24-01-2018
Caro Padre Gheorghe Velescu della Comunità Ortodossa Romena,
Caro Pastore Winfrid Pfannkuche della Comunità Cristiana Evangelica di Bergamo,
Cari don Patrizio e don Valentino,
care sorelle e fratelli, ben ritrovati a questa preghiera che condividiamo insieme pregando con intensità e speranza il Signore per l’unità di tutti i cristiani.
Lo facciamo nel segno di questa Parola che ci è stata consegnata e che le nostre sorelle e i nostri fratelli dei Caraibi hanno ritenuto di offrire a tutte le comunità cristiane del mondo, in occasione di questa settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Questa Parola del Signore è contrassegnata da una vicenda intensamente umana come è quella della liberazione. È comprensibile – come ci è stato ricordato – che questi popoli abbiano voluto far motivo di questa preghiera una storia di liberazione.
La dimensione e l’esperienza della liberazione evoca innanzitutto la condizione di schiavitù. Una condizione impressionante anche perché ancora così presente nel mondo contemporaneo. Noi viviamo alcune condizioni che ci fanno dimenticare ciò che stanno vivendo altre donne e uomini in parti del mondo che poi non sono così lontane da noi, tanto più oggi con la possibilità di spostamento di cui possiamo godere.
Liberazione evoca schiavitù ma evoca anche sfruttamento, che può essere una forma di schiavitù più sottile. A volte è facile pensare e denunciare quelle forme di schiavitù cui sono sottoposte persone, spesso donne, oggetto della tratta di essere umani. Certamente però dovremmo avere occhi molto più attenti rispetto a forme di sfruttamento che a volte sono molto sottili, forme dentro le quali a volte ci si trova a interpretare – da parte delle stesse persone – il ruolo della vittima e quello dello sfruttatore.
Liberazione rispetto a ogni forma di discriminazione.
Liberazione rispetto a ogni forma di indottrinamento.
Liberazione rispetto a ogni forma di dipendenza e sappiamo quanto ne esistono.
Liberazione rispetto a ogni forma di limitazione, di controllo, di pregiudizio.
La Parola del Signore ci introduce a questa esperienza: la liberazione è un cammino in direzione della libertà. Il cammino della liberazione ha come meta la libertà. Una meta mai raggiunta. A volte questo cammino è in direzione di libertà fondamentali o comunque può essere un cammino per una maggiore libertà per chi le ha già raggiunte e forse si illude di poterle conservare senza impegno.
Liberazione ha a che fare con processi di emancipazione, di autodeterminazione, di riconoscimento.
Quando parliamo di liberazione pensiamo a quella che investe ciascuno di noi nella sua singolare esistenza. Ognuno di noi è nella possibilità di sperimentare per quanto riguarda se stesso dei cammini di liberazione.
La liberazione, se ha una valenza certamente personale, ne ha una anche sociale e le due dimensioni si intrecciano.
Liberazione evoca dimensioni drammatiche della vita. I processi di liberazione molto spesso sono segnati dalla sofferenza, anche molto severa, o dalla violenza. È stato ricordato Martin Luter King: il cammino di liberazione gli è costato la vita.
Ci sono anche processi di liberazione meno drammatici, sotto il segno di miglioramento delle condizioni di libertà.
Mi sto soffermando su questo perché le grandi pagine che abbiamo ascoltato della mano potente di Dio hanno a che fare con dimensioni di liberazione che ci circondano e che ho solo ricordato per titoli.
Tutti i processi di liberazione hanno come meta la libertà, dicevo. La libertà riconosciuta come valore essenziale della condizione umana. Quindi la libertà come un bene.
Ritengo che da cristiani siamo chiamati a questa testimonianza: il valore supremo della libertà, il bene della libertà. Molto spesso noi cristiani siamo stati considerati se non nemici della libertà, almeno sospettosi nei confronti della libertà a cui aspira ogni essere umano.
I processi di liberazione evocano anche le condizioni necessarie perché si possa perseguire questa meta. Certamente fra queste vi è la forza e la resistenza morale. Cioè quella forza e quella resistenza che attingono a condizioni e a convinzioni che non possono essere misurati sulla loro efficacia o efficienza, ma per il valore che rappresentano in se stessi.
I processi di liberazione potranno approdare ad una libertà autentica nella misura in cui sono sostenuti da una forza essenzialmente morale, da una resistenza di carattere morale.
Altre condizioni pur necessarie ma non accompagnate da questa fondamentale rischiano di non approdare alla libertà e se vi approdano trovano una libertà deformata, limitata, interessata, condizionata.
I processi di liberazione hanno sempre a che fare con la dignità di ogni persona umana e quindi con le condizioni sociali che la garantiscono.
Le migrazioni del nostro tempo mi sembrano possano essere ascritte a questo movimento di liberazione.
Dobbiamo dire che in occidente, in Europa, nel nostro Paese, in questi decenni abbiamo perseguito, sostenuto e ci siamo concentrati su processi di liberazione soprattutto e quasi esclusivamente di natura individuale, sottovalutando sempre di più – e mi permetto di dire: drammaticamente sempre di più – i processi sociali e comunitari.
Il tema della liberazione è tutt’altro che superato o appartenente ad altri Paesi o ad altre condizioni umane.
Vi è un’immagine che rappresenta il momento iniziale dell’esperienza di liberazione: è il grido. “Ho udito il grido del mio popolo”. Il grido è la sofferenza che ci blocca. C’è una sopportazione, una rassegnazione, c’è quasi una inconsapevolezza di un destino implacabile al quale non ci si può sottrarre che segna la condizione della schiavitù e della dipendenza. Ad un certo punto, forse per l’accumularsi o per il risvegliarsi di una percezione che rende inaccettabile la condizione, la prima espressione e l’inizio della presa di coscienza è qualcosa che non ha le sembianze della razionalità, ma è il grido.
Noi siamo sordi al grido. Il Signore invece dice: “Ho udito il grido del mio popolo”.
Il grido è l’inizio, la presa di coscienza a cui poi subentra la lotta, il cammino di liberazione e poi il cammino della libertà. Non sono identici. Il cammino di liberazione è verso la libertà, ma nel momento in cui è raggiunta la libertà il cammino continua.
Il Dio in cui crediamo è la sorgente inesauribile dei processi di liberazione, questo ci viene annunciato, di questo da cristiani insieme ai nostri fratelli ebrei diventiamo annunciatori.
Riconosciamo che “potente è la tua mano, Signore”. Questa potenza è per la liberazione dell’uomo e degli uomini.
Usciva il popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto con la mano destra alzata. Bella questa immagine. Camminavano insieme con la mano destra alzata: un gesto di alto valore simbolico perché allo schiavo quando non era il momento di lavorare si legava la mano destra dietro alla schiena. Se la puoi alzare, non sei più schiavo. Quella mano più che dichiarare una condizione indica una speranza.
Nel momento in cui diventa una ambizione e diventa orgogliosa, rivela tutta la sua insufficienza. Potente è la tua mano, Signore. La tua. La tua ci libera, la nostra anela alla libertà. Come quella donna la cui mano andava a cercare Gesù, anche solo per toccare il suo mantello.
La mano di Dio è la sua parola liberante, perché non è solo sapienza ma è anche potenza di Dio. Potente è la tua mano, Signore; potente è la tua parola.
È liberante nel momento in cui io entro in questa parola, accolgo radicalmente questa parola. Questa parola rivela la sua potenza liberante in Gesù Cristo. Non per nulla noi annunciamo il brano dell’Esodo nella notte di Pasqua ad annunciare che la parola liberante di Dio è Gesù Crocifisso e risorto.
Tutte queste mani si raccolgono nella mano crocifissa di Cristo. Quella è la mano potente di Dio, che mostrerà a Tommaso dubbioso dopo la risurrezione: “tocca la mia mano”.
Noi viviamo una rivelazione nel segno della Pasqua, che non è semplicemente un passaggio dalla morte “alla” vita, ma è una dinamica molto più sorprendente: dalla morte “la” vita. Il dono radicale è la sorgente della vita e della libertà.
Il popolo incredulo diventa credente quando sa riconoscere la mano di Dio nella propria esistenza.
Il cammino ecumenico non può che essere un percorso per diventare più credenti e in questo senso sperimentare la liberazione. Il dialogo ecumenico deve essere al servizio del discernimento della presenza della mano di Dio nella storia delle nostre comunità, anche in mezzo alle difficoltà e all’esperienza dei nostri limiti. Il cammino ecumenico deve essere un richiamo continuo al fondamento della nostra fede che non è un credere in se stessi, nelle proprie doti e nelle proprie realizzazioni, ma fare memoria di quella salvezza che ci è stata data, di quella grazia che ci precede da sempre.
Cristo crocifisso e risorto è l’unificatore.
Se il cammino di liberazione è un cammino verso la libertà, non potrà esserci una libertà che veramente corrisponda alla vocazione umana che non sia solidale.
Se ho evocato il grido, non posso non concludere evocando il canto, anche se il Pastore Winfrid lo ha fatto in maniera affascinante. Il cammino di liberazione è dal grido al canto. Il canto è un grido che si modula, che pian piano assume i connotati della bellezza. A volte è una bellezza sfuggente perché è il canto della fatica, a volte è di una bellezza splendente perché è il canto della speranza e qualche volta anche della vittoria.
Il canto è la dilatazione della parola. Diceva il Pastore Winfrid: Gesù è il canto di Dio, perché è la parola che si dilata. Noi non riusciamo a contenere tutto ciò che vorremmo dire e che ci viene detto semplicemente nella parola detta. Abbiamo bisogno di cantarla. Il canto è qualcosa che ispira: dilata la parola ma allo stesso tempo la contiene. È una meraviglia.
Permettetemi di concludere ricordando le parole conosciutissime di Sant’Agostino quando parla del canto dei redenti: “O felice quell’alleluia cantarla, alleluia di sicurezza e di pace. Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico, ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Canta e cammina”.
(trascrizione da registrazione)