Care sorelle e fratelli,
in questi giorni, i riti del tutto particolari e affascinanti della Settimana Santa li abbiamo celebrati sempre con quella essenzialità a cui le circostanze ci costringono nella chiesa dell’Ospedale Papa Giovanni.
Una chiesa costruita recentemente che ci è molto cara, perché non è così scontato che oggi accanto a strutture tanto necessarie come un ospedale, sia posta una chiesa. Da noi è avvenuto per scelta, per determinazione, per fede, per generosità di molti.
Abbiamo apprezzato ancor più questa costruzione in questi giorni santi, non solo per la sua bellezza, ma perché posta in un luogo in cui la sofferenza e la cura si sono manifestate in una maniera che veramente possiamo dire eccezionale.
Dicevo nelle sere precedenti, come questo ospedale sia diventato emblema di tutte le altre strutture sanitarie presenti nel nostro territorio – nei nostri paesi, nelle nostre valli, nella nostra pianura – ma anche di tutte quelle case nelle quali tanti nostri anziani sono ricoverati o ospitati nel tempo.
Molti in questi giorni sono morti e per noi è una grande pena, lo è per tutte le loro famiglie, aumentata da quel fatto che abbiamo più volte ricordato e di cui mi sono fatto interprete: l’impossibilità di avvicinarli nel momento della morte e neppure in quello della sepoltura.
Tutto questo ha accresciuto dolore a dolore e non è facile liberarsene, perché pesa e accende anche sentimenti diversi come la rassegnazione o lo sconforto e la desolazione, ma anche la rabbia.
La chiesa dell’ospedale Papa Giovanni, infine, ci ha ricordato anche come tanti malati, perché colpiti dal contagio o perché già portano le stigmate di una malattia, siano nelle nostre case e nelle nostre famiglie.
Le sofferenze si manifestano sempre in maniere diverse, ma questa che ha avuto come fulcro quel contagio che si è rivelato frequentemente mortale ci ha proprio segnato in questa Quaresima, in questa Settimana Santa e anche in questa Veglia Pasquale nella quale abbiamo re-intonato l’alleluia.
Abbiamo intonato l’alleluia attingendo profondamente alle sorgenti della nostra fede. È come se questa prova abbia prosciugato una fede superficiale, una sorgente facilmente accessibile, ma anche facilmente inaridita. Questa prova ci provoca ad andare a scavare nel profondo, per attingere alle sorgenti della salvezza.
Così, con una determinazione alla quale non vogliamo rinunciare, noi siamo qui per attingere alle sorgenti della salvezza che troviamo nella profondità della nostra esistenza, nell’oscurità del dolore, nel cuore del cuore.
Abbiamo ancora una volta acceso una luce. La Veglia Pasquale si apre proprio con una piccola luce che accende il cero pasquale simbolo di Cristo Risorto. Come avete visto stasera e come avviene sempre nella Veglia Pasquale, quella luce è una piccola luce.
Quest’anno, però, per la sobrietà dei riti, ci è mancato il fuoco a cui accendere la piccola luce. Non c’è il fuoco. Non abbiamo visto il fuoco. Il fuoco è nascosto. L’amore di Dio è nascosto ai nostri occhi in questi giorni. Un altro fuoco si è manifestato e si è imposto: un fuoco che ancora sta sotto i nostri occhi. Avete presente il fuoco divorante dei grandi incendi? Nei mesi scorsi avevamo assistito al dramma addirittura di un continente che bruciava: l’Australia. Noi siamo circondati dal fuoco divorante del contagio: divora uomini, divora legami, divora certezze, divora speranze.
Se ci badate, questo fuoco invece che illuminare, oscura. Nubi nere si accompagnano a questi incendi. Il cielo stesso è oscurato da questo fuoco. È la situazione anche dei sentimenti che abitano il nostro cuore: da un verso di desolazione, come se il fuoco avesse bruciato tutto; altre volte di rabbia, i ri-sentimenti appunto.
Care sorelle e fratelli, ci sembra che il fuoco dell’amore di Dio si sia spento, oppure se è acceso sia nascosto, come questa notte. Dove è il fuoco?
Il fuoco dell’amore di Dio lo riconosciamo proprio da questa piccola luce.
Molti di voi ricorderanno i segni affascinanti di questa Veglia: tra questi, dal fuoco acceso all’esterno delle nostre chiese, si attinge per accendere il cero pasquale e dal cero di accendono tante altre luci.
Ho immaginato che quel fuoco fosse alimentato dal legno della croce. Il fuoco dell’amore di Dio è alimentato dalla croce di Cristo e la croce di Cristo diventa la rappresentazione più intensa e inarrivabile del fuoco dell’amore di Dio. E da questo fuoco noi attingiamo una piccola luce. La luce della risurrezione è una piccola luce. È una luce che dovrebbe cancellare ogni velleità, ambizione, orgoglioso trionfo. La risurrezione non è un trionfo, o se lo è, non è come lo concepiamo noi. Noi perseguiamo trionfi, non solo traguardi. Sotto ogni profilo. Quasi come se la nostra vita, il nostro modo di organizzarci, le nostre attività, quelle più belle e anche quelle meno riconosciute e riconoscibili, fossero tutte all’insegna non solo dell’obiettivo o del risultato da raggiungere, e nemmeno del trofeo da conquistare, ma proprio del trionfo da celebrare.
Oggi non è il tempo del trionfo. Anche quando i numeri del contagio, dei malati, dei morti diminuiranno, noi siamo consapevoli che non ci attende una marcia trionfale.
Questa piccola fiamma ci dice la verità della risurrezione. Noi parliamo di ripresa, di rialzarci, di ricominciare. La risurrezione invece è un dono e la forza della risurrezione è quella del Signore crocifisso, che proprio nella sua croce manifesta tutto l’amore e accende la fiamma della speranza.
Provate a pensare alla storia del vostro amore: vale per anziani, adulti, giovani, adolescenti, bambini, uomini e donne. È sempre la storia di una piccola fiamma. Certe volte assume l’intensità di un fuoco, altre volte la forma di una brace, ma la verità dell’amore è quella di una piccola fiamma che è affidata a noi.
Se stasera non possiamo accendere a questo cero pasquale i lumi nella nostra chiesa, allora penso che li potete accendere nella vostra casa. Domani, se vi è possibile, sulla vostra tavola non manchi un lume: è il segno della risurrezione di Cristo.
La fiamma della risurrezione è la fiamma di una vita nuova, che è vita di comunione e di relazione. Quanto abbiamo sperimentato, dentro le nostre distanze, il desiderio e insieme l’esperienza di una vicinanza reale. Questa è risurrezione.
La fiamma della risurrezione è la fiamma della fede, che è una fiducia che è più forte delle sue smentite, perché si alimenta alla fedeltà di Dio e alla nostra disponibilità ad essere fedeli a coloro che ci sono affidati.
La luce di questa fiamma è veramente la luce dell’amore, cioè di una vita che si fa dono.
Abbiamo assistito a tantissime testimonianze sotto questo profilo: non potremo spegnerle: la fiamma del dono è la fiamma del Cristo Risorto.
Care sorelle e fratelli, in questa notte così particolare in cui cantiamo l’alleluia ma sappiamo che continueremo a camminare su strade impervie, noi vogliamo aprire gli occhi e il cuore alla sorpresa di un Dio che non si è sottratto al nostro cammino doloroso ma vi ha acceso una luce, la luce di Cristo Risorto. È a lui che noi attingiamo la nostra speranza indistruttibile.