16-04-2017
Care sorelle e cari fratelli,
permettete di iniziare queste riflessioni con il ricordo di una narrazione che ho ascoltato alcuni anni fa e che ritengo possa essere una parabola di molte situazioni umane.
Nella guerra del Libano del 1980 vi fu una devastazione che oggi vediamo riproporre particolarmente in Siria, ma non solo in questo Paese. Nel centro di Beirut vi era un monastero con una comunità di suore, abbastanza anziane. Una di queste era molto conosciuta: un’insegnante di matematica e fisica, ma soprattutto una voce particolarissima che ha interpretato gran parte del repertorio di musica antica arabo-cristiana. In tutto il mondo questo repertorio – peraltro non semplice – è stato ascoltato da milioni di persone. Proprio questa suora narra che una mattina sente nella strada delle urla strazianti, al punto tale da affacciarsi e poi di essere attirata fuori dalla porta del convento. Vi era una donna e sul suo grembo stava il capo di un giovane palestinese che era appena stato ammazzato. Quella donna urlava come urlano le donne mediorientali, ma avvicinandosi la cosa che ha colpito di più suor Mary era il volto di quella donna: completamente deformato dal dolore. Quella donna gridava e quelle urla erano soprattutto rivolte a Dio: erano una bestemmia dietro l’altra. Ad una certo punto gli occhi della donna si sono alzati verso la suora che lei non conosceva e si sono fatti supplici. Finalmente, cessate le urla, ha detto alla suora: “canta una preghiera per mio figlio”. Quella madre non sapeva che questa donna aveva un dono particolare nella voce. La suora cominciò a cantare. Suor Mary quando narra questo fatto dice: “Non so per quanto tempo ho cantato, so solo che quando il canto è terminato il volto di quella donna era completamente trasformato e con un sorriso lei mi ha detto: ora mio figlio riposa in pace”.
Ho desiderato rievocare questo episodio con voi perché noi stiamo celebrando una liturgia nella risurrezione di Gesù che è tutta connotata dal canto. Vorrei che ognuno di noi potesse andarsene portando nel cuore un canto di risurrezione e di pace.
Che cos’è un canto? Che cos’è la nostra preghiera in questo momento? È esile, delicata più di un fiore. In un momento in cui vediamo esibirsi forze impressionanti, flotte maestose, missili capaci di distruggere la terra, nel momento in cui ci sembra in agguato la violenza devastante del terrore, nel momento in cui vediamo interi popoli particolarmente del continente africano consumati dalla voracità occidentale, che cos’è un canto? che cos’è questo annuncio?
L’annuncio più sconvolgente è che Gesù di Nazareth, chiamato Cristo, è risorto dai morti. Se è vero allora la morte è sconfitta. Se ci volgiamo intorno invece sembra che la morte sia ancora vittoriosa: vittoriosa intorno a noi ma anche vittoriosa in noi. Che cos’è allora questo canto?
La risposta non è semplice, non perché sia complicata da capire, ma perché è difficile aprire il cuore a questa risposta. È la risposta che ci ha consegnato il Vangelo, è la risposta di queste donne e uomini che sono stati vicini a Gesù, come lo siamo noi, qualcuno di più, qualcuno di meno, addirittura qualcuno ha tradito, il capo lo ha rinnegato. Sono con il loro dolore, sono con la loro paura, sono di fronte a delle forze che li sovrastano.
Tra questi è impressionante vedere le donne. Sono le donne che spezzano il cerchio della paura in nome di quella pietà di cui le due donne del racconto iniziale sono pure protagoniste. Le donne, pur con trepidazione, però escono. Vanno al sepolcro dove incontreranno le guardie e comunque dove Gesù è morto.
Durante questo cammino avviene qualcosa di non molto piacevole come un terremoto: se pensiamo ai nostri connazionali devastati dai terremoti. Non c’è solo questo segno che turba. Arrivano e vedono la pietra del sepolcro rotolata e la tomba vuota. Sono dei fatti: il terremoto, la pietra che non sapevano come riuscire a spostare e il sepolcro svuotato.
Se ci pensate bene sono segni che possono essere interpretati in mille modi diversi e così è successo nella storia.
Ma vi è un angelo, un angelo che parla. Non bastano i segni, occorre una parola, occorre un canto, occorre un’ispirazione. Occorre una parola che ci tocchi il cuore. Noi vediamo quello che succede nel mondo e possiamo pensare nelle maniere più distruttive, più addolorate, più impaurite. Oggi risuona un canto, ci viene data una parola che non cambia magicamente la realtà, ma ci introduce a intravvedere una speranza che altri non riescono a vedere.
La parola dell’angelo: “Chi cercate? Non è qui! Cristo è risorto, come vi aveva detto”. Il suo amore ha vinto il peccato e la morte, è stato seminato il seme della speranza. Questo seme cresce in mezzo a piante e terreni che sembrano volerlo uccidere, ma questo seme non morirà più. È il seme del risorto, è il seme di una vita decisiva, di una vita definitiva.
I cristiani accolgono questa parola, vedono i segni come gli altri, ma – e questa è la fede – li interpretano in modo assolutamente originale, sconvolgente. Ecco il canto.
È un canto che ti ispira dentro, è una fede che ti muove. Noi oggi preghiamo, cantiamo, ma proprio per questo vogliamo essere le donne e gli uomini più attenti non solo agli sconvolgimenti che ci impauriscono, ma a tutti quei segni che possiamo coltivare come ulteriori semi di speranza che da quel Risorto sono stati distribuiti sulla faccia della terra.
Un tempo, quando suonavano le campane di Pasqua, le mamme bagnavano gli occhi dei loro bambini. Era un segno per vedere con gli occhi della risurrezione. La realtà è quella che è, ma il risorto è quel canto che non ha trasformato la tragedia di quella madre del racconto da cui siamo partiti in questa riflessione, ma l’ha fatta risorgere, le ha dato pace.
Noi vogliamo essere – anche se stonati – i cantori di questo inno della risurrezione. Cantori con la nostra vita, anche con le nostre parole.
Care sorelle e fratelli, noi condividiamo la trepidazione del mondo per le tragedie lontane e anche per quelle che ci sono vicine e a volte abitano le nostre case. Ma ci stiamo con questo canto di risurrezione nel cuore. Il nostro Dio non è rimasto prigioniero del sepolcro della morte, del male e del peccato. Il nostro Dio è fuggito verso il futuro. Facciamo così fatica, in questo nostro tempo, a immaginarci un futuro e un futuro bello. Il nostro Dio, nella persona di Gesù, ha aperto il sepolcro e la via del futuro.
Se è così, anche il nostro presente non è un presente disperato, non è un presente angosciato. È il presente di donne e uomini consapevoli, responsabili, disposti anche a un grande sacrificio, perché la risurrezione inaugurata da Cristo possa continuamente diventare risurrezione nelle nostre esistenze, nelle nostre famiglie, per le persone che sono più provate, per il nostro Paese, per il mondo intero. Ognuno come un piccolo seme di speranza abitato dal canto della risurrezione.
(trascrizione da registrazione)