Alla Messa
Care sorelle e fratelli,
il Vangelo che abbiamo appena ascoltato segna in maniera indimenticabile la nostra fede: Gesù crocifisso con presso di lui, nel momento della morte, sua madre. Stava. Tra coloro che sono rimasti vicino a Gesù fino alla fine c’è proprio sua madre. Gesù volge lo sguardo a lei. Possiamo immaginare gli occhi del crocifisso mentre consegna sua madre al discepolo e consegna il discepolo a sua madre.
Noi siamo qui a venerare e onorare la madre di Gesù, l’Addolorata, colei che stava presso la croce di Gesù. Il modo migliore è riconoscerla con tutto il cuore come nostra madre. Nell’intimo del nostro cuore siamo qui a ripetere: tu sei nostra madre.
Ognuno di noi porta nel cuore la sua mamma, ma Maria viene consegnata da Gesù come la madre di tutti, come la madre del suo popolo, la Chiesa, e attraverso questa dell’intera umanità.
Nel consegnarci Maria, Gesù non le attribuisce nessun titolo.
Pensate a quanti titolo la venerazione del cristiani ha attribuito a Maria. Gesù invece le attribuisce un titolo soltanto: quello di madre. Così come madre noi dobbiamo pensarla, cercarla e pregarla.
Maria diventa la madre di Gesù nell’annunciazione e diventa la madre di tutti nella passione. Ama ciascuno di quelli che sono diventati suoi figli per sempre, concentrando in modo particolare la sua attenzione su coloro che sono, come il figlio suo nell’ora della croce, in preda alla sofferenza. Li ama semplicemente perché sono suoi figli e particolarmente perché soffrono come Gesù.
Care sorelle e fratelli, ritorno in questo Santuario (come ricordava il Prevosto) dopo esservi stato all’inizio di un pellegrinaggio nei luoghi significativi della devozione cristiana nella nostra diocesi durante i mesi più violenti della pandemia.
Sono ritornato e anche voi siete tornati in questa festa che tradizionalmente è invitante e partecipe da parte di tutta la città. La prova non è ancora conclusa, anzi ora ci viene richiesto molto: ci viene chiesto molto nel guardare al futuro; ci viene chiesto molto nell’attraversare i giorni; ci viene chiesto molto nel rigenerare continuamente le nostre energie per affrontare situazioni che la pandemia ha creato.
Lo sappiamo: la sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze e giunge a volte a far disperare del senso del valore e della vita. Vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo senza l’aiuto della grazia divina. Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, si afferma la necessità di una presenza ricca di amore.
Cerchiamo di essere noi, gli uni per gli altri, questa presenza di amore. Mentre invochiamo quella della Madre nostra, viviamo quella vicinanza fraterna che è capace di superare ogni parola spesso inadeguata a ciò che stiamo vivendo.
Prendiamoci cura gli uni degli altri, proprio come Gesù ha indicato sulla croce a Giovanni nei confronti di Maria e a Maria nei confronti di Giovanni.
Prendiamoci cura gli uni degli altri: è la cura di ogni madre, è la cura materna. La cura materna è capace di generare e di rigenerare vita. La cura materna è capace di nutrire la vita: una madre nutri i propri figli con se stessa.
E noi abbiamo bisogno di questa cura, fatta certamente di gesti, di aiuti, di vicinanza, di parole che possono consolare, ma soprattutto abbiamo bisogno di avvertire la sincerità del dono, anche minuscolo, che ogni persona può fare di se stessa: io ci sono per te.
Insieme alla cura materna, noi possiamo offrire gli agli altri la cura del figlio: ecco tua madre, dice Gesù a Giovanni. E si manifesta nella prossimità.
Sappiamo quanto delicata sia la situazione di una persona nella sua malattia o nella sua anzianità. Lo abbiamo visto in maniera drammatica nei mesi che stiamo lasciando. Insieme alla preoccupazione per la salute e per una risposta ai beni essenziali, l’attesa più grande e la tentazione più forte alle quali si sono trovate esposte tante persone è quella della solitudine e del superamento della solitudine.
La cura del figlio è quella di non lasciare sola la madre. È quella di non lasciarci solo gli uni gli altri. Una prossimità non invadente, ma una prossimità per cui una persona, pur nella difficoltà, comprensibile, possa dire “non sono abbandonato!”.
Cari fratelli e sorelle, vogliamo che la Chiesa intera sia testimone di questa prossimità, vogliamo che le nostre comunità parrocchiali possano far avvertire a ogni persona, anche a quella che ci sembra più alla periferia, che non è abbandonata.
Le nostre strutture, le strutture pubbliche, le strutture che sono nate dalla coscienza della fede cristiana in cui vengono accolti i malati e gli anziani possano rappresentare veramente questa prossimità. C’è bisogno di cura del corpo, c’è bisogno di tutta una serie di servizi, ma c’è soprattutto c’è bisogno di prossimità reale ed è un bisogno che non possiamo relegare ad un qualcosa di più o facoltativo.
Siamo qui ancora una volta a celebrare il segno meraviglioso dei tre raggi.
Ricordavo quando sono venuto alcuni mesi fa, che i tre raggi possono essere rappresentativi della fede, della speranza, della carità.
Abbiamo bisogno del raggio della fede: della fede in Dio e della fede negli uomini. Nel periodo difficile della pandemia quanta fiducia abbiamo posto nelle mani, nell’intelligenza e nel cuore di medici, di infermieri, di personale sanitario, di coloro che si sono occupati dei più diversi servizi, delle istituzioni, delle autorità, delle forze dell’ordine, di persone che volontariamente hanno offerto qualcosa di loro per farsi vicino agli altri.
Abbiamo bisogno del raggio della speranza. Abbiamo avvertito che la fiducia alimentava la nostra speranza. Quella fiducia che ci stavamo offrendo gli uni gli altri è un patrimonio troppo prezioso perché vada dimenticato. Quanta speranza ha accompagnato l’attesa di tante famiglie per la guarigione dei loro cari. La speranza anche per noi, che questo virus così contagioso non ritorni con la virulenza con cui si è manifestato nella nostra terra. La speranza, infine, che i nostri morti, che i tanti morti di questi mesi, non sono finiti nel nulla ma sono nella braccia di Dio.
Abbiamo bisogno finalmente del raggio della carità, che nei mesi scorsi si è manifestata con una fantasia e con una generosità inimmaginabili.
I tre raggi hanno restaurato l’immagine della Vergine consegnata alla nostra devozione. La fede, la speranza, la carità, sono i tre raggi che restaurano la nostra realtà.
Cari fratelli e sorelli, guardiamo a questa immagine e chiediamo che i tre raggi della fede, della speranza, della carità raggiungano l’immagine impressa nei nostri cuori perché venga restaurata la nostra immagine di figli di Dio, figli proprio come Gesù ci ha consegnato a Maria.
Termino con un invito. Pochi giorni fa ho sentito uno dei medici che maggiormente si sono impegnati nel combattimento a questo virus durante i mesi della pandemia e alla domanda: “ma ritornerà? non tornerà? cosa succederà?”, rispondeva: “Non lo so. L’unica cosa che posso sapere e che voglio dire è: stiamo pronti! Preparatevi! Se non verrà saremo felici e se tornerà saremo pronti”. Mentre lo ascoltavo mi dicevo: sono proprio le parole di Gesù, quando ci dice “state pronti! vegliate! preparatevi!”.
E noi vogliamo farlo. Noi non vogliamo soltanto pregare e venerare la Madonna nel momento della violenza, nel momento dell’oscurità, nel momento della croce. Noi vogliamo preparare il nostro animo con fiducia perché non si scateni questo uragano, noi vogliamo prepararci nel caso dovesse verificarsi di nuovo, ma vogliamo prepararci spiritualmente alle tempeste che possono investire la nostra vita, vogliamo prepararci davanti al Signore facendo della nostra esistenza quella che lui ci ha consegnato nel momento in cui ci ha donato a Maria: un’esistenza cioè di figli di Dio.
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Alla preghiera di affidamento (che sostituisce la processione)
Care sorelle e fratelli,
questa bella serata ci consente di raccoglierci per pregare all’esterno di questo santuario, evocando quella tradizione che ci è tanto cara, che è cara alla nostra città, che è cara alla nostra provincia e alla nostra diocesi, cioè la processione con il simulacro della Madonna Addolorata che raffigura l’immagine miracolosa qui custodita.
Alla processione c’è sempre una corale partecipazione, ma quest’anno non abbiamo potuto viverla nel modo tradizionale per motivi evidenti a tutti.
Questo ci introduce alla consapevolezza che nulla è scontato, anche ciò che ci sembra più consolidato, ciò che ogni giorno compiamo senza pensarci troppo.
La vita nelle nostre famiglie è una meraviglia ma non è scontata e tutti possiamo raccontarlo, solo che a volte ci rassegniamo ad una specie di fatalità, ma non è bello quando viviamo così.
Nemmeno il nostro lavoro è scontato: ci avviamo verso un periodo preparato da condizioni che alimentano la nostra trepidazione, che per alcuni è proprio una reale paura, che per tutti è un motivo per guardare al futuro con preoccupazione, sapendo di non poter dare più per scontato ciò che lo era.
Così è per la salute, questo bene prezioso, troppo scontato, anche e soprattutto comunitaria. La sappiamo bene che la malattia è sempre in agguato e che quando gli anni si accumulano e siamo più esposti alla fragilità, ma qui ci siamo trovati tutti insieme a percepire una condizione in cui la salute è stata vista nel suo grande valore ma anche nella sua grande delicatezza.
Anche la fede è spesso data per scontata. Tante volte guardandoci intorno, magari guardando i più giovani di noi, diciamo: la fede non è più come prima! Forse proprio perché abbiamo dato per scontato un tesoro prezioso e vivente come è la fede. Non è un diamante che si custodisce in uno scrigno, da aprire ogni tanto per controllare che non ce l’abbiano rubato, ma è qualcosa di vivo. A volte si ripropone come un germoglio anche se la persona ha tanti anni di vita. La fede non è mai scontata. La vostra presenza questa sera non è scontata.
Nuova, tra l’altro, è anche questa dimensione per cui la nostra preghiera raggiunge molte altre persone attraverso il mezzo televisivo che quest’anno ci dà la possibilità di metterci in comunicazione con tanti che forse in altri anni non hanno partecipato a questo momento.
Tra le tante le persone che in questa circostanza offrono il proprio aiuto e la loro opera, prendo come rappresentanti di tutti coloro che lavorano nel borgo i portatori della statua della Madonna. Quest’anno non hanno portato molto, ma hanno portato con molto desiderio. Perché non è scontata neanche questa tradizione che sembrava così comune e assodata.
Care sorelle e fratelli, abbiamo così pregato, forse con una intensità maggiore di altre volte, questa invocazione popolare detta “il rosario dei sette dolori”. È un rosario speciale e mi hanno anche regalato una corona che fino ad oggi io non possedevo: con le 7 Ave Marie per i 7 Dolori (invece che le 10 Ave Marie per i 5 misteri).
Abbiamo vissuto una esperienza di dolore incancellabile: c’è chi ha visto questo dolore che ha colpito i suoi cari, proprio nella sua casa; c’è chi ha visto colpito i propri amici, i vicini, le persone che hanno contribuito a costruire la comunità. Adesso che la comunità comincia ad uscire e riprende un po’ la normalità, ci rendiamo conto che non ci sono più. Ognuno ha i suoi dolori. Una delle caratteristiche di ciò che abbiamo vissuto è che ci ha accumunato nel dolore. Certo qualcuno in modo più grave rispetto ad altri, ma saremmo davvero ingiusti se dicessimo “è un problema tuo! fortunato me che non sono stato toccato!”.
In questa esperienza di dolore, noi però abbiamo visto dei germogli di risurrezione.
Come si ripete nella preghiera che accompagna ogni dolore, noi contempliamo nel mistero del dolore svilupparsi una possibilità di amore a volte assolutamente impensata.
Permettete allora che scorra essenzialmente i sette dolori di Maria, come li abbiamo pregati, vedendo i germogli di risurrezione.
Nel primo dolore si contempla: “una spada ti trafiggerà l’anima”. Una spada che trafigge fa male. Ma l’apostolo ci ha parlato della Parola di Dio come di una spada che giunge nel profondo, cioè ci apre una ferita che invece che farci sanguinare permette al balsamo di questa parola di Dio, che è capace di ricostruire la speranza, di penetrare fino nel profondo di noi stessi. Abbiamo bisogno che questa parola ci raggiunga nel profondo. Troppe volte la lasciamo scivolare via.
C’è poi il dolore della fuga in Egitto. Vogliamo con molta discrezione riconoscere che anche Gesù è un profugo, che anche Gesù ha dovuto abbandonare la sua terra, che anche Gesù è andato attraverso un deserto a cercare una patria un po’ più sicura di quella in cui era nato. Quanto di questo dolore si sta ripetendo sotto i nostri occhi. Nello stesso tempo, proprio da quel dolore ne nasce una liberazione: Gesù tornerà dall’Egitto, come il suo popolo schiavo è tornato raggiungere la terra promessa da libero. È questo un germoglio di risurrezione: quando dentro una fatica o proprio dentro il crogiolo di qualcosa che non si vede o imprigiona appare invece una libertà maggiore. Dentro proprio la prova c’è una maggiore interiore libertà. Non è il poter fare quel che piace o quel che si vuole, ma è obbedire interiormente a quel dovere di coscienza che ci porta anche al gesto più coraggioso e più generoso.
C’è il dolore dello smarrimento di Gesù nel tempio. Ognuno di noi pensi ai propri figli e nipoti: a volte ci sembrano perduti per esperienze difficilmente riconoscibili o apprezzabili. Ci sembra sempre di perderli, anche quando non sono persi. Dimentichiamo come dentro l’esperienza di ogni persona giovane che cresce, anche se a noi sembra così difficile da seguire, c’è un mistero. È un mistero che noi stessi custodiamo: è il mistero della nostra vocazione, cioè di Dio che chiama tutti, anche il più distratto, anche quello che dice “che cosa devo fare per Dio! io faccio il mio lavoro e il mio dovere in famiglia!”. Ma è proprio questa la tua vocazione! Scoprire la propria vocazione e seguirla fino in fondo, questo è quello che il Signore ci consegna attraverso l’esperienza del dolore di un figlio che se ne va.
C’è l’esperienza di dolore sul calvario, quando Gesù incontra la madre mentre sale. È una immagine tradizionale, mentre il Vangelo ci consegna l’incontro di Gesù parlando genericamente delle donne. Qui ci sono tante donne, capaci di un amore di cui noi uomini vogliamo essere riconoscenti. Tante donne capaci a volte di una resistenza nel dolore che noi uomini non sempre abbiamo. Le donne stanno sul Calvario e piangono insieme a Gesù. La capacità di una donna, che possiamo imparare noi uomini, è quella di soffrire della sofferenza di un altro. Questo non è aumentare il dolore, ma è vedere germinare la risurrezione. La condivisione non è solo di quando stiamo bene e siamo felice, ma soprattutto è di quando siamo nella prova.
Poi c’è il dolore della morte di Gesù e quindi la perdita. È la perdita di ciò che abbiamo di più caro, ma viene mostrato al mondo. In quel momento Maria perde Gesù e da quel momento lei sotto il figlio Gesù crocifisso è diventata immagine della speranza per miliardi di persone nella storia e in tutto il mondo. Ancora oggi noi guardiamo al Crocifisso non per guardare un grande dolore, ma per guardare la potenza dell’amore.
Il sesto dolore è il cuore trafitto di Gesù, il cuore squarciato. Quanti cuori squarciati dal dolore, sono stati capaci, proprio in quel momento, dell’amore più intenso. Abbiamo visto persone che non si sono sottratte dagli occhi e dal grido del dolore, ma il loro cuore squarciato da quel dolore ha manifestato un amore ancora più grande come germoglio di risurrezione.
L’ultimo mistero è il dolore della sepoltura di Gesù. È lo strazio per tutti coloro che sono scomparsi e non abbiamo potuto accompagnare nemmeno nella sepoltura. Anche Gesù hanno dovuto seppellirlo in fretta e furia. Era il giorno della festa più grande e non si potevano seppellire i morti e per non lasciarlo sulla croce lo hanno portato via in qualche modo, così come tanti dei nostri cari nella pandemia. Ma dentro questo strazio la sorpresa della nostra fede di cristiani è proprio la risurrezione. Non dimentichiamo che i nostri cari non sono scomparsi nel nulla, non sono semplicemente sotto terra piuttosto che raccolti in un’urna: i nostri cari sono presso Dio, grazie a Gesù, alla sua morte, sepoltura e risurrezione.
Care sorelle e fratelli, ho voluto accompagnarvi in questa processione, fatta più con l’ascolto che con i piedi, con i dolori di Maria come la tradizione pone uno accanto all’altro. L’impotenza come sensazione di non poter fare nulla, come avrà provato Maria, ci fa riconoscere in lei che sta presso la croce di Gesù. Non poteva fare più niente.
Anche nella desolazione della miseria, della solitudine, della fame, della malattia, che colpiscono senza distinzione anziani, adulti e bambini, Dio non permette che il buio del dolore spadroneggi. C’è un limite divino imposto al male e si chiama “compassione”: la compassione di Dio e la compassione degli uomini.
Celebrando la festa della Madonna Addolorata contempliamo Maria che condivide la compassione di suo Figlio per tutta l’umanità. Come affermava un grande santo amante della Madonna, San Bernardo: “La Madre di Cristo è entrata nella passione del suo Figlio attraverso la compassione”.
Tra qualche giorno celebreremo la festa del nostro patrono Sant’Alessandro. Quest’anno la virtù che ci riproponiamo è proprio quella della compassione e credo che la venerazione alla Beata Vergine Addolorata ci prepari spiritualmente nel mondo migliore a questa celebrazione.