30-04-2016
Fratelli e sorelle,
le pagine della scrittura, particolarmente il Vangelo, sono sempre ricche di motivi che alimentano la fede di chi crede. Mi auguro che tocchino l’intelligenza e il cuore anche di chi cerca e di chi non crede.
Gesù dice: “Chi mi ama osserva la mia parola”. L’amore ha una capacità decisiva nelle relazioni: non è semplicemente un ornamento, è la caratteristica fondamentale di una relazione decisiva e trasformante.
Gesù dice ai suoi discepoli: “Se voi avete in mente di stabilire con me una relazione decisiva, una relazione d’amore, allora ascoltate e osservate la mia parola”. È quello che noi tentiamo di fare anche oggi nel contesto in questa azienda che ci accoglie rappresentando le infinite realtà di lavoro presenti sul nostro territorio e nel mondo intero.
Lo facciamo peraltro con un occhio che viene illuminato dalle parole altrettanto stupende del libro Apocalisse che abbiamo appena letto e che ci rappresentano la città ideale, una città che non solo è impossibile, ma è preferibile che non si realizzi nella storia, perché è un’idea di città perfetta che si è rivoltata contro gli uomini che l’hanno ideata. Noi siamo dei pellegrini, continuamente chiamati a costruire e a ricostruire le città in cui abitiamo. Non è ancora il tempo delle città definitive. Ogni volta che gli uomini hanno immaginato di realizzare “una città ideale”, quella loro realizzazione non si è mai realizzata. Proprio per questo l’apostolo Giovanni, nel libro dell’Apocalisse, ci dice che abbiamo un orizzonte: non stiamo andando verso il nulla! Questo orizzonte è rappresentato dalla quella città “perfetta” che è “la Gerusalemme nuova” dove non c’è più il tempio, perché il tempio è Dio stesso, è l’incontro con lui. E non c’è più nemmeno la luce del sole, o della luna perché è Dio stesso che illumina. Comprendiamo quindi come anche qui le relazioni fondamentali decisive diventano quelle che ci fanno abitare con serenità l’esistenza e che già ora la illuminano.
La parola che abbiamo ascoltato dagli Atti degli Apostoli, mentre risuonava, mi faceva pensare a quello che noi chiamiamo “processo di innovazione”, che vediamo nella Chiesa portato avanti con grande coraggio da papa Francesco. Quello che abbiamo ascoltato è il primo grande processo di innovazione che la Chiesa ha messo in atto che nasce da una grande discussione, la prima grande discussione all’interno della Chiesa: se bisognava essere fedeli alle tradizioni di Mosè (per cui chi sarebbe diventato cristiano, avrebbe dovuto seguire tutte quelle tradizioni, cominciando da quel segno che indica l’appartenenza al popolo d’Israele che è la circoncisione) o se chi si fosse affacciato al cristianesimo non avrebbe più dovuto passare per quella trafila. In questo passaggio il cristianesimo poteva diventare uno dei tanti gruppi eretici dell’ebraismo e invece così si è spalancato al mondo diventando una fede per tutti, non solo per un popolo. Credo che questo per noi abbia a che fare con i processi di globalizzazione reale, profondamente umana e profondamente portatrice di speranza, che sono stati scoperti in questi decenni.
Dentro questo orizzonte, che mi auguro apra il cuore alla speranza, noi celebriamo il Giubileo della Misericordia proprio qui in questo luogo di lavoro. Evocare misericordia significa evocare miseria. La parola misericordia è una parola composta da miseria e da cuore: “miseria-cordis”. “Cordis” è il cuore, il cuore che si avvicina alla miseria umana, alla miseria materiale, alla miseria culturale, alla miseria relazionale, alla miseria spirituale. Certamente qui non possiamo non ricordare e ricordarci quelle miserie che attraversano il mondo del lavoro, cominciando dalle condizioni di chi è uscito o è stato estromesso, di chi ha perso il lavoro e di chi lo vive con precarietà. Ma anche di chi vive la responsabilità con fatica, sofferenza e a volte incomprensione. Non possiamo dimenticare quelle miserie legate ai fallimenti nel mondo del lavoro a volte veramente impensabili. Non possiamo dimenticare quella miseria che ha a che fare con lo sfruttamento. Lo immaginiamo sempre in paesi diversi dai nostri, in paesi non evoluti come i nostri, invece dobbiamo riconoscere che la possibilità dello sfruttamento è reale anche nel nostro Paese, dove esistono molte persone, donne e uomini, giovani e anziani, che subiscono questa condizione.
Certamente, a fronte di queste miserie, è necessario evocare in noi il senso profondo della giustizia della misericordia. La misericordia non si sostituisce alla giustizia: la misericordia arricchisce la giustizia di quella dimensione intensamente umana, che non prelude semplicemente l’affermazione o la regolamentazione dei diritti e dei doveri, ma prevede l’incontro tra persone umane. Non sono alternative giustizia e misericordia, ma si completano reciprocamente.
Mentre celebriamo questo Giubileo della Misericordia vogliamo chiedere il perdono di Dio per tutti i peccati nel mondo del lavoro e immaginare che in questo momento, non solo noi, ma tutti coloro che sono impegnati nel lavoro possano ricevere il perdono di Dio come ricominciamento e come rinascita nel loro impegno.
In questo quadro giubilare non voglio dimenticare le vicende che segnano il nostro territorio. Succede che a volte ci fanno pensare che le persone che lavorano rappresentino soltanto una variabile fra le altre all’interno dell’organizzazione del lavoro, anzi forse la variabile più fragile. Non vogliamo dimenticare che spesso le preoccupazioni di ordine umano e sociale non sono determinate dall’autentica verità di queste preoccupazioni, ma da problemi di immagine, di ordine pubblico, di rapporti di forza.
In questo luogo così accogliente, dove avvertiamo l’importanza ma anche la bellezza dal lavoro, io vorrei consegnarvi queste tre considerazioni, queste tre prospettive.
In questi mesi, sto percorrendo ancora una volta la nostra diocesi e uno dei temi emergenti negli incontri è quello del lavoro. È da questi incontri che scaturiscono queste prospettive che desidero condividere con voi.
La prima è questa: ho avvertito – ascoltando più che parlando – un rapporto tra lavoro e valori intensamente umani e cristiani, rappresentato da un fatto di cui siete autentici protagonisti tutti voi, di cui è protagonista il volto di ciascuno di voi, la strada di ciascuno di voi, intelligenza e il cuore di ciascuno di voi, le mani di ciascuno di voi. Ciò che vorrei dirvi lo esprimo con le parole “LAVORARE BENE”.
Lavorare bene ci appartiene: è una delle connotazioni del nostro modo di concepire il lavoro, che ci ha qualificato rispetto a tanti territori addirittura che escono dal confine del nostro paese.
Lavorare bene credo che sia anche un elemento di prospettiva: se noi abbiamo la speranza che il nostro lavoro venga ancora riconosciuto e non non si spenga è perché continuiamo non solo per necessità, ma per formazione, a difendere questa qualità che trova la sua espressione nel “lavorare bene”.
Cari amici e care amiche, lavorare bene non è solo una qualità produttiva: lavorare bene ha innanzitutto a che fare con una qualità morale. Se siamo stati capaci nei secoli, ancor più negli ultimi decenni, di rappresentare questa qualità del lavoro e ci auguriamo di rappresentarla in maniera significativa anche nel futuro è perché tale qualità attinge fondamentalmente alla dimensione morale a volte respirata senza accorgercene nelle nostre famiglie e che le nostre comunità ci hanno indicato. Non è solo “fare bene”, ma è fare bene partendo da un bene interiore, da una coscienza guidata dal senso del bene.
Io credo che questa indicazione “lavorare bene”, intesa legata con la qualità e la moralità, possa rappresentare qualche cosa che unisce i valori umani e i valori cristiani con il lavoro anche nelle sue forme più sofisticate e più aggiornate. Questo significa che non soltanto è necessario continuamente creare ottimali condizioni di lavoro, ma anche riconoscere che il lavoro è capace lui stesso di promuovere la nostra umanità, che è capace di educarci ad essere persone umane. Lavorare bene significa riconoscere queste reali possibilità che a volte sembrano marginali. Non abbiamo mai occasione di parlarne di riflettere, però sono momenti che devono esserci e che a volte sono già presenti.
Lavorare bene significa non lasciare che il risultato del nostro lavoro si deformi. La deformazione del risultato del lavoro potrebbe essere rappresentata dal fatto di concentrare il risultato attorno a due poli: il prodotto e il profitto. Se ci fermiamo lì non deformiamo il risultato del lavoro, ma il risultato del lavoro è qualcosa di più grande del prodotto e del profitto. Il risultato del lavoro ha a che fare con il nostro modo di stare al mondo, con la qualità del come stare al mondo e dello stare al mondo con le nostre famiglie perché anche questo rappresenta un risultato per il nostro lavoro.
Lavorare bene significa oggi avere una forte sensibilità ai contesti in cui il nostro lavoro si dispiega e alle conseguenze sulla “casa” in cui tutti abitiamo, la casa comune, quell’ambiente al quale Papa Francesco nuovamente e con particolare voce ha richiamato l’umanità intera.
La seconda prospettiva è: “LAVORARE INSIEME”. Lavorare insieme, oltre che lavorare bene, a me sembra che sia assolutamente di rilievo. Anche questa riflessione è frutto di tanti miei incontri. Oggi si avverte la necessità di creare sempre più sinergie. L’immagine della squadra ci viene continuamente riproposta. Mi piace però immaginare il lavorare insieme come quella capacità di ricreare continuamente coesione, di rifare continuamente solidarietà, che non siano solo destinate a un maggiore efficienza o a una maggiore produttività, ma che siano destinate ad alimentare quella dignità umana che ogni condizione di lavoro deve prevedere. Non può essere alimentata nel momento in cui noi sottolineiamo o affermiamo soltanto diritti di indole individuale, allontanando l’altro, dimenticando l’altro, lasciando perdere l’altro che è più affaticato di noi.
Lavorare bene e lavorare insieme sembrano proprio degli imperativi morali, che comunque alimentano la speranza proprio nel momento in cui le condizioni diventano difficili.
Infine, mi sia concesso, nella preghiera dell’Eucarestia, come terza prospettiva, ricordare a tutti, a chi crede e anche chi non crede, LA BELLEZZA DI POTER LAVORARE DAVANTI A DIO. Tra qualche istante io pronuncerò alcune parole che ritroviamo in ogni Eucarestia e hanno a che fare in maniera fortissima con la nostra esistenza e con quel “lavorare davanti a Dio”. Mentre io alzerò il pane e il vino dinanzi a Dio ripeterò queste parole: “Benedetto sei tu, Signore Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo”. In ogni Eucarestia mentre si offrono il pane e il vino si evoca questa unità generativa tra natura, responsabilità umana e dono di Dio. Quando questa unità non solo si sviluppa sull’altare, ma si sviluppa nella nostra vita, noi abbiamo la possibilità di pensare che il nostro lavoro crei veramente vita: non solo crei produttività, ma crei condizioni umane di vita. Sia veramente un’offerta gradita a Dio.
(Trascrizione da registrazione)