Care sorelle e fratelli,
cari sacerdoti, diaconi, seminaristi,
abbiamo ascoltato un canto meraviglioso che percorre i secoli e dice della risurrezione di Gesù e dei sentimenti che suscita in coloro che ricevono questo annuncio: “victimae paschali” è il titolo, dalle prime parole di questa sequenza.
Ad un certo punto vengono cantate queste espressioni: “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello: il Signore della vita era morto, ma ora vivo trionfa. Sì! Ne siamo certi! Cristo è davvero risorto! Tu, re vittorioso, abbi pietà di noi”.
Sono parole che riconoscono una regalità. Abbiamo imparato a riconoscere Gesù di Nazareth attraverso il suo vangelo, la fede in lui, la Chiesa nella quale siamo cresciuti. Forse la nostra conoscenza è un po’ superficiale o approssimativa. Però, anche ai più distratti, anche a coloro che si sono allontanati dall’esperienza della comunità cristiana, Gesù di Nazareth non è sconosciuto. Questo Gesù viene proclamato “re”. Era stato condannato come “re”, ma adesso noi lo proclamiamo “re”. Un re che ha vinto. L’aggettivo che si accompagna al riconoscimento della regalità di Cristo è “vittorioso”.
Molto spesso noi misuriamo la vita, gli uomini e le donne, proprio a partire dal criterio della vittoria o della sconfitta: ammiriamo alcune persone perché sono “vincenti”, di noi qualche volta diciamo con rammarico e con rassegnazione “non mi sento un vincente”, certo ci dispiacerebbe essere annoverati tra i perdenti.
In maniera ancora più decisa altre volte distinguiamo vincitori e vinti. Come disse il barbaro: “Guai ai vinti!”. E la pensiamo proprio così.
C’è un’altra categoria di persone che ci affascina: gli invincibili. Sono quelli che non si arrendono mai. Sono quelli che anche se cadono, si rialzano. E noi che non ci sentiamo vincenti e nemmeno siamo vincitori, vorremmo far parte degli invincibili. Anche rialzarsi però non è facile. A volte costa molto. Ci abbiamo provato tante volte e rischiamo di dire “basta!”. Allora diventiamo indifferenti. Ci difendiamo con una corazza. Non possiamo essere vincenti, non possiamo essere vincitori, non possiamo essere invincibili, quindi ci autodifendiamo diventando indifferenti per tutelare il nostro particolare, quello che sopravvive di noi.
Le nostre vittorie, quelle che ci danno soddisfazione e ci fanno vivere felici, ci rendiamo conto che sono sempre parziali. Quando gridiamo vittoria, subito siamo esposti alla constatazione della sua precarietà. Ciò alimenta in noi un sordo risentimento, un rancore, che può trasformarsi in rabbia. Non ci interessa la vittoria, ma piuttosto la difesa del nostro territorio. Vediamo un popolo che sta lottando per questo, ma non ci rendiamo conto di quanto noi spesso adottiamo questo criterio come un assoluto. Sembra che la vita invece che esserci amica sia un aggressore. Difendiamo il nostro territorio, difendiamo il territorio della nostra famiglia, difendiamo il territorio del nostro “io”.
Paolo dice: “la morte è stata inghiottita dalla vittoria”. A noi sembra sempre che la morte sia ciò che inghiotte e non sia mai sazia. “Dov’è, o morte, la tua vittoria?”, continua l’apostolo. E sembra facile rispondere in coro: “Dappertutto!”.
Cari fratelli e sorelle, se siamo qui è perché non stiamo dicendo “dappertutto”. Noi crediamo in una vittoria paradossale: la vittoria del crocifisso. Davanti ai nostri occhi c’è una croce d’argento. È una croce gloriosa. Ma porta un crocifisso. Insieme noi, come su un trono, abbiamo innalzato il cero acceso questa notte: è il crocifisso risorto.
È un paradosso che ci rivela che non è la potenza dei mezzi che ci salva: ne avremo sempre di più, ne avremo sempre di più potenti. Ci sono necessari. Siamo soddisfatti delle nostre conquiste, ma non ci bastano mai. Quello che ci basta davvero è un amore e un amore crocifisso: questo non solo ci basta, ma ci salva.
Noi abbiamo tanto e potremo avere sempre di più, ma non ci basterà mai. Quello che ci basta è l’amore. E la verità dell’amore è l’amore crocifisso, un amore che non si arrende al male, un amore che non restituisce il male, un amore che si fa carico del male e lo riscatta proprio con la forza dell’amore.
Care sorelle e fratelli, dobbiamo fare un’esperienza di Pasqua.
Se oggi nella vostra famiglia c’è serenità avete una scintilla di risurrezione e vi auguro che possa accendere un fuoco. Vi auguro che la vita della vostra famiglia sia serena, che il vostro lavoro sia sicuro, che abbiate una tranquillità interiore, che le difficoltà degli altri tocchino il vostro cuore e vi facciano premurosi e quindi lieti di poter aiutare chi è nel bisogno. Lasciatevi raggiungere dal perdono di Dio.
Vi auguro poi di gustare il perdono di Dio. Abbiamo bisogno di questo perdono. Chi lo riceve, riceve una grazia, perché il re vittorioso ci concede la grazia. Solo un re può concedere la grazia. Il Signore ci concede la grazia della liberazione. Uno allora continua la sua vita, a volte sarà vincente e altre perdente, a volte sarà vittorioso e altre sconfitto, a volte sarà invincibile e altre indifferente, ma la grazia diventa la sorgente della vita. Da qui nasce l’intelligenza dell’amore.
Noi di fronte ai mali del mondo non sappiamo cosa dire e anche da cristiani rimaniamo muti. Che il Signore attraverso l’esperienza della Pasqua di risurrezione ci faccia intelligenti nell’amore. L’amore ha una sua capacità di affrontare le cose e anche di risolverle. Chiediamo al Risorto la grazia dell’intelligenza dell’amore nella nostra vita, nella vita delle nostre famiglie, nella vita della società. L’intelligenza dell’amore si esprime a livelli diversi.
A volte siamo “ignoranti” nell’amore: non sappiamo cosa fare, non sappiamo come fare. Chiediamo al Signore la rivoluzione del dono. È giusto affermare i diritti, è giusto richiamare i doveri, ma noi cristiani siamo testimoni di qualcosa che supera e si chiama dono. La gioia di donare e la gioia di ricevere rende riconoscenti, rende felici. La Pasqua è una festa di gioia non solo perché ci auguriamo di essere contenti per una bella giornata. Essere riconoscenti si è nella misura in cui “riconosciamo” reciprocamente i doni.
Così diamo consistenza alla speranza. Tutti siamo trepidanti sul futuro, al punto che per i nostri figli e nipoti siamo preoccupati. E loro ci guardano preoccupati della nostra preoccupazione. Facciamo così fatica ad immaginare di mettere al mondo nuove creature. Il dono della Pasqua, l’annuncio della risurrezione, non è semplicemente una parola, ma è qualcosa che dà consistenza alla speranza e apre al futuro.
La vittoria di Cristo non è una vittoria sfacciata. Non abbiamo cancellato la croce. Il Risorto mostra le sue piaghe, ma la sua vittoria alimenta una speranza provata al voglio della morte, una speranza che possiamo gustare se la gustiamo insieme.
(trascrizione da registrazione)