Solennità dell’Immacolata – Basilica S. Maria Maggiore

08-12-2016
Care sorelle e cari fratelli,
 
abbiamo ascoltato le parole del Signore che nella maniera più pertinente ed efficace ci introducono a considerare Maria, la madre di Gesù, nella sua immacolata concezione.
 
Abbiamo udito due grandi narrazioni: quella delicatissima dell’annuncio dell’angelo a Maria e l’altra antica densa di una sapienza che fa del quadro del racconto della Genesi una narrazione potente che ci introduce all’interpretazione dell’esistenza umana in qualsiasi tempo. Una esistenza nella quale l’attesa di gioia, di pace, di armonia, è costantemente presente, ci appartiene e sembra che appartenga a tutto ciò che esiste. È il desiderio di bene. D’altra parte però c’è la constatazione di come le nostre esistenze singolari e quelle dell’umanità intera siano sottoposte continuamente al dramma dell’oscurità, del dolore e infine del male. Questo male che sembra circondarci e noi ci sentiamo esposti alla conquista del male. Quella malvagità che ci sembra ci circondi, a volte la riscontriamo proprio in noi.
 
Dalla ricchezza di questa parola vogliamo raccogliere qualche pensiero per noi e per le nostre esistenze, cominciando dalla considerazione della “condizione” che la Chiesa riconosce nella persona di Maria di Nazareth. Vi è una innocenza che caratterizza la sua esistenza. Maria è senza peccato. È qualcosa che è ancora capace di provocarci. Da un verso non possiamo non ricordare le parole di Gesù, quando agli accusatori dell’adultera dirà: “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Chi è senza peccato? Noi in questo giorno di festa per la comunità cristiana ci riuniamo per dire che tra le creature umane vi è una persona, una donna, che è senza peccato. Non vogliamo evidentemente dimenticare Gesù, anzi la fede ci fa dire che il fatto che sua madre sia senza peccato, dipende proprio dalla vicenda di Gesù: lui è il Figlio di Dio che diventato uomo condivide in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione.
 
Il peccato rimane una cosa seria. A volte lo abbiamo assimilato alle nostre debolezze, che pure sono capaci di conseguenze gravi nella nostra vita e nella vita delle persone che ci sono affidate. Qui non si tratta semplicemente di debolezze, di difetti, di limiti, qui si tratta del mistero del male, che tutti avvertiamo circondarci e che è capace ancora di spaventarci nonostante le mille giustificazioni che tentiamo di andare a rappresentare per svuotare la potenza del male.
 
A volte questa potenza del male ci è rappresentata dalla amplificazione mediatica in una maniera che alimenta veramente timori e paure diffuse. Dobbiamo proprio dire che il male è presente, è in agguato, ci circonda, ci spaventa. Il peccato è una cosa seria.
 
Il problema è che questo male noi siamo tentati di attribuirlo sempre ad altri, cominciano da Adamo che dirà “la donna che tu mi hai messo accanto, il serpente mi ha ingannato”.
 
Del male sono sempre responsabili gli altri: gli altri che stanno vicino a noi a volte nelle nostre stesse famiglie, gli altri che costituiscono la nostra città nelle sue dimensioni dal lavoro alla vita sociale, gli altri che ci impediscono di guardare al mondo con serenità perché lo vediamo connotato da guerre che sembrano avvicinarsi sempre di più, dal terrore, dalla crudeltà, dalla violenza. Gli altri!
 
La meditazione a cui ci induce questa festa è sulla radice del male che nella tradizione cristiana e biblica prende il nome di peccato.
 
Il peccato è qualche cosa che ci interpella, che ha a che fare con noi, con la nostra limitata libertà, ma comunque con la nostra decisione. Il peccato non è semplicemente uno scivolamento dovuto ad una disattenzione o ad una fragilità.
 
Non è semplicemente uno scivolare, un uscire dalla cosiddetta retta via quasi senza accorgercene. Il peccato ha a che fare con la coscienza dell’uomo, con la sua dignità, con la sua libertà, con la sua drammatica grandezza, quella grandezza che appunto a volte reclamiamo e nello stesso diminuiamo ritenendo che alla fine i condizionamenti delle nostre esistenze siano tali da toglierci ogni responsabilità. Non è così. Non per sentirci colpevoli di tutto, ma per riconoscere la grandezza di ciascuno di noi, qualsiasi sia la nostra età, la nostra cultura, la nostra sensibilità. La grandezza delle nostre scelte è il dramma di essere capaci di concepire e anche di compiere un male che negli altri riconosciamo immediatamente, fino al punto a volte di giustificarli e drammaticamente qualche altra volta di trovarci gusto.
 
Il peccato è una determinazione, una scelta. Ti sembrerebbe di non essere mai in questa prospettiva, eppure ciascuno guardi se stesso e guardi a quelle decisioni che non solo hanno come conseguenza la crescita del male, ma sono determinate da intenzioni e da volontà che non possono essere iscritte nel registro del bene, della giustizia, dell’onestà, della limpidezza, della generosità del cuore.
 
Noi contempliamo e riconosciamo una donna, Maria di Nazareth, preservata dal peccato e da quella condizione che ci espone al peccato che è originale e originaria della nostra vicenda umana.
 
Stiamo così dicendo che è qualcosa che riguarda noi, pure liberati dal dominio del peccato in una relazione con Cristo che è quella che ci connota inizialmente come cristiani. Non siamo cristiani perché siamo bravi, non siamo cristiani perché perfetti, non siamo cristiani perché cerchiamo giorno per giorno di riprendere una coerenza che ci sembra difficile, ma siamo cristiani per il dono di Dio, per la grazia di Dio.
 
Maria è preservata dal peccato non per una specie di esonero, ma per pienezza.
 
Potremmo dire che è un privilegio, nonostante noi siamo sempre restii ad accettare i privilegi degli altri. Preferisco riconoscerlo come un dono. Se il privilegio ha tanto più valore quanto più è esclusivo, il dono ha tanto più valore quanto più è inclusivo, è cioè capace di abbracciare, di raggiungere anche chi immagina di non poter essere raggiunto appunto perché non se lo merita. Il dono non ha a che fare con il merito. Il premio invece ha a che fare con il merito.
 
Qui stiamo parlando di grazia: ave Maria, piena di grazia. Non si tratta né di un premio, né di un privilegio: siamo nel mondo del dono, nel regno di Dio. La vicenda di Gesù – che ci riunisce anche oggi a celebrare la sua Eucaristia – è connotata dalla inaugurazione del regno del dono, dalla inaugurazione definitiva del regno del dono, che a che fare con questa sorgente che è Dio stesso.
 
Per questo ritorniamo alla parola del Signore, ritorniamo all’Eucaristia e cerchiamo di alimentare rapporti tra noi che siano rappresentativi di questa trasformazione, di questa risurrezione che è frutto del dono di Dio.
 
Questa è la vera rivoluzione, questo è il vero cambiamento, questo è quello che è affidato alla coscienza e alla responsabilità di ciascuno di noi, come è stato affidato a Maria, la quale ha detto “sì”. Ci è chiesto proprio questo: di dire sì. Ogni giorno.
 
Dire sì non a quelle logiche a cui tutti quanti siamo esposti: la logica del possesso, la logica della paura, la logica della difesa, la logica dell’interesse, la logica del calcolo. Ci sembrano logiche inossidabili.
 
In realtà dal sì di una donna si introduce nel mondo un modo di concepire le cose non solo a livello soggettivo, ma certamente a partire dalle dimensioni personali che sono capaci di costruire condizioni sociali nuove così si entra nella logica del dono.
 
Questa drammatica lotta che non si svolge solo fuori di noi ma anche in noi tra la purezza del bene, la dignità della vita di ciascuno di noi pur modesta e la tentazione di una malvagità che non vorremmo e pure abbiamo sperimentato, questa lotta viene decisamente vinta nel momento in cui entriamo nella logica del dono gratuito. È ciò di cui abbiamo più necessità.
 
Care sorelle e cari fratelli, abbiamo udito parole dense: “siamo predestinati”. A volte questo ci ha fatto pensare che la nostra vita sia guidata da fili invisibili e purtroppo a volte è così ma non da parte di Dio: altri tirano fili invisibili che condizionano la nostra esistenza. La predestinazione di Dio è invece qualcosa di meraviglioso: ci dice che il nostro destino, il destino dell’umanità e il mio personale, non è affidato al potere del male, non è affidato al potere del nulla, ma il mio destino è affidato al potere del dono, della grazia. Sono predestinato alla grazia, sono destinato al dono: questo è il destino dell’umanità.
 
Noi cristiani dovremmo essere testimoni presso tutti gli uomini, presso tutte le culture, nella modestia del nostro agire ma nella limpidezza di queste convinzioni, che la libertà è la connotazione fondamentale della nostra dignità umana: “hai trovato grazia presso Dio”. Siamo destinati da sempre a quel dono d’amore radicale che è capace di riscattarci dal male. È un destino che corrisponde esattamente alle nostre più profonde attese di gioia, di felicità, di armonia, di pace.
 
Viviamo nel mese dei doni, è una cosa bella, è un segno. La scommessa è trasformare questi doni in un dono, perché il dono più grande è sempre quello della nostra vita, dei nostri gesti. Quella gratuità che ispira le nostre esistenze e le nostre responsabilità anche quelle più grandi, le nostre competenze anche quelle più raffinate, è superamento del calcolo, perché la vita non si risolve nei calcoli, ma appunto in un dono.
 
Tante cose appartengono al mondo del calcolo, della previsione, dell’interesse, della necessità, ma noi siamo testimoni – nella misura in cui riconosciamo e accogliamo il dono di Dio – che ciò che ci è davvero necessario è gratuito, è soltanto dono. Così l’abbiamo sperimentato nelle nostre esistenze ogni volta che abbiamo ricevuto e accolto amore e ogni volta che l’abbiamo donato.
 
Care sorelle e cari fratelli, la nostra devozione e il nostro affetto a Maria alimenti queste interiori determinazioni che vivremo ciascuno con il proprio carattere, con la propria storia, con l’umiltà del riconoscerci ancora pellegrini, viandanti sulle vie della contraddizione umana, ma nello stesso tempo interiormente illuminati e riscattati dal dono di Dio, dalla sua grazia.
(trascrizione da registrazione)