Care sorelle e fratelli,
cari sacerdoti,
dedichiamo qualche istante a raccogliere i messaggi che il Santo Padre ci consegna in questa giornata della pace, all’insegna del titolo che lui propone per il messaggio consegnato alla Chiesa e all’umanità: “La cultura della cura come percorso di pace”.
Dobbiamo riconoscere che in questi mesi noi abbiamo avuto un’esperienza unica, non solo per quanto riguarda la diffusione del contagio e i suoi esiti a volte molto dolorosi, ma anche per quanto riguarda a cura che ha visto insieme a mezzi e più dei mezzi e delle risorse, la competenza e il cuore di un’infinità di persone. Penso al personale sanitario, ma anche a tanti altri che con il loro servizio si sono presi cura della nostra vita.
Se certamente c’è stata un’attenzione alla cura della salute, non possiamo dimenticare quelle attenzioni, a volte non riconosciute, rivolte alle persone nella loro fragilità e nella loro vecchiaia. Così come quella cura che non pochi hanno dimostrato verso la condizione di solitudine diffusa che abbiamo sperimentato.
Possiamo ben dire, qui nella nostra terra, che questi mesi sono stati caratterizzati non solo dal dolore e dalla sofferenza, ma anche dalla cura.
Il messaggio del Papa è rivolto al mondo intero e innanzitutto prende in considerazione quel dramma ancora così diffusamente presente e devastante che è la guerra.
Cosa significa l’esperienza della cura nel tempo in cui, Papa Francesco dice, “si sta svolgendo la terza guerra mondiale a pezzi”. Scrive: “Purtroppo molte regioni e comunità hanno smesso di ricordare un tempo in cui vivevano in pace e sicurezza”. Molti bambini e giovani sono nati in Paesi in guerra e ancora in guerra. “Le cause di conflitto sono tante, ma il risultato è sempre lo stesso: distruzione e crisi umanitaria”.
Il nostro ritrovarci in questa Eucaristia all’inizio dell’anno vuole raccogliere non solo l’attenzione al tema della cura e all’esperienza della cura, ma una vera e propria esigenza di passare dall’esperienza alla cultura della cura. Questo è il passaggio impegnativo.
Può esserci di illuminazione, per quanto riguarda la nostra comunità bergamasca, l’esperienza del lavoro, perché da noi non soltanto si lavora tanto, non soltanto ci si misura a partire dal lavoro, ma si è nel tempo elaborata una cultura del lavoro. Non si lavora soltanto, ma si lavora in un certo modo. Non siamo apprezzati soltanto perché lavoriamo tanto, ma perché lavoriamo bene. Ho scelto questo esempio perché tutti quanti possiamo riconoscere che dalle nostre parti è proprio così.
Allora, come c’è una cultura del lavoro a partire dall’esperienza del lavoro, è necessario che dall’esperienza della cura cresca una cultura della cura.
Quella cultura che la comunità cristiana nei secoli ha espresso in tante opere della carità, ma anche quella cultura della cura che ha costruito le nostre città e la nostra società.
Una cultura della cura che oggi richiede un’attenzione alla sostenibilità integrale, cioè certamente ambientale, ma anche sociale. La cultura della cura è proprio l’insieme di tutte quelle dimensioni che permettono a una società di crescere non soltanto in parte e non soltanto per qualcuno.
La cultura della cura parte dal bisogno ma non si ferma al bisogno.
La cultura della cura ha come destinatario la persona nel suo insieme e non soltanto il suo bisogno per cui una volta corrisposto a questo non c’è necessità di altro. Noi abbiamo bisogno di altro, invece, e non soltanto di una corrispondenza a una necessità.
La cura evoca l’accuratezza, la competenza, ma anche l’aver a cuore ciò che si sta facendo per l’altro e il fare con il cuore per l’altro. Non basta efficienza e competenza, occorre anche fare bene il bene.
Evocare il bene significa evocare una forza interiore, la forza dell’amore. Occorre cuore per alimentare la cultura della cura.
D’altra parte, cultura della cura significa anche esercizio della responsabilità. Ciò che stiamo facendo per corrispondere alle misure di contenimento è un esercizio di responsabilità che corrisponde ad una cultura del bene nostro e della comunità.
Possiamo allora dire che le opere, i mezzi, le risorse, sono importanti, sono espressione di cura, ma più importante è che la cura diventi un modo di vivere e un modo di essere.
Nel giorno di Santo Stefano, Papa Francesco diceva: “I gesti d’amore cambiano la storia, anche quelli piccoli, nascosti, quotidiani. Perché Dio guida la storia attraverso il coraggio umile di chi prega, ama, perdona. Il Signore desidera che facciamo della vita un’opera straordinaria attraverso i gesti ordinari, i gesti di ogni giorno”.
Questa è la cultura della cura che quindi diventa cura delle relazioni, delle fragilità e delle solitudini.
Cari fratelli e sorelle, di fronte al grande scenario del mondo, di fronte ai drammi universali come quello della pandemia, o della guerra, o di tante altre forme di ingiustizia e di violenza, noi siamo chiamati ad alimentare la cultura della cura, a partire da quel gesto di cui ciascuno di noi è capace e che si ripete, a volte non riconosciuto, giorno dopo giorno. Questo, dice il Papa, è capace di trasformare la vita, di trasformare il mondo.
Quest’anno comincerò il mio Pellegrinaggio Pastorale visitando tutte le parrocchie della diocesi. Vorrei che questa visita che mi porterà vicino alla vita concreta delle comunità fosse all’insegna della parrocchia come comunità fraterna, ospitale e prossima.
Dice ancora il Papa: “Non cediamo alla tentazione di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli, non abituiamoci a voltare lo sguardo, ma impegniamoci ogni giorno concretamente per formare una comunità composta da fratelli e sorelle che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri”.
(trascrizione da registrazione)