Cari fratelli e sorelle,
il dono dello Spirito Santo accompagna tutta l’esistenza di Gesù, ma nell’ultima parte della sua esistenza terrena Gesù si sofferma più volte su questo dono. Prima della passione, nei discorsi dell’ultima cena, Gesù promette lo Spirito. Dopo la risurrezione, fino al momento della sua ascensione, Gesù continua, insistendo con i suoi discepoli, sul dono dello Spirito Santo.
Nei discepoli che hanno condiviso la vita con lui c’è il timore e la trepidazione di non vederlo più, di perderlo, di restare distanti, ma Gesù corrisponde a questo timore con la promessa del dono dello Spirito. Una promessa che trova il suo compimento nel giorno di Pentecoste, nella città di Gerusalemme, in quel luogo che tradizionalmente chiamiamo Cenacolo: i discepoli sono riuniti e l’evento ci è consegnato dalla testimonianza degli Atti degli Apostoli che abbiamo ascoltato.
Comincia il tempo dello Spirito: è il nostro tempo.
Comincia il tempo della Chiesa, che è la Chiesa di Gesù nella misura in cui si lascia raggiungere e abitare dallo Spirito Santo.
Nel racconto dell’evento della Pentecoste appaiono diversi segni. La manifestazione dello Spirito è caratterizzata dal vento, dal fragore, dalle lingue di fuoco. Vi è poi un segno conseguente al dono dello Spirito: questi uomini, Galilei in genere, cioè di una regione specifica della terra di Gesù, cominciano a parlare – dice la pagina degli Atti – “in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”. La folla che si era riunita nell’avvertire qualcosa di eccezionale, restituisce la constatazione di questo: “li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”.
La comprensibile sorpresa è quella che ci si capisce, ci si comprende e che questa comprensione unisce.
Molto spesso questa immagine è stata messa in relazione con l’antico racconto della torre di Babele: lì ad un certo punto non ci si comprende più, ognuno parla una lingua diversa e alla fine gli uomini si dividono.
Un linguaggio quindi che unisce rispetto ad una confusione che divide.
Il sentimento e la condizione di “confusione”, nel novero di tante percezioni che si accavallano in questo nostro tempo, penso che ci stia.
È una confusione alimentata da una inevitabile “complessità”, parola a volte abusata quasi a giustificare una confusione. Bisogna però ammettere che la nostra società è molto più complessa, e a volte anche complicata, rispetto a quella dei nostri padri o nonni. La velocità del cambiamento è elevatissima e a volte genera la sensazione di non capirci più.
Semplificare allora diventa una parola d’ordine che sentiamo dire a tutti i livelli: la semplificazione della burocrazia per essere più snelli, semplificazione nelle procedure, semplificazione anche nella pastorale. Ma non è semplice semplificare.
Il primo confronto lo possiamo avere tutti a partire dalle nostre famiglie. La vita dei nostri antenati era molto essenziale. Oggi la vita delle famiglie è invece molto complicata, a cominciare dagli orari, alle esigenze e agli impegni di ciascuno e tutte diverse uno dall’altro. A volte le semplificazioni rischiano di provocare però delle mortificazioni, ingiustizie, incomprensioni.
La confusione è alimentata non solo dalla complessità, ma purtroppo anche dalla malafede. È quel modo di dire o di fare che da un verso rappresenta delle buone intenzioni insieme però ne sottende delle altre che non sono buone o per lo meno sono interessate. Ognuno di noi ha i suoi interessi ed è comprensibile: cerchiamo di non farne una muraglia o addirittura un’arma per attaccare gli altri. Il problema è quando invece gli interessi personali ed esclusivi vengono occultati da parole e gesti che sembrano dire tutt’altro.
Quando si avverte che non c’è limpidezza e non c’è sincerità, al di là di belle parole o di gesti roboanti, sorge come conseguenza della confusione pure la tentazione dell’indifferenza: è meglio tirarsi da parte, non ci si può far niente.
La confusione è alimentata anche dalla frammentazione. Una unitarietà di progetti e di ideali non appartiene più alla nostra convivenza che è piuttosto composta da mille frammenti. Lo stesso nostro tempo è vissuto così: con eventi uno giustapposto all’altro facciamo fatica a trovare unitarietà. Ognuno è un po’ un’isola. La tentazione diventa quella per cui ognuno cerca di far valere il proprio frammento, altrimenti si scompare, altrimenti si è mangiati da quelli più forti, più grandi, più potenti, più furbi. È quindi la tentazione della prevaricazione: se non mi piazzo meglio, gli altri mi supereranno e io rimango infondo.
Che Babele! Ogni tempo ha la sua Babele.
La Pentecoste invece crea comprensione.
Il dono dello Spirito porta a parlare lingue diverse ma perché ognuno possa capire l’opera di Dio, le meraviglie di Dio, la speranza che viene da Dio.
Il dono dello Spirito genera comprensione innanzitutto alimentando il gusto, la passione e il dovere della verità.
È una parola che ci fa paura. Ognuno di noi pensa di avere la sua verità in tasca pensando che sia la verità tutta intera. D’altra parte come possiamo vivere e come possiamo comprenderci veramente e quindi unirci se non siamo appassionati alla verità? Appassionati alla verità delle cose, alla verità dei fatti, alla verità interiore, alla verità della vita.
Lo Spirito – lo ha detto Gesù – è lo Spirito della verità.
Per perseguire la strada della verità è necessaria la conoscenza. Non possiamo sottrarci a conoscere. C’è la conoscenza data dalla scienza e dalla attualità, ma c’è una conoscenza ulteriore, di ciò che è decisivo della vita, della verità della vita.
Non rassegniamoci a dire “ognuno ha la sua verità”. Non troveremo mai motivi per unirci se ci rassegniamo al fatto che ognuno porta in tasca la verità pensando che sia la verità tutta intera.
Lo Spirito alimenta comprensione e non confusione, perché suscita il sentimento della fiducia. Senza fiducia non può esserci comprensione ma ci sarà inevitabilmente confusione. E noi facciamo fatica a coltivare la fiducia: abbiamo bisogno del dono dello Spirito.
La fiducia può consolidarsi se è accompagnata dalla rettitudine.
Alla rettitudine di ciascuno alimenta la fiducia della comunità, alimenta la comprensione.
Lo Spirito Santo è lo spirito che alimenta la fiducia chiedendoci di perseguire la rettitudine: la rettitudine delle intenzioni, la rettitudine dei comportamenti, la rettitudine nel linguaggio.
A fronte della confusione, lo Spirito crea comprensione perché crea unità.
Lo spirito dell’unità chiede a noi di corrispondere a questo dono attraverso la condivisione.
Condivisione è attenzione, è aiuto reciproco, è perdono offerto, è appassionarsi insieme per un bene cominciando a quello delle nostre famiglie fino ad arrivare a quello della comunità e della società tutta intera.
Dice l’Apostolo: “Se viviamo dello Spirito, camminiamo guidati dallo Spirito e raccoglieremo i frutti dello Spirito”. Ce li ha ricordati questi dono e tutti vorremmo raccoglierli: amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.
Cari fratelli e sorelle, che questa Pentecoste porti per ciascuno questi frutti.
(trascrizione da registrazione)