27-05-2017
Care sorelle e fratelli,
carissimi diaconi ormai nell’imminenza di essere ordinati presbiteri,
vorrei riprendere insieme a voi quella domanda che è risuonata pochi istanti fa: “sei certo che ne siano degni?”.
Preparandomi a questa ordinazione mi sono fermato in modo particolare su questa domanda e debbo confessarvi che mentre riflettevo su questa domanda non pensavo soltanto ai giovani che stanno per essere ordinati presbiteri, ma anche a me stesso. Che cosa significa essere degni?
D’altra parte questa domanda non è esteriore, perché tra qualche istante, proprio nel cuore della preghiera di ordinazione voi sentirete questa invocazione a Dio: “Dona, Padre Onnipotente, a questi tuoi figli la dignità del presbiterato”. In che cosa consiste questa dignità?
Potremmo tutti dare una risposta cominciando dall’immaginare che a costituire questa dignità abbia contribuito una preparazione accurata. Ci immaginiamo tutto il percorso della loro vita fino ad oggi, con delle connotazioni particolari in famiglia, in alcuni ambienti e nel Seminario come contributi a questa preparazione accurata e quindi a questa dignità.
Potremmo anche immaginare che la parola dignità evochi una qualche caratteristica particolare, in qualche modo esclusiva, nel senso che loro hanno e altri no.
Potremmo anche immaginare che la risposta a questa domanda sulla dignità abbia a che fare con un merito speciale che loro hanno acquisito e che ora gli viene riconosciuto.
Certamente la gran parte di noi, pensando a questa dignità, immagina una connotazione morale: dignità la immaginiamo come integrità morale. Sei certo che ne siano degni?
A fronte di queste considerazioni, mi sembra particolarmente impressionante la pagina evangelica che abbiamo ascoltato in questa liturgia dell’Ascensione del Signore: “In quel tempo gli undici discepoli andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro indicato; quando lo videro si prostrarono: essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra, andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”.
È impressionante questa pagina che risuona proprio mentre stiamo riflettendo sulla dignità e su quelli che potrebbero esserne i connotati, perché di fatto noi ci troviamo di fronte al Signore Gesù che affida la sua missione universale a undici uomini confusi, incerti e dubbiosi: “Quando lo videro si prostrarono (lo farete anche voi tra poco), essi però dubitarono”.
Questi sono gli uomini di Gesù, sono quelli che lo hanno accompagnato in tutta la sua missione, sono i testimoni della sua vita, dei suoi segni, della sua predicazione, sono coloro che sono stati affascinati da lui; sono i testimoni della sua morte e risurrezione. Sono arrivati al momento culminante, il Signore li sta salutando, affida loro la sua missione e in che condizioni si trovano? Dove sta la loro dignità?
Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto, ma lo hanno amato molto e sono venuti tutti all’appuntamento sulla montagna. Questo è il segno di cui Gesù aveva bisogno, ora può tornare al Padre, sicuro di essere amato, anche se non del tutto capito, e sa che i suoi non lo dimenticheranno più.
Noi non riusciamo a comprendere fino in fondo. C’è un dono che viene affidato a uomini come gli undici apostoli, attirati su quella montagna, che hanno cioè risposto all’appello del Signore pur manifestando tutta la loro fragilità.
Gesù affida a questa fragilità il Vangelo e il mondo nuovo. È la legge del granello di senapa e del pizzico di sale. Notate bene, Gesù dice anche: “Ho ricevuto ogni potere in cielo e in terra, andate dunque”. Dunque. Vuol dire che voi ricevete lo stesso potere di Gesù, come lo hanno ricevuto gli apostoli.
Gesù allora ascende non nel cielo che splende azzurro come quello di oggi sopra di noi, ma dentro la nube della nostra fragilità, della nostra quotidianità, della nostra umanità.
Anche qui un altro paradosso: Gesù ascende e dice “io sono con voi tutti i giorni”. Non è asceso in un cielo che ce lo allontana, ma è asceso dentro quella nube che in questo momento siete proprio voi.
C’è una indegnità che merita di essere ricordata a voi, ricordata a tutti, ricordata a me: la vera indegnità consiste nell’ovvietà, nella banalità, nell’arroganza con cui stiamo davanti al Vangelo, all’Eucaristia, alla misericordia pensando di aver capito tutto, riducendo il dono a un dovuto, riducendo la grazia a un credito da incassare, riducendo l’amore ad un calcolo.
C’è una indegnità secondo la Parola di Dio, che è quella di Isaia che dice: “come mai chiami me che sono un uomo dalle labbra impure?”, che è quella di Elisabetta che dice: “chi sono io perché la madre del mio Signore venga a me?”, o di Giovanni Battista: “io non sono degno neppure di slacciarti i legacci dei calzari”, o quella del Centurione: “non sono degno che tu entri nella mia casa”, o quella del Pubblicano: “abbi pietà di me, Signore, che sono un povero peccatore”.
La vera indegnità, quella secondo il Vangelo, non è semplicemente consapevolezza della nostra miseria, fragilità, inadeguatezza, ma è piuttosto lo stupore. Lo stupore che ci introduce all’amore ogni giorno e diventa la porta della gioia. Lo stupore diventa la porta della gioia.
Una gioia sorgiva. Non avida di gratificazioni, ma capace di gratitudine. Una gioia pasquale che sa ritrovare il senso di ogni cosa, anche la più oscura come la croce. Una gioia generosa che non pretende la gioia dagli altri e degli altri, ma la suscita e la alimenta. È la gioia del Vangelo capace di aprire brecce e cuori alla chiamata di Gesù che come è risuonata in voi, chiamandovi al presbiterato, ci auguriamo risuoni ancora nel cuore di molti giovani.
Come vi siete proposti sulla vostra immagine, siate i collaboratori della nostra gioia.
(trascrizione da registrazione)