02-11-2018
Care sorelle e fratelli,
La nostra preghiera si alimenta al ricordo. La parola che caratterizza questa giornata della comunità cristiana è proprio “commemorazione”. Noi facciamo memoria di tutti i defunti: di coloro che abbiamo conosciuto ma anche di chi non abbiamo conosciuto, addirittura memoria di coloro che nessuno più ricorda.
Il nostro non è soltanto una memoria, pur necessaria, come motivo che alimenta la nostra esistenza, ma diventa un ricordo riconoscente nei confronti di tutti coloro che ci hanno fatto del bene. Un bene sempre parziale, come ciascuno di noi è parziale nella vita.
La distanza che la morte crea ci permette di riconoscere meglio gli aspetti di bene che sono stati rappresentati da persone che si sono accompagnate alla nostra vita.
Al Signore, e attraverso lui a loro, vogliamo manifestare non solo il nostro riconoscimento, ma la nostra riconoscenza.
Come la vita si arricchisce attingendo alla memoria, si arricchisce ancor di più nel momento in cui riusciamo ad essere riconoscenti, cioè a dire grazie.
Questa celebrazione, che è memoria e riconoscenza, è caratterizzata anche da un atteggiamento e da una dimensione spirituale molto cristiana che è il perdono. Noi vogliamo chiedere perdono alle persone che hanno accompagnato e contribuito a disegnare la nostra vita e ci hanno offerto il dono del bene che sono stati capaci di compiere anche nei nostri confronti. Nel mistero che ci unisce a loro attraverso a Gesù, noi vogliamo far giungere loro la nostra richiesta di perdono. Vogliamo essere perdonati dai nostri cari, dai defunti che ci sono stati cari, dal mondo dei morti.
Nello stesso tempo vogliamo offrire loro il nostro perdono, perché possano riposare in pace: per il perdono di Dio – per il quale preghiamo – e anche per il nostro perdono. Nella commemorazione di tutti i defunti, mentre ci ritorna al cuore l’immagine e la storia delle persone che abbiamo conosciuto, amato e che ci hanno amato, noi vogliamo esercitare anche questa virtù, l’esercizio del perdono.
Siamo chiamati a compierlo tra noi nel corso della nostra esistenza, ma in una circostanza come questa noi vogliamo chiedere perdono alle persone che hanno fatto la nostra vita ma anche donare loro il perdono, perché loro possano riposare in pace e noi possiamo vivere in pace.
Bisogna riconoscere che di fronte alla morte e ai morti le nostre parole si rivelano sempre insufficienti. Ci siamo allora nutriti della parola di Dio, attraverso queste grandi pagine della Sapienza, dell’Apocalisse e del vangelo delle Beatitudini. Lasciare spazio alla parola di Dio significa accettare che le nostre parole sono del tutto insufficienti, non solo di fronte al dolore, al dramma a volte, della morte, ma di fronte proprio a tutte le persone che sono morte. Il silenzio è uno degli atteggiamenti che in maniera più coerente si pone dinnanzi alla morte e ai morti.
Innanzitutto perché i morti non ci possono rispondere, i morti fanno silenzio, e allora solo nel silenzio possiamo incontrarli.
Ci parlano con la loro esistenza, ci parlano con le parole che ci hanno lasciato nella loro vita e noi possiamo continuare con loro questo colloquio misterioso, ma è un colloquio che richiede anche gli spazi del silenzio, quel silenzio che inevitabilmente registriamo da parte loro e che vorremmo fosse anche corrisposto da parte nostra, per lasciare risuonare – soprattutto per noi credenti – quella parola di Dio che può diventare veramente motivo di speranza.
Il nostro Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi. Scriveva il santo Papa Paolo VI che in questi giorni ricordiamo in modo particolare dopo la sua canonizzazione: “Sarebbe stolto eludere questo sovrano pensiero: il nostro Dio è un Dio dei vivi e non dei morti. La nostra vita non finisce nel tempo. Questa vita presente ci è data in funzione di quella futura: ciò non svaluta ma valorizza al massimo il prezzo del tempo di cui dobbiamo fare uso ottimo e saggio”.
Sono parole che attraverso la meditazione sulla morte e il ricordo dei morti ci riportano al senso della vita, alla risposta che ciascuno cerca alla domanda sul senso della vita e sul senso del tempo che scandisce la vita, e sul fatto che alla luce della fede noi percepiamo il valore eterno della nostra vita e della vita di ogni essere umano.
Scriveva ancora Papa Paolo VI: “La fede ci inserisce nell’albero dell’eterna vita che è Cristo. L’essere uniti con Cristo è una necessità essenziale per noi. Se siamo innestati in lui e cristiani vivi, il nostro destino è bene assicurato e i nostri giorni possono anche consumarsi rapidamente, non importa, sappiamo di essere incamminato non verso l’oscurità e l’annullamento, ma verso l’oceano della vita: Cristo, che è il nostro premio eterno”.
Cari fratelli e sorelle, è con questi pensieri che noi ricordiamo, riportiamo al cuore, tutti i nostri cari e tutti i defunti.
Noi sappiamo di vivere un tempo e una cultura refrattari all’idea della vita eterna. Ma questa refrattarietà rischia di abbreviare la speranza. La speranza che non si proietta più oltre i confini della morte sembra diventare sempre più breve e risolversi addirittura nel giorno che passa. La testimonianza della nostra fede nella risurrezione, non solo in quella di Cristo, ma di tutti i nostri morti e di noi quando morremo, è una testimonianza che alimenta, allarga, allunga la speranza.
Nello stesso tempo, proprio per questa ragione, ci rende responsabili davanti a noi stessi, agli altri e a Dio, consapevoli che il bene non può far altro che far crescere l’umanità, mentre il male non solo la distrugge ma si rivela drammaticamente inutile.
Ciò che noi questa sera facciamo è un gesto di fede ma è anche un gesto d’amore. Nella fede noi abbracciamo chi ci è stato caro e tutti i defunti. Paolo VI scriveva: “Come deve essere bello il paradiso, dove tutti, padri, madri, figli, ci ritroveremo insieme in un eterno amore”.
(trascrizione da registrazione)