S. Natale – Messa del giorno

Cattedrale
25-12-2020

Care sorelle e fratelli,
dobbiamo ammettere che viviamo un tempo in cui tutti desideriamo essere ascoltati. Non solo in questi giorni o in questi mesi, segnati dal silenzio e da tante parole che sono rimaste in noi. Ma anche gli anni che stiamo vivendo sono contrassegnati da questo bisogno, da questa attesa: tutti ci attendiamo di essere ascoltati veramente, ascoltati anche nelle parole che non riusciamo a dire.

Forse anche voi avete raccolto questo sentimento: “ti sono riconoscente perché mi hai ascoltato, perché mi sono sentito ascoltato”.

Tante solitudini oggi hanno bisogno di essere ascoltate. Le distanze che stiamo sperimentando in modo particolare in questi mesi alimentano il desiderio di essere ascoltati. Ma ci sono anche tanti sentimenti, la maggior parte dei quali contrassegnati dalla sofferenza, che sono rimasti dentro silenziosi e attendono di essere ascoltati.

È proprio nell’ascolto che la parola si trasforma in carne, come il mistero di Dio che stiamo celebrando.

Mentre consegnamo le nostre parole, noi in realtà stiamo consegnando ricordi, stiamo consegnando sentimenti, stiamo consegnando la nostra stessa vita. Non stiamo semplicemente pronunciando parole: mentre parliamo diciamo di noi e della nostra esistenza, così in qualche modo prendono carne.

Noi stiamo celebrando questo mistero: la parola di Dio è diventata carne. È diventata carne nel momento in cui è stata ascoltata. E diventa ancora oggi carne nel momento in cui è ascoltata.

È diventata carne nella storia storia del popolo di Israele, quando ha prestato ascolto e ha scritto una storia con Dio.

È diventata carne in maniera unica e meravigliosa nel momento in cui Maria, la donna di Nazareth, l’ha ascoltata e vi ha risposto con il suo “sì, eccomi”.

La parola di Dio attraversa il tempo e si presenta come un annuncio di profezia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza!”.

La parola di Dio è affidata agli angeli, come abbiamo udito stanotte. Una parola che è affidata ai profeti che annuncia buone notizie di salvezza. Abbiamo bisogno oggi, nel segno della pandemia, ma in ogni momento della nostra vita di una parola buona.

La parola di Dio è la parola che la sapienza degli illuminati e degli apostoli ha raccolto, come abbiamo udito nella Lettera agli Ebrei proprio nella sua introduzione: “Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio”.

La parola di Dio nel momento in cui viene radicalmente ascoltata diventa carne.

Questa è la grandezza di Maria e insieme la grazia incommensurabile di Dio: la parola si è fatta carne. L’abbiamo sentito annunciare nel canto: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” e venne ad abitare i nostri giorni.

Quello che vi ho ricordato non è una specie di crescendo musicale verso il momento culminante che è appunto il momento dell’apparizione della grazia misericordiosa di Dio nella persona di Gesù.

Il Natale è qualcosa di sommesso e quindi è piuttosto, non un crescendo, ma una concentrazione. I nostri occhi che in questi giorni mi auguro si lasciano ancora attirare dalla scena del Natale, spesso rappresentata dal presepe, si concentrano su quel bambino che è nato per noi, il cui nome è Gesù e che viene riconosciuto nella fede come l’atteso, come il Cristo Salvatore, il Figlio di Dio fatto uomo.

“Dio – abbiamo ascoltato nel Vangelo – nessuno lo ha mai visto: il figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, lui ce lo ha rivelato”.

Care sorelle e fratelli, molte persone sono state segnate in modo particolare, in questi mesi, dalla sofferenza e a volte proprio dal dolore, dalla trepidazione, dalla preoccupazione, dall’incertezza, dal senso di smarrimento e dalla solitudine. Abbiamo bisogno di ascolto. A questo bisogno non corrispondono belle parole di consolazione: “su! facciamoci coraggio! andrà tutto bene!”. A questo bisogno c’è una sola parola che può rispondere ed è la consegna di una vita: Dio non ci dice parole, ma la sua parola è la sua vita, è la sua carne, è la sua umanità, è Gesù.

Ed è Gesù che si consegna a me, a ciascuno, all’umanità. Questa è la parola fatta carne che noi attendiamo come corrispondenza al nostro bisogno di ascolto che desideriamo tanto ci venga offerto.

Con semplicità vogliamo raccogliere l’immensa grazia del Natale facendo un poco anche noi così. Siamo limitati, ma la nostra limitatezza la possiamo consegnare, la possiamo donare all’attesa di chi ci sta vicino, all’attesa di chi vediamo con lo sguardo smarrito, all’attesa di chi rimane in silenzio. La nostra parola siamo noi, è il nostro farci vicino in tempo di distanziamento: non vogliamo sorpassare le misure che ci vengono consegnate perché il contagio non si diffonda, ma vogliamo trovare i modi possibili perché anche e ancor più in questo tempo si manifesti questa prossimità: la prossimità di Dio attraverso la nostra modesta prossimità.

Abbiamo visto la grande gioia delle persone ospiti nelle case di riposo, nelle Residenze Socio Assistenziali, di poter vedere attraverso i mezzi della comunicazione in un primo momento i propri cari, ma ancor più la gioia adesso, pur con forme particolari di attenzione, di poterli incontrare di persona o addirittura abbracciare. Non ci è concesso in tante altre occasioni, ma il cuore, il sentimento, la verità del gesto della nostra donazione e del dono di noi stessi noi la possiamo comunque offrire nei modi che troveremo, a partire dalla riconoscenza e della consapevolezza del dono della prossimità di Dio. È questa meraviglia che ci fa inevitabilmente, nonostante tutti i limiti, prossimi agli altri, a coloro che vivono vicino a noi, a coloro che il Signore ci affida.

Questa prossimità trova in un atteggiamento che il Papa che ci consegna per la Giornata Mondiale della Pace – che riprenderemo – un suo tratto particolare: viviamo limiti nella prossimità, a volte anche proprio nell’esprimere il gesto dell’aiuto. Bellissimi in questi mesi sono stati i gesti di volontariato che hanno trovato vie per raggiungere tutti e in modo particolare i bisognosi. Il tratto però che mostra e rivela la verità di questa prossimità è la cura. Curare, far bene quello che possiamo fare, dice della prossimità di Dio che fa bene le sue cose, che addirittura le ha fatte così bene che nessun uomo sarà trascurato da lui che è nato proprio come ultimo perché anche gli ultimi fossero raggiunti e raccolti dall’espressione del suo amore.

La cura è la prossimità come risposta a questo bisogno di ascolto che ciascuno porta nel cuore. Non abbiamo bisogno di tante parole, ma abbiamo bisogno di parole che prendano lo spessore della carne, lo spessore della nostra vita: sono le persone.

Nel tempo in cui tutta la comunità bergamasca ha vissuto l’intensità del dolore, abbiamo avvertito anche una grande intensità di amore. Diminuendo l’intensità del dolore, non diminuisca l’intensità dell’amore.

Care sorelle e fratelli, noi siamo qui in questa Cattedrale e rappresentiamo tutte le nostre comunità che in questa mattina stanno celebrando nelle diverse parrocchie. Raccogliamo ancora una volta il dono della prossimità di Dio, di una parola che ancora una volta diventa vita e siamone testimoni presso i fratelli e le sorelle che il Signore ci affida.

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VESPRI

Care sorelle e fratelli, siamo consapevoli che una delle tentazioni a cui ci troviamo esposti è quella dell’abitudine. È in agguato soprattutto per noi che con frequenza ogni giorno preghiamo, ascoltiamo la parola del Signore, viviamo l’Eucaristia. Siamo altrettanto consapevoli che per molti battezzati il pericolo è esattamente il contrario, cioè quello di perdere ogni consuetudine con il Signore, ogni confidenza con lui.

L’Apostolo Giovanni ci ha appena detto che ci annuncia e ci testimonia ciò che lui ha visto, ha ascoltato, ha toccato. La sua esistenza si è intrecciata con quella di Gesù che lo ha chiamato ad essere apostolo.

Anche noi per alimentare la fede e per essere testimoni abbiamo bisogno di vedere, di ascoltare, di toccare il corpo di Cristo. Questo corpo di Cristo è la Chiesa e quindi ci occorre una consuetudine con la vita della Chiesa, con la vita della comunità.

Occorre una consuetudine con l’ascolto della sua parola che risuona per noi come per i primi discepoli. Occorre quella confidenza che ci fa incontrare il Signore nei suoi segni. E finalmente occorre quello stile di vita che ci porta a entrare in relazione fraterna con coloro che vivono il battesimo e formano la comunità.

Da un verso non scivoliamo nell’abitudine, dall’altro anche noi possiamo dire di aver visto, toccato, ascoltato, incontrato il Signore proprio vivendo l’esperienza della Chiesa. È quello che vorremmo testimoniare anche a chi non lo fa: non per costringerlo, ma per rappresentare un segno, una possibilità, un invito, quello di un Dio che prende carne che alla luce del Natale riproponiamo a noi stessi.

(trascrizione da registrazione)