Giornata dei Migranti – Martinengo

15-01-2017
Care sorelle e fratelli,
 
rinnovo il mio saluto a tutti voi, alla Comunità di Martinengo che ci sta ospitando e a tutte le Comunità che voi rappresentante. Un saluto particolare va a tutte le persone tra noi questa sera che sono arrivate nella nostra terra da Paesi diversi e a volte molto lontani. Saluto con affetto i sacerdoti concelebranti, tra cui quelli impegnati nella Pastorale della Migrazione e dei Migranti, con i loro collaboratori consacrati e laici. Saluto i Sindaci presenti, grato per questa presenza particolarmente significativa.
 
La celebrazione a livello mondiale della Giornata del Migrante ci suggerisce alcune considerazioni, che vengono illuminate dal Vangelo, cominciando dal ricordo.
 
Innanzitutto il ricordo dei nostri conterranei, compatrioti, dei milioni di italiani nel mondo, delle centinaia di migliaia di bergamaschi nel mondo, delle loro famiglie, dei loro figli, nipoti, pronipoti, nati in Europa o in terre lontane, ormai radicati in quei Paesi, senza dimenticare mai il nostro.
 
Vogliamo ricordare i 100.000 giovani italiani che nel 2015 hanno lasciato il nostro paese in cerca di un lavoro. Vogliamo ricordare i milioni di persone migrate nel nostro paese e qui pienamente inserite, dove non soltanto hanno trovato il lavoro, ma hanno costruito e abitato la loro casa, hanno generato figli che sono nati nel nostro paese.
 
Vogliamo ricordare coloro che giungono nel nostro paese partendo da situazioni drammatiche, sia che si tratti di guerra, di violenza, di povertà e fame, oppure mossi dall’aspirazione ad una vita migliore che vedono rappresentata dal nostro continente. Tra questi in maniera particolare quest’anno, su sollecitazione di Papa Francesco, vogliamo ricordare i più giovani: i bambini e i ragazzi giunti con le loro famiglie (sono stati 25.000 quest’anno, di cui 5.000 non erano accompagnati da alcun adulto).
 
Alla luce di queste migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone, domandiamoci: quale è la condizione del Migrante, dell’Emigrato, dell’Immigrato?
 
Spesso sottolineiamo la necessità del lavoro. Di fatto la grandissima parte di coloro che migrano dal loro paese, lo fanno per cercare condizioni migliori a partire dal lavoro. Così è stato anche per una moltitudine di italiani.
 
Ma la condizione del Migrante non è riconducibile soltanto al lavoro. Pensiamo a quella figura particolare del Migrante che è l’Esiliato, colui che viene esiliato o colui che si auto-esilia dal proprio paese. Pensiamo a come in maniera impressionante è cresciuto in questi anni il numero di persone che lasciano la loro casa, quella casa in cui sono nati e sono cresciuti, per le ragioni che prima ricordavo: la guerra innanzitutto, la violenza, la povertà, la fame.
 
La condizione del Migrante, qualsiasi sia la sua nazionalità, trovandosi in un paese che non è il suo, è una condizione di estraneità: inevitabilmente è “lo straniero”. E questa condizione lo accompagna sempre.
  
È una condizione che qualche volta può essere capitato di sperimentare anche a noi, che ci muoviamo con maggiore facilità, anche se per altre ragioni (dalle visite, al turismo, a ragioni di lavoro). Subito ti rendi conto che quando ti trovi in un paese diverso dal tuo, tutto comincia a diventare più delicato e fragile. Basta un niente per metterti in una condizione di precarietà e di insicurezza. Non dimentichiamoci mai di questo!
  
Come non vogliamo dimenticare la ancor più complessa situazione di debolezza di coloro che migrano: una debolezza che a volte assume i connotati della povertà e di precarietà estrema. In una maniera assolutamente consapevole, vogliamo ricordare quei ragazzi e bambini che tra i deboli sono i più deboli. E non vogliamo nemmeno dimenticare le condizioni a volte assolutamente inimmaginabili nelle quali si trovano coinvolti.
  
Dopo essermi soffermato sulla condizione del Migrante, vorrei condividere con voi una riflessione sulle cause della migrazione.
  
È possibile raccogliere in una parola tutte le cause della Migrazione? Non vorrei essere presuntuoso, ma la parola che mi sembra possa raccoglierle tutte è: ingiustizia.
  
L’ingiustizia è innanzitutto quella condizione di squilibrio che – sia per quanto riguarda coloro che partono o sono partiti dal nostro paese, sia per coloro che lo raggiungono – rappresenta la somma di tutte le condizioni che spingono a migrare. Una ingiustizia percepita via via nei modi più diversi, ma che sempre e comunque si rappresenta come uno squilibrio.
 
La giustizia viene comunemente raffigurata con l’immagine della bilancia: nel momento in cui si verifica una qualsiasi ingiustizia, la bilancia pende da una parte o dall’altra, così inevitabilmente si crea un piano inclinato e le persone si muovono lungo quel piano.
  
Siamo di fronte ad un paradosso dolorosissimo: da una parte dobbiamo riconoscere che in questi decenni siamo progrediti e che le dimensioni della povertà sono diminuite, ma d’altra parte come è cresciuto lo sviluppo complessivo, così è cresciuta anche l’ingiustizia, così è cresciuto lo squilibrio. Ciò viene percepito in maniera molto forte a tutti i livelli e potremmo dire qualcosa anche di noi stessi.
 
È questo ciò che ci provoca: se la parola “ingiustizia” è quella che raccoglie tutte le cause della migrazione, noi dobbiamo riconoscere con preoccupazione, amarezza e responsabilità che se siamo cresciuti, è cresciuto anche lo squilibrio e l’ingiustizia nel mondo. E quindi inevitabilmente crescerà quel movimento drammatico e necessario che tocca tutti i continenti e che prende il nome di “Migrazione”.
 
Che cosa possiamo fare? Che cosa possiamo fare da cristiani?
 
C’è una parola che dice tanto dell’esperienza cristiana, di cui dovremmo essere testimoni, perché prima di tutto ne siamo destinatari, e la parola è “salvezza”.
 
La prima cosa da fare è salvare le persone da una condizione di precarietà, che ci viene rappresentata da coloro che giungono in Europa nelle condizioni più difficili e impensabili che li espongono effettivamente anche al pericolo di perdere la vita. Non è qualche cosa che avviene saltuariamente.
 
Noi non possiamo dimenticare che il “nostro mare”, quello che una volta chiamavamo “mare nostrum”, è diventato una tomba. Anche l’anno scorso 5.000 persone hanno perso la vita, sepolte in questo mare.
  
Che cosa possiamo fare? Salvare! Ma non soltanto i naufraghi, non soltanto coloro che attraversano il mare, ma salvare le persone dalla loro condizione di povertà e precarietà.
  
La parola “salvezza” percorre tutta la Scrittura, e nel Vangelo non è più solo una parola ma diventa una persona: Gesù incarna la salvezza.
  
A volte si dice che l’uomo contemporaneo non percepisce più cosa sia la salvezza. Tante volte mi capita di percorrere le corsie di qualche ospedale e di vedere persone che ringraziano il loro medico e mi dicono: “mi ha salvato la vita!”. Come facciamo a dire che la parola salvezza non ha più spazio nel nostro tempo?
 
Altre volte vediamo migliaia di persone che vengono salvate dalla morte nei percorsi che vorrebbero essere quelli della speranza. Quando si è verificato il terremoto nel centro Italia, quante persone abbiamo udito dire dei soccorritori: “mi ha salvato!”.
 
Cari fratelli e sorelle, siamo qui a celebrare il mistero della salvezza e non possiamo dimenticare che il primo gesto cristiano è quello di salvare chi è nel pericolo.
  
Ma non basta! Si parte dalla salvezza per arrivare all’aiuto, si parte dall’ospitalità per arrivare all’accoglienza, si parte dall’integrazione per arrivare all’interazione.
  
Non basta salvare: bisogna poi curare e aiutare.
 
Non basta ospitare: l’ospite è di una settimana o di un mese, bisogna poi accogliere.
 
Non basta nemmeno accogliere: bisogna accompagnare, cioè integrare.
 
Ma a mio giudizio è venuto il tempo in cui la stessa parola integrazione non dice tutto; la parola migliore è: interazione.
  
Interazione tra noi e chi proviene da paesi diversi, rendendoci protagonisti di una azione comune, cioè di una vocazione che ci responsabilizza gli uni verso gli altri. Questo è necessario oggi! Supereremo così quella tensione permanente tra accoglienza e rifiuto. Una cultura dell’accoglienza si coltiva concretamente, superando la paura dell’estraneo.
 
Carissimi fratelli e sorelle più volte l’ho ripetuto: quando si parla di “accoglienza” facilmente si pensa ai migranti, ma quante separazioni o divorzi sono avvenuti lo scorso anno nel nostro paese? Come ci stiamo accogliendo nelle nostre famiglie? Parliamo di “cultura dell’accoglienza” (non si tratta di colpevolizzare nessuno, lo dico per riflettere), ma quanti figli stanno nascendo nella nostra Europa, in Italia, nella nostra terra bergamasca? Così, se guardiamo le cause civili nei nostri Tribunali, siamo di fronte a qualcosa di incalcolabile.
  
La cultura dell’accoglienza si gioca tra noi e la nostra capacità di accogliere il vicino di casa, il coinquilino, il collega di lavoro. La cultura dell’accoglienza la dobbiamo alimentare a tutti i livelli e non semplicemente drammatizzarla nel momento in cui parliamo di persone che arrivano da un paese diverso dal nostro. 
 
L’accoglienza è un dono, è quel dono che concedo a mia moglie, a mio marito, a mio figlio, a mio padre, al mio parente malato, al mio vicino di casa, al mio collega, alla persona del mio paese che la pensa diversamente da me.
 
È così che l’accoglienza si allarga, per questo oggi deve prendere il volto dell’interazione: dobbiamo sentirci tutti protagonisti e responsabili di una reciproca accoglienza, a tutti i livelli, compreso quello tra persone nate e cresciute nella tradizione italiana con persone che provengono da paesi diversi dal nostro. 
 
È anche necessario passare dalla “solidarietà sociale” – così sviluppata anche nella nostra terra – a scelte politiche di natura solidale. 
 
Dobbiamo renderci conto che la migrazione nel mondo non è una emergenza, da quella di coloro che stanno arrivando in questi anni, a quella di coloro che sono qui tra noi da decenni con i figli e i nipoti che sono nati nel nostro paese. È il nostro mondo che è fatto così! Come non ci meravigliamo (o qualche volta ci sconcertiamo) della facilità di scambi attraverso le reti e le interconnessioni, così il nostro mondo è fatto oggi di imponenti migrazioni. Se continuiamo a considerare la migrazione come un’emergenza, è inevitabile che l’esasperazione continui ad aumentare. Non si può vivere continuamente in stato di emergenza! 
 
Invece la migrazione è una dimensione strutturale della nostra società, del nostro mondo. È così che siamo chiamati ad affrontarla. 
 
Credo che sia importante passare dalla gestione delle conseguenze ad una consapevolezza responsabile delle cause. 
 
Noi abbiamo ancora sacerdoti in Europa presso i bergamaschi che sono emigrati. Bergamo ha ancora suoi sacerdoti presso queste comunità italiane in Europa. Non dimentichiamolo! Sono bravi sacerdoti e li vogliamo ricordare in questa occasione. Abbiamo poi tanti missionari, diocesani e religiosi, presenti in ogni angolo del mondo. Tra qualche settimane andrò in Costa d’Avorio dove abbiamo diversi sacerdoti bergamaschi, suore, persone consacrate, laici. 
 
A volte quando tornano a casa e li incontro mi dicono: “voi state vedendo il secondo tempo di un film di cui avete dimenticato il primo tempo: avete dimenticato le cause!”. 
 
Bisogna agire sulle cause, ma agire con un’assunzione di responsabilità che certamente è di chi ci governa, ma che deve essere alimentata da un sentire comune. Non da un risentimento, ma da un sentimento di grande passione civile per il bene di tutta l’umanità, visto che oggi siamo così intensamente uniti ed il nostro destino unito a quello degli altri. 
 
E finalmente, dobbiamo dircelo proprio qui davanti all’Altare: non usiamo mai le persone! Non usiamo mai qualsiasi persona per ragioni strumentali o per i nostri interessi o per ragioni che vanno al di là della persona! Non si possono trasformare persone, gruppi di persone, fenomeni a volte drammatici che investono migliaia, centinaia di migliaia di esseri umani, per fini che non sono quelli legati alla vita di quelle persone e alla loro condizione.
  
Ricerchiamo piuttosto insieme la condivisione di quei valori, di quei principi fondamentali ai quali non vogliamo rinunciare, qualsiasi sia la situazione, a volte anche pericolosa o messa in pericolo. Noi non vogliamo rinunciarvi come cittadini e non vogliamo rinunciare al Vangelo come cristiani. 
 
Non usiamo mai le persone! Non usiamo mai le vicende delle persone! I lavoratori, i disoccupati, i giovani, gli immigrati: non usiamo nessuno! Piuttosto cerchiamo di affrontare insieme le condizioni che ogni giorno ci si pongono innanzi, condividendo quelli che riteniamo ancora i valori fondamentali di una cultura, di una vita civile che tanto ha attinto all’ispirazione evangelica e che preghiamo il Signore continui ad attingervi. 
(trascrizione da registrazione)