Care sorelle e fratelli,
ci ritroviamo in preghiera. Noi non vogliamo rinunciare alla preghiera, perseveriamo nella preghiera. Lo facciamo in modo speciale in questo giorno di luce, una luce che squarcia le tenebre, la luce dell’incarnazione di Gesù nel grembo di Maria, la luce dell’annunciazione dell’Angelo che dice a Maria: “Non temere!”.
Mi ha commosso il racconto dei direttori degli Ospedali che mi parlavano dei bambini che nascono in questi giorni, segno di una vita minuscola, delicata, che però ha la forza di squarciare quell’ombra di morte che sembra così pesantemente coprirci.
Noi festeggiamo l’Annunciazione a Maria: è l’annuncio da cui prende il via la grande storia di Gesù, è l’annuncio che colloca nel cuore del mondo – particolarmente dove l’oscurità sembra imporsi – una speranza che è quella che i cristiani da allora coltivano, testimoniano e vorrebbero consegnare a tutta l’umanità.
Viviamo questa preghiera in comunione con il Papa che oggi ha invitato tutti i cristiani e in qualche modo tutti gli uomini a unirsi in una preghiera universale. Se c’è la pandemia del morbo, c’è l’universalità della preghiera.
A questa preghiera universale uniamo la nostra nel Santo Rosario, uniamo la nostra nella quale portiamo ancora senza stancarci le intenzioni di queste settimane: preghiamo per i malati e per coloro che li curano, preghiamo per coloro che hanno responsabilità di governo e per coloro che collaborano a tutti i livelli nei servizi essenziali per la nostra vita, preghiamo per le famiglie, preghiamo per gli anziani e per i bambini. Con il Santo Rosario vogliamo proprio abbracciare tutti.
Preghiamo in questo Santuario della Madonna dei Campi di Stezzano, dove mi faccio pellegrino per ciascuno di voi. Il Santuario non solo è antico, ma la devozione a Maria in questo luogo è ampia, è riconosciuta, è praticata da una moltitudine di gente che supera i confini della nostra provincia e della nostra diocesi.
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Care sorelle e fratelli,
la preghiera del Santo Rosario è conosciuta da molti, ma forse non da tutti. Vorrei invitare innanzitutto coloro che hanno la mia età, poco più o poco meno, a ricordare come da bambini abbiamo imparato questa preghiera: l’abbiamo imparata essenzialmente nelle nostre famiglie e poi nelle nostre parrocchie; l’abbiamo imparata nei modi e nel luoghi più diversi; l’abbiamo imparata visitando i santuari o compiendo dei pellegrinaggi.
Poi, come succede nella vita, alcune cose si dimenticano o addirittura si rifiutano. Anche io, devo confessarvi, diventato adolescente e giovane, pur in seminario, con il mio padre spirituale manifestavo le mie perplessità su questa preghiera del Rosario che ci fa ripetere continuamente le stesse parole.
Poi, per gli anni che passano o per le prove che affliggono, viene il momento in cui questa preghiera ritorna dal cuore. Ritorna. Come il Rosario, così le litanie hanno un loro ritmo, che sembra proprio il passo del pellegrino.
L’Ave Maria che si ripete è come una specie di eco, da una prima Ave Maria si legano le altre, annunciando i misteri – così li chiamiamo – cioè gli eventi fondamentali della vita di Gesù. Nel Rosario noi sbricioliamo il Vangelo, quasi volessimo guardare alla vita di Gesù con gli occhi con cui l’ha guardato la persona a lui più vicino, sua madre Maria.
Il Rosario è preghiera. Siamo in questo Santuario, comunemente chiamato “Madonna dei campi”, ma è intitolato proprio alla “Madonna della preghiera”.
In questi giorni la preghiera sale corale, ma nello stesso tempo la preghiera è una provocazione, la preghiera è uno scandalo, perché in momenti come questi, tanto è intensa tanto si espone al silenzio di Dio.
Noi vogliamo continuare a pregare, noi perseveriamo nella preghiera, ma tu, Signore, dicci una parola! Ascolta le nostre preghiere!
Lo scandalo della preghiera è rappresentato dal fatto che a molti sembra del tutto inutile. Ricordo i miei ragazzi dell’Oratorio: giovani veramente generosi, disposti a farsi guidare, ma più di una volta mi confessavano “io ho pregato, ma mi sembrava di parlare con il muro, io dicevo parole ma non ne ho udita alcuna”.
Care sorelle e fratelli, il Signore ci parla e noi lo possiamo ascoltare in modo specialissimo nel Vangelo. In questi giorni insisto: prendete in mano il Vangelo! Troverete la parola proprio per voi! C’è una parola per ciascuno di noi.
Ma c’è anche un silenzio di Dio che ha a che fare con i nostri silenzi. In questi giorni ci scambiamo parole, io stesso mi permetto in più occasioni di rivolgervi parole, ma queste parole devono essere immerse nel silenzio. È il silenzio che ci sta circondando, è il silenzio del cuore, è il silenzio del dolore, è il silenzio dello sgomento, è il silenzio della morte.
Questo silenzio, nostro e di Dio, ci accumuna. E ci rivela un aspetto assolutamente decisivo della preghiera: la preghiera è fatta di parole ma non consiste nelle parole.
Diceva un maestro di preghiera: “Meglio un cuore senza parole che parole senza cuore”.
La preghiera poi a volte ci sembra inutile perché vorremmo fare. Non perdiamo tempo a pregare!, dice qualcuno. Bisogna agire! In questo momento sto pensando a tutti coloro che con la loro azione, la loro generosità, la loro competenza stanno lavorando per i malati, per coloro che soffrono, per i fragili, per gli abbandonati e stanno lavorando anche per noi.
Qualcuno forse ricorderà un dramma di un autore che un tempo andava molto di moda, ma oggi lo si vede rappresentato meno, Bertolt Brecht: portava il titolo di “Madre coraggio”. Ad un certo punto un grande esercito sta per assediare, assalire, occupare una città. In una piccola casa che sta sul monte, fuori dalla mura, una famiglia si rende conto dell’imminenza di questo attacco e vorrebbe aiutare gli abitanti della città a porsi in salvo, allora tutti si riuniscono in preghiera. Invece una bambina, sorda e muta, sale sul tetto della casa dove sta una campana, e comincia a suonare con tutte le forze per avvertire la città del pericolo, così la città si sveglia e si salva. È stato più utile il suono di quella campana o la preghiera di quella famiglia?
Quante volte ci sembra che il fare, conti più del pregare. Eppure la preghiera supera le nostre opere.
In questi giorni ho raccolto la bellissima testimonianza di un infermiere. Lui ha apprezzato il fatto che io e altri Vescovi abbiamo proposto a medici e personale infermieristico e ospedaliero, nel momento in cui avvertono che una persona lo desidera, magari avvicinandosi alla morte, di offrire una preghiera e di dare una benedizione, con segno della croce sulla fronte o tracciato come fa il sacerdote. Mi ha raccontato che accompagna non pochi nel momento della morte e per lui è una grande consolazione compiere questo gesto: una consolazione che viene dal malato che in qualche momento ha visto sorridere per questo dono ed è una consolazione sua che a se stesso dice: “Ho fatto tutto quello che ho potuto, adesso lo affido a qualcuno più grande di me!”.
Care sorelle e fratelli, pregare significa che noi continuiamo a confidare in Dio, non ci stanchiamo di confidare in lui. Pregare significa anche che noi ci consegniamo a Dio, come quell’infermiere consegnava quella persona che stava superando il confine della morte. Nella preghiera consegniamo noi stessi e tutti coloro che ci sono cari, ma anche tutti coloro che nessuno ricorda.
Mentre pregavo e riflettevo su quello che volevo condividere con voi, mi è tornata in mente una lettura che mi accompagna da tanti anni, ancor prima che diventassi prete. Mi permetto di concludere condividendola con voi.
Edmond Michelet racconta nel suo libro “La via della libertà” il seguente episodio, avvenuto nelle prime settimane dopo il suo arresto come partigiano francese nella Seconda Guerra Mondiale.
Nel campo di smistamento in cui essi fecero tappa per qualche tempo nel viaggio verso Dachau, erano stati trasferiti anche due giovani ginnasiali giudei. Uno di essi si professava con orgoglio “libero pensatore”. Alcuni giorni più tardi, i due piccoli giudei in una esercitazione furono maltrattati dalle sentinelle in modo tale che alla fine furono ritenuti morti e riportati al campo. L’atmosfera nella stanza per la notte era triste. I prigionieri cercavano di rasserenarsi recitando uno dopo l’altro una poesia a memoria. Noi eravamo già semi addormentati quando udimmo nella notte fonda una voce che usciva dall’oscurità: “Ho anche io una poesia da recitare!”. Ogni desiderio di dormire ci passò di colpo. Eravamo senza parole. Si era alzata nella notte la voce del nostro piccolo giudeo, libero pensatore, da tutti noi ritenuto già morto. Egli ne disse il titolo: “La vergine Maria nell’ora di mezzogiorno” di Paul Claudel. E iniziò lentamente, accentuando ogni singolo verso:
È mezzogiorno. Vedo la chiesa aperta. Mi trascino dentro.
Io non vengo a pregare, Madre di Gesù Cristo.
Io non ho nulla da offrirti e niente da implorare.
Io vengo soltanto, Madre, per guardarti. Per vederti.
Soltanto per piangere di gioia, perché sono il tuo bambino
e tu sei qui con me.
Michelet prosegue: “Non si deve essere presuntuosi. Io non posso dire se un giorno andrò in cielo, ma ho il presentimento che se mi viene accordata questa grandissima grazia troverò là sicuramente, con i suoi occhi azzurri, il mio piccolo giudeo libero pensatore del campo di Neue Bremm, il quale è spirato con le parole di Paul Claudel sulle labbra.
Care sorelle e care fratelli, nel buio più profondo salga la nostra preghiera. È un’autentica luce come quella che ha illuminato quella notte in cui un piccolo uomo ha pregato con le parole che abbiamo ascoltato.