26-08-2014
Sorelle e fratelli, consacrati giovani e anziani, diaconi, sacerdoti e vescovi, distinte autorità, giovani boliviani, ivoriani e cubani che hanno condiviso il cammino da Assisi a Roma con più di 500 giovani bergamaschi culminato nella professione di fede sulla tomba dell’apostolo Pietro, nella venerazione di San Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II e nel coinvolgente incontro con Papa Francesco.
Vorrei iniziare con un ricordo per le ragazze rapite in Siria Vanessa Marzullo di Brembate e Greta Ramelli di Varese e per le loro famiglie
La festa del Santo patrono coinvolge la comunità cristiana nella venerazione dei santi, dei martiri, di coloro che ci hanno preceduti nella fede, ma insieme è la comunità intera che riconosce i suoi lineamenti storici, ideali, pur in un contesto plurale di visioni della convivenza civile.
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Care sorelle e cari fratelli,
la venerazione per Sant’Alessandro che si dispiega nei secoli, che ancora oggi ci vede così intensamente presenti, ci porta a considerare quella che appunto nella preghiera che abbiamo innalzato al Signore abbiamo definito la suprema testimonianza della fede, una testimonianza suprema che non è richiesta a tutti: il martirio è una esperienza misteriosa.
A tutti è richiesta la testimonianza, la cui forza, per molti, viene rappresentata dalla perseveranza, la perseveranza lungo i giorni che il Signore ci concede.
La testimonianza è una dimensione decisiva della comunicazione della fede – le più giovani generazioni esigono da noi una testimonianza credibile – ma nello stesso tempo la testimonianza diventa una verifica che ciascuno fa con se stesso, relativamente allo spessore delle sue convinzioni in particolare della sua fede.
Questa verifica è una verifica certamente anche di natura morale, evoca appunto una coerenza, ma è una verifica anche in ordine alla chiarezza interiore della fede: non sarà possibile una intensa e perseverante testimonianza a fronte di un’interiore confusione, di un’interiore superficialità, di un’interiore incertezza.
Come è possibile non dico dare la suprema testimonianza, ma anche perseverare nella testimonianza quotidiana se interiormente non abbiamo una luce, una chiarezza, offuscata dalle nostre debolezze, dalle nostre contraddizioni, ma mai spenta e sempre ritrovabile?
La parola evangelica che oggi abbiamo ascoltato ci indica la via dell’amore vicendevole come strada della testimonianza. Amatevi vicendevolmente: è una strada affascinante, attraente, è una strada che gran parte dell’umanità percorre; noi amiamo chi ci ama; questo nasce, ci auguriamo quasi inevitabilmente, in una famiglia; ma questo avviene nelle più diverse convivenze umane, addirittura avviene tra coloro che noi giudichiamo in qualche modo rappresentare delle oscurità della vita umana.
Ci si tiene vicendevolmente, addirittura ci si ama, ci si aiuta vicendevolmente. La testimonianza che il Signore Gesù chiede a chi crede in Lui, è di amarsi vicendevolmente come lui ci ha amato: ecco non solo la regola, ma l’interiore esigenza, ecco la dimensione provocante e nello stesso tempo la dimensione che dà spessore alla nostra testimonianza; non è che i cristiani si vogliano bene come altri consessi umani alimentano il loro amore reciproco, ma quell’amore deve essere un segno, un segno visibile, un segno percepibile, un segno provocante, un segno affascinante dell’amore di Cristo.
Quindi non sarà mai un amore vicendevole esclusivo, divisivo, ma sarà piuttosto un segno che apre ad una speranza anche a coloro che non credono più né nell’amore umano né nell’amore divino.
Allora alla luce della testimonianza suprema di Sant’Alessandro siamo chiamati a rinnovare la testimonianza della nostra fede nell’amore misericordioso di Dio perché questo è l’amore che Gesù ci consegna, l’amore misericordioso di Dio; la misericordia di Dio è qualche cosa di continuamente evocato, non solo nella religione cristiana, ma è Gesù che narra questa misericordia con la sua vita e chiede ai suoi discepoli attraverso l’amore vicendevole di continuare a narrarla nella storia. Ma come la narreremo se noi non crediamo nella misericordia di Dio, o se ci crediamo in termini molto superficiali, facendo diventare della misericordia di Dio la giustificazione facile ad ogni nostro comportamento, anche il più inaccettabile?
Vorrei ricordare tre aspetti della misericordia di Dio narrata da Gesù e che noi siamo chiamati a incarnare nella storia. Il primo aspetto è rappresentato dal perdono. Il perdono, care sorelle e cari fratelli: diventiamo testimoni di perdono a partire da esperienze nelle quali abbiamo creduto al perdono di Dio.
Non dimentichiamo l’espressione di Papa Francesco: Dio non si stanca di perdonarci, noi ci stanchiamo di chiedergli perdono. La misericordia come perdono significa non soltanto il gesto di Dio che perdona i peccati, ma il gesto di Dio che perdona il peccatore, e quindi la nostra testimonianza di perdonare coloro che ci fanno del male. E non penso soltanto ai grandi drammi che stanno attraversando la storia dell’umanità, penso a volte alle relazioni che interessano più da vicino la nostra esistenza.
Ecco, testimoni di misericordia attraverso l’esercizio del perdono: e soprattutto nelle relazioni familiari è necessario ritrovare questo gusto, questa consapevolezza della bontà del perdono. Non anche qui come facile soluzione, ma piuttosto come forza di un amore che è più grande del male.
Vi è poi una seconda maniera attraverso la quale si esercita e si testimonia la misericordia, ed è la considerazione del misero: misericordia evoca miseria, miseria e povertà, povertà materiale. E qui non possiamo non continuare a ricordare le persone che vivono quella povertà, che è la mancanza di lavoro, la perdita del lavoro, la difficoltà a rimanere nel lavoro, la precarietà nel lavoro, la disoccupazione.
Continuiamo a ricordare, ad aver presente questo dramma della nostra convivenza civile, così marcatamente segnata da un benessere che era il frutto del nostro lavoro, e quindi abbiamo attenzione costante a coloro che in maniera più evidente sono esposti a questa povertà. E l’altra povertà che vorrei evocare è quella dell’immigrazione, e particolarmente di quella immigrazione che in questi mesi sta toccando il nostro Paese, attraverso coloro che in gran parte riteniamo siano profughi in cerca di rifugio.
E debbo dirvi che proprio con coscienza umana e cristiana non potremo alimentare una contrapposizione tra poveri. Alimentare una contrapposizione tra coloro che vivono una situazione di precarietà e altri che vivono situazioni di altre precarietà: dobbiamo insieme manifestare la misericordia, attraverso un’attenzione agli uni e agli altri. Miseria, e anche tribolazione: e certamente in questi mesi la tribolazione che appare ai nostri occhi più evidente è quella delle guerre diffuse, in parti del mondo che sono sempre più vicine a noi e che interessano in maniera sempre più forte il nostro Paese.
Ma non pensiamo soltanto alle guerre, pensiamo appunto ai popoli attraversati da questo dramma. Alcuni fra i più anziani ricordano la nostra guerra, gran parte di noi non l’ha vissuta: se qualcuno però ha avuto solo occasione di vedere la guerra o le conseguenze della guerra da vicino, oltre a uno schermo televisivo, sa che non c’è niente di paragonabile a quello che avviene in una guerra.
Tribolazioni… Certamente le guerre, ma come dimenticare guerre a volte quotidiane che avvengono all’interno delle famiglie? Altrettanto drammatiche, meno imponenti, ma non meno coinvolgenti, anzi… E vogliamo appunto evocare la necessità di una misericordia che si eserciti a partire da quelle situazioni tribolate che molte famiglie attraversano, e quella tribolazione che è la malattia. E quindi quelle risposte della scienza, dell’organizzazione che il nostro Paese si è dato e che noi vogliamo continuare a sperare possa darci per tutti, perché a fronte della malattia e di tutte le sofferenze e di tutte le tribolazioni che la malattia comporta ci siano risposte sempre ad alto livello ed adeguate.
Miseria e debolezza, debolezza e insignificanza: è emarginazione non contare nulla, è incapacità, quando ci si ritrova incapaci, inadeguati; è dipendenza. E vorrei ricordare qui l’esercizio della misericordia, della misericordia che veramente fa vivere, che restituisce vita nei confronti delle persone più anziane, che sperimentano concretamente e a volte in maniera sofferta la loro debolezza.
E infine certamente – l’abbiamo ricordato – la miseria più grande è quella del peccato, bisogna riconoscerlo: questa perdita di familiarità, di confidenza con Dio ci introduce in oscurità, smarrimenti, durezze, e alla fine in morte.
Ecco, cari fratelli e sorelle, testimoni di misericordia, di quell’amore misericordioso che è di Dio narrato nella storia di Gesù nei confronti delle miserie che ho evocato e di quelle che non ho evocato. La misericordia non è una teoria, la misericordia è sempre pratica perché ha a che fare concretamente col volto di un uomo: si può predicare misericordia, ma nel momento in cui si esercita misericordia non si ha di fronte una società senza volto, ma si ha di fronte l’uomo con il suo concreto volto, la donna con il suo concreto volto, le loro storie. Allora anche qui non contrapponiamo giustizia e misericordia: la giustizia è necessaria, ma nello stesso tempo tanto più ne comprendiamo la necessità tanto più ne comprendiamo l’insufficienza.
Dobbiamo perseguire la giustizia con un animo più grande della giustizia, un animo misericordioso aperto alla salvezza, al riscatto, alla speranza. La giustizia ci garantisce ma noi abbiamo bisogno di qualcosa di più di una garanzia, abbiamo bisogno di una speranza che abbracci tutta la nostra esistenza e vada addirittura oltre i confini della nostra esistenza.
Cari fratelli e sorelle, vorrei concludere ricordando grandi figure, testimoni di misericordia. Il 22 agosto del 1914, cento anni fa, moriva il vescovo Radini Tedeschi. Eravamo all’inizio di un secolo, eravamo all’inizio della guerra mondiale: era un vescovo che ha segnato profondamente la vita della nostra diocesi con il suo magistero, con il suo coraggio, con la sua misericordia, una misericordia capace di tradursi in esercizio di una giustizia sociale come quella che lui ha incarnato nella vicenda che tutti conosciamo dello sciopero di Ranica.
Papa Giovanni, suo segretario di allora, ha imparato molto da questa figura. Lo dichiarava lo stesso Angelo Roncalli: è stato il suo maestro, e da lui ha imparato quell’esercizio di misericordia che nell’omelia della canonizzazione Papa Francesco ricordava di lui e di Giovanni Paolo II: hanno avuto il coraggio di guardare le ferite di Gesù, questa è misericordia; di toccare le sue mani piegate e il suo costato trafitto; non hanno avuto vergogna della carne di Cristo e della carne di coloro che sono piegati come Cristo. Sono stati due uomini coraggiosi, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, pieni del coraggio dello Spirito Santo, e hanno dato testimonianza al mondo e alla chiesa della bontà di Dio e della sua misericordia.
Cari fratelli e sorelle, la suprema testimonianza di Alessandro ci spinga su queste strade, le strade della misericordia che noi vogliamo testimoniare credendo nella misericordia di Dio e diventandone segni nella storia dell’umanità.
(trascrizione da registrazione)