Ci sono momenti nella storia che risuonano come veri propri appelli e quello che stiamo vivendo noi anche in riferimento alla pandemia che ha sconvolto il mondo in questi mesi e con la quale siamo ancora in lotta credo abbia svegliato molti animi.
E questo ce lo diciamo pensando a tanti uomini e donne di buona volontà che un po’ ovunque si sono lasciati interpellare e non si sono sottratti all’appuntamento.
Gli eventi diventano parole e spazi per riflettere per relativizzare ciò che nello scorrere ordinario delle giornate davamo per scontato. Nulla in realtà lo è. Soprattutto la vita e ci accorgiamo, non essere scontata neppure la possibilità della vita sul nostro pianeta.
Ce ne accorgiamo di giorno in giorno e sempre di più proprio a partire da quello che è successo e succede.
Sentiamo il desiderio e il bisogno di risposte e la necesità di cercare risposte nuove a domande vecchie, con la certezza che il futuro dovrà necessariamente essere sempre di più nel segno dell’inclusività, della fraternità, della giustizia dell’uguaglianza della libertà e non solo tra di noi uomini ma tra noi uomini e il nostro pianeta, la nostra casa comune.
Sono state poste alcune domande molto grosse essenziali importanti credo che la risposta a queste domande non vada cercata dentro a delle soluzioni tecniche cascate dall’alto o ad un migliore funzionamento di quelli che sono i nostri sistemi produttivi industriali e a tutti quei movimenti di attenzione Green che stanno venendo avanti, ma abbiano da tenere assieme alle competenze tecniche delle dimensioni profondissime di senso che interpellano anzitutto la coscienza di ciascuno che mossa dentro alla fraternità in passaggi comuni di pensiero e azione, vada a riconnettere “quello che posso fare io” con i grandi movimenti dell’economia del mercato e di quella storia che sembra molto spesso essere così alta e sfuggevole alle nostre possibilità da diventare irraggiungibile.
Non esistono risposte semplici a problemi complessi tanto più a drammi umani e di popoli spesso legati a doppio filo con sfruttamento, inquinamento e violenza nei confronti della nostra terra, che vanno chiaramente e palesemente a creare disuguaglianze sociali, falle della sanità pubblica, solitudini di interi popoli, violenze, rabbia sociale, disagio giovanile, difficoltà del sistema scolastico, abbandono a se stessi dei profughi e di quanti tentano di raggiungere un mondo migliore.
Abbiamo bisogno di cercare insieme nuovi criteri nuovi orizzonti, di ricominciare a credere e ad osare nella consapevolezza che o ci sarà un futuro per tutti o non ci sarà un futuro per nessuno ricordando le parole di Papa Francesco “è profondamente stolto illudersi di rimanere sani in un mondo malato.”
Parlare di transizione ecologica, come accennato poco fa, non è certamente trovare un sistema per mantenere gli attuali ritmi e stili di vita e di consumo, inquinando di meno e rispettando di più il pianeta, (spesso vorremmo inquinare e consumere di meno ma non cambiando assolutamente nulla rispetto a come viviamo ora), parlare di transizione ecologica è riconoscere che “per cambiare, bisogna essere disposti a cambiare”, è capire che tutti questi aspetti esigono profondi cambiamenti che partano dalla coscienza e arrivino alle proprie famiglie, all’educazione dei figli, a quanto gli diamo o non gli diamo, a come gli insegnamo a vivere, per poi arrivare alle nostre piccole comunità di appartenenza, gruppi, associazioni, parrocchie, che devono mettere nelle proprie agende e incontri pastorali, come si fa ad essere più sobri, a riqualificare energeticamente la parrocchia, a cosa si sceglie di consumere e comprare.
Da qui capire il grande impatto politico che possiamo avere, e che tutti questi discorsi devono avere e prendere una forma politica dentro la quale anche noi ci rendiamo protagonisti di quelle rinascite che hanno bisogno di trovare carne dentro la concretezza della nostra storia.
E qui mi permettete di introdurre un’altra dimensione che ancora alle orecchie di qualcuno suona male.
Per parlare di transizione ecologica mi pare che anzitutto dobbiamo avere il coraggio di ricominciare proprio dalla fraternità, da quella vita che proviamo a percorrere insieme intesa come verità dell’esistenza, come spazio di significato, come percorso di cambiamento.
La Fraternità come percorso di cambiamento e transizione ecologica.
Come ci ricorda Papa Francesco nella fratelli tutti al numero otto “nessuno può affrontare la vita in modo isolato c’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti.
Come è importante sognare insieme.
Da soli si rischia di avere dei miraggi per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme sogniamo come un’autentica unica umanità, come viandanti fatti della stessa umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti i fratelli.”
Insisto molto ribadendo che parlare di transizione ecologica è introdurre questi tipi di sguardi, di visioni e di tensioni e non solo dirsi che c’è la raccolta differenziata o rendere le fabbriche più green.
La giornata per la cura del creato con il messaggio proposta dai Vescovi ci chiede proprio questo.
E perché ci sia un profondo cambiamento, questo deve coinvolgere non qualche aspetto del vivere ma tutti gli aspetti del vivere, quello personale e familiare, quello associativo ed ecclesiale, quello lavorativo e culturale.
Azione ecologica, cambiamento, non è sinonimo di adattamento.
Non si tratta di limitarci ad addomesticare delle situazioni, ma ci chiede di mettere mano alla struttura del nostro vivere sociale ed in questo anche al nostro vivere ecclesiale interrogandoci se le strutture che abbiamo costruito sia livello sociale che a livello ecclesiale lo manifestano ancora oppure lo nascondono, l’ostacolano, o addirittura lo tradiscono.
E’ necessario che dentro alle nostre convinzioni di senso, che spesso restano solo esortative, entrino a pieno titolo tutti quei passaggi operativi che in qualche modo possono aiutarci a riconnettere le filiere di ciò in cui crediamo con ciò che poi ci troviamo concretamente a fare e a vivere.
Torno da un viaggio che ho svolto nel sud Italia con un gruppo di giovani, e tra le tante cose abbiamo avuto occasione di incontrare e toccare dal vivo la realtà dei migranti schiavizzati nella coltivazione e nella raccolta della frutta e della verdura.
Come potremmo ancora giustificare politiche del lavoro riconoscono alle migliaia di sfruttati dal caporalato agricolo permessi di soggiorno a tempo limitato, concessi solamente perché durante i mesi di lockdown avevano bisogno di qualcuno che raccogliesse parlo di frutta e verdura?
Rischiamo di imbellettare con giustificazioni demagogiche il peggio del colonialismo.
Abbiamo incontrato nei siti produttivi che forniscono cibo frutta e verdura almeno per un terzo della produzione italiana, realtà fortemente compromesse dall’inquinamento dell’acqua a causa dell’estrazione di petrolio e dall’uso smodato di fertilizzanti e insetticidi.
Sono quelle depravazioni ed egoismi che in vista del guadagno di qualcuno mettono a rischio la vita e la salute di tanti, e far finta di niente o non provare a capirci di più significa dire che va bene così; che ci va bene che ciò che mangiamo ci faccia male con tutte le conseguenze del caso, purchè costi poco e ci sia sempre a disposizione il cibo che vogliamo e quando lo vogliamo.
Ci accorgiamo che queste non sono questioni da risolvere semplicemente la dove accadono più direttamente, ma che andare al supermercato e ricercare il prodotto che costa di meno senza verificare quale sia la sua storia, la sua provenienza, quale attenzione al rispetto dei diritti dentro al lavoro di chi l’ha prodotto e l’ha portato fin dentro ai nostri supermercati e sulle nostre tavole, significa dimenticare quella filiera che ti lega a ciò che noi acquistiamo con il valore del prodotto che stiamo consumando.
Ripetiamocelo spesso quanto ci ricorda il magistero; “acquistare è sempre un atto morale.”
Bisogna tornare è una transizione ecologica che ci faccia riacquisire a livello di coscienza personale il grande tema della giustizia che anzitutto è un’opera di condivisione.
Non possiamo più far finta di niente rispetto a come viviamo, a quanto abbiamo, a come consumiamo risorse, energie, prodotti della terra.
Se abbiamo tanto è perché qualcuno ha molto meno, se paghiamo poco il nostro tanto è perché qualcuno lo sta pagando al nostro posto.
La prima ingiustizia è proprio quella di possedere molto mentre tanti hanno niente.
Noi normalmente ci nascondiamo dietro il bisogno di serenità e di certezze, soprattutto se abbiamo famiglia o dipendenti a carico.
Nessuno può contestare queste verità, ma dobbiamo riconoscere che il confine tra il possedere e il possedere troppo è molto sottile.
Ce ne accorgiamo quando le cose, la roba, il denaro stesso ci schiaccia, ci toglie il sonno, ci preoccupa oltre misura.
E poiché noi possediamo troppo altri inevitabilmente sono schiacciati dal peso di non avere a sufficienza.
Giustizia allora è riconoscere che il diritto di vivere è più sacro del diritto di possedere.
Ecco parlare di transizione ecologica non deve farci dimenticare tutto questo, non deve farci dimenticare che la giustizia è solo un’opera di condivisione ma è anche e soprattutto un’opera di restituzione.
Credo che nessuno di noi possa restare completamente tranquillo sull’origine delle proprie ricchezze. E nemmeno possiamo essere certi del costo umano ambientale sociale che all’origine delle nostre comodità, dei nostri sfizi, persino dei beni di prima necessità o divenuti tali, come i carburanti o i dispositivi tecnologici.
Difficilmente le nostre scelte di consumo sono prive di effetti negativi sulla qualità di vita di altri essere umani o dell’ambiente.
Ecco, non possiamo accontentarci di fare l’elemosina o di prodigarci in qualche opera di assistenzialismo.
Bisogna che ci interroghiamo e insieme cerchiamo il correttivo di un sistema malato riconoscendole l’immoralità di fondo.
L’unica speranza oggi per i poveri, per il nostro pianeta impoverito, sono gli uomini e le donne di buona volontà che nel corso della propria vita e delle proprie sicurezze aprono casa, condividono i propri beni, mettono a disposizione delle competenze umane e professionali che hanno.
Una vita buona è un bene pubblico, è il tessuto sociale sul quale sarebbe una restituzione, la condizione di pace vera, basata sulla condivisione e sulla comprensione reciproca.
Il futuro non può essere semplicemente l’estensione del presente. Serve causare passaggi di discontinuità, di novità, attraverso piccoli e grandi gesti di disobbedienza creativa nei confronti di quei meccanismi culturali e sociali nei quali tutti siamo più o meno inconsapevoli ingranaggi.
Non siamo fatti per i piccoli amori, le piccole passioni, le piccole fissazioni, le piccole sicurezze, le piccole risposte, L’inutile agitazione.
Siamo fatti per un amore grande per un ideale grande per un mondo grande e di tutti, siamo fatti non solo per cercare risposte alle nostre grandi domande esistenziali ma per cercare e dare risposte vere alla disperazione di tanti.