persone, soprattutto delle più povere (come a volte le Suore hanno rivendicato presso le stesse autorità civili e statali, senza paura).
Quando si chiede oggi a chi ha conosciuto le sei Suore da dove esse attingessero questa forza di carità vero i poveri, la risposta che ne viene è unanime: dalla fede in Dio, dall’amore a Gesù! Alcune persone laiche, che in un modo o nell’altro hanno condiviso un pezzo di strada della loro vita con le Suore, testimoniano come esse fossero profondamente animate e sospinte dall’amore di colui che esse chiamavano e consideravano come il loro “Sposo”: Gesù. Considerata la vita che queste Suore hanno condotto (dura e cruda), non si tratta certo di fantasie o sdolcinerie di poco conto, ma di sentimenti e convinzioni profondi, il cui prezzo è stata alla fine la donazione totale della vita. Attestazione di ciò è stata, per esempio, la capacità delle Suore di unire lavoro e preghiera, professione e contemplazione. È quasi impressionante (e forse per tanti di noi anche umiliante) sentire come queste Suore, rientrate a sera nelle loro case religiose, dopo un’intensa e faticosa giornata di lavoro nelle varie opere sanitarie o assistenziali, passassero diverse ore in preghiera nella loro cappellina, davanti a Gesù Eucarestia, tanto da dovere essere invitate a volte ad andare a risposarsi un po’. Il desiderio che alcune di queste Suore hanno coltivato nel cuore di intraprendere una consacrazione contemplativa e forse anche la vicinanza e la conoscenza in terra di missione di religiosi trappisti hanno tenuta viva questa profonda intuizione spirituale, propria dei Santi: quella cioè che nella carità verso i poveri si esprime l’intimità con lo Sposo amato sopra ogni cosa e dentro ogni cosa. Di fronte alla testimonianza di queste Suore non si tratta dunque semplicemente di lasciarsi animare dal desiderio di fare del bene agli atri, ma anzitutto di convertire il nostro cuore, lasciandolo purificare dall’amore di Dio.
Ciò che colpisce di fronte alla malattia e alla morte di queste sei Suore è anche la pronta preoccupazione di stringersi attorno a chi delle Suore via via si ammalava. Se la carità verso i poveri è stata per loro la regola di vita, quanto più hanno sentito di realizzare questo di fronte alle “consorelle” bisognose. La consacrazione a Dio in un Istituto religioso è stata vissuta da loro come profonda esperienza di fraternità, condivisa anzitutto nell’attività missionaria e nella vita comune, ma espressa soprattutto nell’accorrere al capezzale delle consorelle contagiate dal male. Al di là della questione se avessero potuto usare più precauzioni (che senz’altro avevano presente essendo infermiere), ciò che risalta è questa ansia di essere vicine le une le altre anche in quei momenti più duri. Praticamente tutte le sei Suore si sono offerte, a volte anche con insistenza, per assistere le consorelle malate; non l’hanno fatto per dovere o per obbedienza, né tanto meno per ostentazione, ma perché lo sentivano profondamente dentro di sé, come un atto appunto di fraternità cristiana e religiosa, come una reazione di famiglia. Purtroppo, una volta scoperto il virus Ebola, alcune di queste Suore hanno dovuto passare gli ultimi giorni della loro vita in isolamento, sperimentando così anche il dolore dell’assenza materiale delle consorelle, ma nonostante ciò sentendosi ancora vicine, anche solo con un saluto da lontano ma soprattutto nella preghiera. È bello allora che oggi noi le ricordiamo tutte e sei insieme, come un’unica testimonianza di amore fra sorelle, anche se formalmente abbiamo dovute istruire sei distinte cause di beatificazione. Quanto le nostre comunità parrocchiali ed anche le nostre comunità religiose hanno bisogno oggi di una conversione alla fraternità?!
Le cause di beatificazione/canonizzazione avviate non sono per il “martirio”, ma per il riconoscimento dell’eroicità delle virtù di queste Suore. La loro morte, infatti, non è avvenuta in un contesto di uccisione in odio alla fede cristiana, come richiesto nelle cause di martirio. Tuttavia, noi tutti avvertiamo di essere di fronte a sei sorelle martiri della carità: motivo di dono della vita le une per le altre, così come hanno fatto per tante altre persone nel corso della loro esistenza e della loro missione. Esse sono state unite, si dice, da uno stesso destino, loro e non altre che pure avrebbero potuto essere contagiate. Non si tratta, però, di un semplice e triste destino: ciò che esternamente le ha unite, magari anche inconsapevolmente, è stata sì un’epidemia, un virus letale, ma ciò che le ha unite più in profondità è stata la risposta ad una comune chiamata divina a “servire Cristo nei più poveri, senza alcun interesse e con la massima dedizione”, ad “amare i poveri in Cristo Gesù, servirli come Gesù”, “anche in tempo di malattie e di peste”, come aveva indicato il fondatore, il Beato Palazzolo, e come dunque è proprio del carisma delle Suore delle Poverelle. Pur nel dolore che parenti, amici, consorelle hanno avuto per la perdita di queste sei Suore, tuttavia oggi noi le ricordiamo non come morte, ma come vive: vive per intercedere dal Signore le grazie di cui abbiamo bisogno e che già vengono attestate da più parti; vive per insegnarci come affrontare i momenti di prova della nostra esistenza; vive per prospettarci degli orizzonti più ampi dei rigagnoli di piacere che le cose terrene ci possono dare. È questa forse la conversione più profonda che esse ci possono aiutare a compiere: vincere nell’amore la paura della morte!