Veglia delle Palme con i giovani – Cattedrale

08-04-2017
Il messaggio del Papa per questa veglia che tradizionalmente si lega alla Giornata Mondiale della Gioventù ci mostra Maria nel momento in cui innalza al Signore un canto di meraviglia, di lode, di gioia. Ogni parola, ogni espressione di questo canto è molto densa ma certamente ci interpella in modo speciale questa dichiarazione: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”. Questa dichiarazione la ascoltiamo da Maria, ma nello stesso momento ci interroghiamo se un’espressione così ha valore anche per noi: io posso ripetere con convinzione e con la stessa gioia quella medesima meraviglia “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”?
 
 
Abbiamo appena udito il Vangelo della morte di Gesù e lì sotto la croce ci sta sua madre. Mentre lo ascoltavo pensavo: “avrà avuto il coraggio di dire ancora anche lì: grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente?”.
 
Ognuno può raccontare i momenti in cui questa espressione è del tutto improbabile, addirittura umiliante, incredibile. Per altro Maria non l’ha pronunciata mentre sedeva su un trono da regina, in un palazzo in cui una moltitudine la venerava, la cantava, la ammirava. Il contesto del canto di cui stiamo parlando è quello di una semplicità che ha a che fare con la maggior parte della nostra esistenza. Una esistenza dimessa, modesta, in cui ci sono dei picchi di gioia, di soddisfazione, o anche di sofferenza, ma che nella maggior parte dei suoi giorni scorre, proprio come quella di Maria, proprio come il giorno dell’annunciazione, proprio come quando ha incontrato Elisabetta.
 
È da questa vita che normale che escono le parole: “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”. Nel grembo di Maria in quel momento c’è un segreto, un mistero che cambia la storia del mondo, ma non si vede, nessuno se ne accorge, non si impone.
 
Vi sto dicendo queste cose perché c’è un esercizio che desidero condividere con voi e affidarvi. Un esercizio che – vi confesso – mi è familiare, che mi permette di dire “grandi cosa ha fatto in me l’Onnipotente”, nonostante la mia modestia, la modestia della vita vita e nonostante i miei peccati. È un esercizio che mi fa dire non solo “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”, ma anche “grandi cose ha fatto intorno a me l’Onnipotente”.
 
Oggi sono stato in Ospedale, ho visitato i reparti dei bambini, dagli oncologici a quelli delle patologie neonatali, bambini che sono poco più grandi di una mano, a volte delle vite impossibili. Papà e mamme in trepidazione, dolore, sconforto, ma con un amore incredibile. Un piccolo bimbo completamente indifeso sembra che non possa che attirare amore, ma non è sempre così. Ci sono dei bambini in questo momento che attirano su di sé delle bombe, o forse un po’ di gas letale. Non è così scontato. Però io ho visto questo amore. Ho visto anche quello che avviene in Libano, dove uno di noi ogni giorno dà da mangiare a 300 bambini siriani, molti dei quali non sanno neanche più chi è loro padre o loro madre. Oppure sotto i bombardamenti ad Aleppo i frati distribuivano la colazione ai bambini che andavano a scuola sotto le bombe. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente, grandi cose ha fatto attorno a me l’Onnipotente.
 
Ieri ho incontrato persone malate di Parkinson e di Helzeimer. Mi hanno detto: “non è bello essere malati, però alcune cose della vita le abbiamo capite soltanto così e per noi è un dono”.
 
Vi dico questo perché uno potrebbe dire “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” nel momento della gloria, ho una bella famiglia, ho una casa, ho un lavoro, lo studio mi sta dando soddisfazione, godo di una buona salute.
 
Grandi cose invece ha fatto l’Onnipotente dove sembra esserci solo oscurità, dolore, male, malvagità.
 
È l’esercizio del riconoscimento: non basta vedere, bisogna riconoscere.
 
L’esercizio del riconoscimento prevede di mantenere allenata la memoria. Sembra che a volte la nostra memoria si paralizzi attorno a ricordi che alimentano sentimenti di rancore o addirittura di vendetta. Sono ricordi paralizzanti. I ricordi di ciò che ha fatto fiorire la nostra vita (i ricordi di un volto, di una parola, di un gesto, fosse anche di una persona che abbiamo incontrato una volta sola nella nostra esistenza) non l’hanno fatta fiorire solo allora, ma fan rifiorire il sorriso ancora oggi. Spero vi sia capitata l’esperienza di ricordare così e di sorridere.
 
Vi faccio una confidenza: tutte le volte che io ricordo il mio papà e la mia mamma sorrido. Proprio mi viene spontaneo sorridere. Vi auguro questa memoria per poter dire: grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente.
 
Bisogna esercitarsi. Bisogna esercitarsi allo stupore. Forse stiamo facendo un grande torto ai bambini e non solo per le bombe o la paura diffusa. Ad alcuni bambini di una scuola materna è stato chiesto: di che cosa avete paura? Sono risultate due T: terrorismo e terremoto. Lo stupore sembra sparire troppo presto anche dagli occhi dei bambini. Ma sparisce dai loro occhi perché non lo vedono più nei nostri.
 
Riconoscere è alimentare lo stupore, non soltanto lo scandalo. Non soltanto il ghiaccio negli occhi che a volte diventa una specie di saracinesca impenetrabile ancor più che scura: gli occhi rimangono chiari ma il ghiaccio li rende impenetrabili agli altri ma in qualche modo anche a noi stessi. Esercitiamoci allo stupore, alla meraviglia, a dire “che bello!”.
 
L’esercizio del riconoscimento, come quello di Maria nel canto, non è soltanto ricordo e stupore, ma è anche decisione e azione.
 
In questi mesi sto ritornando molto spesso su un’immagine che mi è familiare e mi rimanda a quando da bambino andavo da mio nonno contadino. Avevo un nonno ferroviere e un nonno contadino, un nonno di città e un nonno di campagna. Come quella favola intitolata “il topo di città e il topo di campagna”. Il nonno di campagna mi ha lasciato in consegna una cosa meravigliosa sulla quale continuo a ritornare in questi mesi, la ridico e la spargo come un seme perché è un seme.
 
Che cosa dobbiamo fare: raccogliere un seme, custodire un seme e finalmente piantare un seme. Il seme della nostra fede, il seme di quello che abbiamo ricevuto di buono, il seme di quello che siamo riusciti a conquistare con i nostri sforzi, il seme della nostra umanità, che sarà anche modesta ma è anche ricca di cose che saranno preziose per qualcuno. Il seme, non le cose ci salveranno. Il seme ci salverà. Questo seme che è capace di generare e rigenerare vita.
 
Ognuno di noi è custode di un seme e non soltanto perché il Signore ci ha resi capaci di una procreazione, meraviglia delle meraviglie, di cui sembra che gli occidentali non siano più molto capaci.
 
È il seme che è capace di comunicare vita anche questa sera, in ogni incontro, negli sguardi, in una passione condivisa, nella convinzione che nella modestia delle nostre esistenze noi possiamo fare cose grandi, perché il Signore ha fatto in noi cose grandi.
 
Il riconoscimento alla fine alimenta la riconoscenza che è il modo più bello per vivere. Io spero che tutti, anche chi ha sofferto tanto, alla fine possa arrivare a dire “grazie”, perché grazie è la parola più bella del mondo. È più bella anche di “ti amo”. Grazie, grazie, grazie.
 
Alla fine della vita diremo “grazie” e quella sarà la porta del paradiso.
 
Riconoscere significa riuscire a dire grazie. A volte questo è proprio una grazia, un dono perché ci sono momenti (anche prolungati nel tempo) in cui non riusciamo a dire grazie, eppure abbiamo visto persone in condizioni infinitamente più difficili delle nostre dire grazie.
 
Questo è l’esercizio che vi lascerei alla luce della parola del Papa che chiama tutti i giovani del mondo insieme alla giovane Maria a ripetere le parole del canto “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”.
 
Tutto questo ce lo stiamo dicendo attorno ai resti mortali di una santa, di una giovane donna bergamasca che 60 anni fa (non un’infinità) è morta uccisa da quella violenza che – in maniera che ci sembra incredibile – continua a ripetersi. Noi gli uomini e le donne del XXI secolo ancora così barbari nelle nostre violenze e soprattutto in una violenza che sembra scatenarsi in una maniera che ci sorprende e ci intimorisce soprattutto nei confronti delle donne e dei bambini.
 
La Chiesa, con Papa Giovanni Paolo II, riconosce nella morte di Pierina Morosini il segno del martirio. Una vita dimessa la sua, una vita tutta impregnata di fede, una vita tra lavoro e famiglia, la parrocchia, la passione missionaria. Passioni molto spesso custodite segrete nel cuore: voleva addirittura consacrarsi e non lo potrà. Alla fine una vita segnata dallo stigma della violenza e nello stesso tempo della testimonianza dell’amore. È il martirio.
 
Vorrei consegnarvi tre doni che mi sembra che la beata Pierina possa lasciare a tutti, certamente a voi cari giovani.
 
Il dono della dignità, innanzitutto. Una famiglia molto povera, un lavoro modestissimo. Per nulla appariscente. Tuttavia, fino all’ultimo, una grande dignità. Cari amici, desideriamo che la nostra dignità venga rispettata, ma per primi noi onoriamo la nostra dignità. Così ha fatto lei e ci lascia questo dono. Non è orgoglio, non è l’essere più bravi, è proprio riconoscere quell’interiore mistero di cui ciascuno di noi è portatore. È riconoscere che nella mia vita, proprio per quella che è, Dio ha fatto grandi cose. È riconoscere quella scintilla di umanità di cui ciascuno di noi è custode. Che gli altri rispettino la nostra dignità, ma che ciascuno di noi la onori.
 
La beata Pierina ci lascia poi il dono della mitezza. La mitezza non è essere delle persone che non si appassionano di niente, che non sono capaci di resistere al male, che non combattono per nulla. Non è questa la mitezza. Non è indifferenza. La mitezza è la forza della verità. Questo è il dono che a volte persone molto semplici di consegnano. Noi spesso riteniamo che sia la verità della forza quella che è capace di ribaltare le situazioni di male. Non è la verità della forza, ma la forza della verità, cioè la mitezza, che si impone anche ai più forti, anche ai potenti. È la forza di Gesù.
 
Il terzo dono è la fede. Care ragazze e cari ragazzi, abbiamo bisogno di fede. Abbiamo bisogno di fede in Dio e abbiamo bisogno di fede negli umani. Non abbiamo fede in Dio e non riusciamo più a fidarci di nessuno. Se non ci fidiamo più di nessuno, facciamo fatica a fidarci di Dio. Abbiamo bisogno di fede. Questa giovane donna con il suo martirio ci consegna il dono della sua fede grande.
 
La nostra assemblea questa sera per me è un dono di Dio. Potrò tornare alla mia casa questa sera e dire: grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente grazie a voi. Che ognuno stasera, tornando a casa, possa ripetere lo stesso.  
(trascrizione da registrazione)