Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
Questa è la visione che si apre davanti ai nostri occhi nella festa di tutti i Santi. Una moltitudine incalcolabile, un popolo di salvati, nuovo e conviviale. Visitando i cimiteri, davanti ai nostri occhi si presenta un’altra visione: una moltitudine di morti, una città di morti. Quest’ultima è la visione che si impone, la prima semplicemente si propone. Lo sguardo che di tanto in tanto si posa su questa città registra un’ineluttabilità, che cancella ogni speranza e viene riscattata solo dal nobile esercizio della memoria spesso segnata dalla precarietà e dalla inesorabilità del tempo che passa così veloce, da impedirci di sostare per ricordare. La visita al cimitero è un esercizio di memoria, che in questi giorni accomuna una moltitudine di persone. Le ombre dei morti, o meglio della loro vita, ci siano di monito; le luci, ci siano d’esempio e insegnamento. Ma la memoria che rinnoviamo e alimentiamo in questi giorni, assume un tratto che ci sospinge a questa visita e, se non è possibile, ci sospinge al ricordo: si tratta dell’affetto e dell’amore. Nella città dei morti, abita chi ci è stato intensamente caro, chi è stato ragione del nostro stesso vivere, chi ci ha amato e chi abbiamo amato: sembra così difficile dimenticare il male, saremo capaci di non dimenticare il bene, l’affetto, l’amore? Intuiamo in questi giorni, che la verità della vita sta nel bene e dunque nell’amore e nei legami che lo testimoniano. Il male può stravolgere la vita, umiliarla, violentarla: ma non è la verità della vita umana. Allora il ricordo di chi ci è stato veramente caro diventi sapiente insegnamento su ciò che è veramente vero. La visita condivisa, lo è anche la celebrazione di non pochi funerali, ci accomuna in sentimenti, che pur nella singolarità dell’esperienza di ciascuno, vorremmo fossero riconosciuti come umana piattaforma del nostro vivere insieme. Ma la ricchezza di questi valori, oltre che sentimenti, rimane esposta ad una radicale precarietà, con grande frequenza rifiutata e rimossa, come se da un verso fossimo immortali e dall’altro un semplice lampo nell’oscurità dell’universo. Nulla possiamo dire oltre il riconoscimento di questa precarietà: soltanto le religioni propongono una visione che supera il confine della morte o addirittura ne sconfigge il potere. Ma, si dice, ciò che affermano le religioni non può essere dimostrato, come se altri potessero dimostrare il contrario. I cristiani riconoscono talmente decisiva la fede in Gesù Cristo, che la sua morte e risurrezione diventa il principio di una vita nutrita di speranza, una vita nuova che la morte non può cancellare. Il ricordo, il legame degli affetti, non è per noi solo un patrimonio che il tempo erode progressivamente, ma l’impasto di un’umanità che custodisce l’intima e gioiosa certezza che in Cristo Risorto, anche i nostri cari sono viventi, di una “vita nuova” che Cristo ci comunica già ora e affida alla nostra fede. E’ molto significativo ritrovarci nella città dei morti, celebrando la festa di Tutti i Santi: stiamo dichiarando che coloro che qui sono sepolti vivono santi, cioè vivono in Dio. Anche il nome di questo luogo dice di questa fede: non più dunque città dei morti, necropoli come la chiamavano i pagani, ma cimitero: dormitorio come l’hanno chiamato i cristiani. E’ significativo che lo sguardo che si posa sulle tombe dei nostri cari, sia illuminato dalla luce del mosaico pregevole che sta davanti ai nostri occhi e che i prossimi lavori, promossi dall’Amministrazione comunale, renderanno ancor più luminoso insieme a tutta questa Chiesa. Il nostro destino non è dunque l’oscurità, ma la luce; non la solitudine, ma la compagnia, non l’omologazione, ma la varietà; non la paura, ma la gioia. Questo destino assume tratti sempre più credibili, se insieme percorreremo la via indicata dalla grande pagina delle Beatitudini: è la via di quelli che pongono la loro sicurezza non in ciò che possiedono, ma in ciò che donano; di coloro che sanno piangere per i loro peccati e per il dolore del mondo; di coloro che testimoniano la forza della verità e non la verità della forza; di coloro che cercano la giustizia, senza trasformarsi in giustizieri; dei misericordiosi che non giustificano se stessi, ma perdonano le offese e gli offensivi; di quelli che gustano la bellezza, senza consumarla; di coloro che credono e operano per la pace e non pensano solo a “starsene in pace”; dei coraggiosi che non umiliano gli altri; di quelli che nella sofferenza e nella persecuzione sono capaci di una fede mite. E’ la via della vita, che in Cristo, neppure la morte riesce a cancellare. E’ la via della santità: una moltitudine come l’immagine che ci ha ispirato.