Giubileo degli operatori della Giustizia – Cattedrale

04-11-2016
Care sorelle e cari fratelli nel Signore,
il sentimento che mi sta attraversando è di gioia nel vedervi qui, nel pensare anche ad altri che sono vostri colleghi nel servizio e che in questo momento sono impegnati. Questa gioia è scaturita dal momento in cui mi avete proposto questo Giubileo delle donne e degli uomini che rappresentano e servono la giustizia in tutte le sue forme nella nostra comunità.
 
In questi giorni riflettevo su questo nostro incontro e sempre più sono riuscito a mettere a fuoco il fatto che noi siamo qui – voi particolarmente come donne e uomini di giustizia – per mettere consapevolmente, liberamente la loro esistenza nelle mani di un Dio misericordioso.
 
Per un certo tempo nel riflettere per prepararmi mi sono soffermato sul rapporto tra giustizia e misericordia, poi mi sono detto che non era questa l’occasione. Ciò che quest’oggi ci riunisce è piuttosto una invocazione di misericordia per noi, per le nostre famiglie (sono qui anche alcuni dei vostri familiari), per la nostra esistenza. Consapevoli che il servizio che state rendendo sarà tanto più luminoso, efficace e riconosciuto da voi stessi ancora prima che dalla società – come mi auguro -, tanto più il vostro animo, il vostro cuore, la vostra coscienza saranno purificati dalla misericordia di Dio, liberi e splendenti e quindi anche forti.
 
Anche io in questo anno ho celebrato più giubilei e ho chiesto su di me che continuamente predico la misericordia di Dio, di aprire il mio cuore a questa misericordia, che è certamente un dono e non una conquista.
 
Uno degli aspetti scandalosi della misericordia di Dio è che non è l’esito di uno sforzo, ma è completamente gratuita: tutto dono. Un dono che neppure ci ricatta, pur essendo costato a Dio il prezzo più alto: la morte di suo figlio. Di questo stiamo parlando: non di sdolcinature che coprono, accomodano, cancellano così come se tutto fosse facile per il “buon Dio”. Qui siamo di fronte al dramma della storia che mentre vede il rifiuto di Dio, viene sorpresa dal fatto che proprio dentro questo rifiuto si manifesta un amore più grande dello stesso rifiuto e fa del luogo del rifiuto (la morte in croce) il principio di una speranza del tutto imprevedibile e inconcepibile.
 
Con questi sentimenti sto pregando insieme con voi e per voi.
 
Le letture che abbiamo scelto credo abbiano una particolare risonanza per persone come voi. Abbiamo udito il profeta Isaia che annuncia un anno di grazia a persone affaticate, deluse. Un tempo ormai insperato per Isaia secoli prima di Cristo, per noi oggi. Un tempo insperato di giustizia e di pace, a cominciare – evidentemente non può che essere così – dai più disperati, da quelli che fanno più fatica: i poveri, i deboli, i condannati. Non per escludere gli altri, ma proprio per abbracciare tutti, senza dimenticare nessuno.
 
Poi l’Apostolo Paolo con quella pagina impegnativa (che invito a riprendere se qualcuno ne avrà occasione) ci dice: questo anno della grazia in realtà si è concentrato non in un giorno, ma in una persona, nella persona di Gesù. È lui che inaugura l’anno della grazia, ma un anno che non finirà mai perché è la sua persona che incarna la grazia. “Per mezzo di lui, noi abbiamo accesso alla grazia”.
 
Ci siamo ritrovati nella piazza, abbiamo rievocato il Battesimo, la purificazione e poi siamo passati dalla porta. È un segno semplice, questo, ma è Lui la porta che ci introduce in quell’anno di grazia, in quell’anno di misericordia, in quella speranza insperabile, in quel riscatto in cui a volte dubitiamo. E penso in modo particolare a voi che quotidianamente siete messi a contatto con l’esperienza del male.
 
Il gesto simbolico dell’ingresso attraverso la porta, con tutta la sua semplicità, per il credente diventa ispirazione, modo di veder le cose, modo di vivere, modo di agire, modo di pensare.
 
La porta è Lui, Gesù, e la chiave di questa porta è la sua croce. La sua morte per gli empi ci ha riscattato dall’empietà e da peccato. E il peccato è la radice di ogni male.
 
Va veramente salvaguardata la distinzione tra peccato e reato. Voi non giudicate il peccato. D’altra parte, nel momento in cui ci si interroga sul male nelle sue forme minuscole, nelle forme che vengono codificate dal diritto, fino a quelle forme che sfuggono ad ogni capacità di concepire (perché a volte ci sembra che il male vada al di là di ogni logica), noi arriviamo alla radice del male che prende il nome di peccato: cioè a quella radicale separazione non semplicemente tra uomini, nemmeno semplicemente con il creato (la casa dove abitiamo), ma da Dio. Questo è la radice del male.
 
La morte di Cristo Gesù – morto per mano di empi riscattandoci dall’empietà – taglia la radice del peccato. La storia è lunga, chissà quanto durerà ancora, la pianta continua a crescere e a dare anche frutti di male, ma la radice è stata tagliata. Questa è la nostra speranza, non quella ingenua di chi dice “usciamo di qui e troveremo un mondo migliore e noi stessi magicamente saremo migliori”. Noi usciamo di qui con la consapevolezza che quel male che è parte di quel servizio che voi rendete perché lottate per la giustizia, è stato radicalmente tagliato: non è cioè l’ultima parola sulla storia e sull’esistenza degli uomini. Questo vuol dire che anche quello che “giudichiamo” il peggiore degli uomini, anche per lui l’ultima parola non è questa sua condizione.
 
Questa è la fede del cristiano, questa è la speranza irriducibile che non si arrende nemmeno di fronte alle smentite più clamorose. Allora possiamo proprio dire che la giustizia di Dio coincide con la sua misericordia, perché la sua giustizia è capace di fare quello che nessuna giustizia umana può fare (e lo dico con grande rispetto del vostro lavoro): cioè di salvarci, definitivamente, radicalmente.
 
La grazia misericordiosa è per tutti, perché tutti siamo stati sotto il potere del peccato e tutti ne siamo liberati. Noi qui confessiamo i nostri peccati, vivendo però nella convinzione che siamo stati riscattati dal potere del male non per i nostri meriti, ma per l’amore di Dio che prende il volto della misericordia.
 
Il segno della porta santa che Papa Francesco ha voluto fosse aperta in ogni diocesi ci dice che il Giubileo è celebrazione della misericordia che perdona e che libera dalla colpa e dalla pena. Liberazione non solo dalla colpa (ci confessiamo), ma anche dalla pena: è il massimo della misericordia di Dio che ci raggiunge.
 
Care sorelle e fratelli nel Signore, se noi accogliamo questo dono comprendiamo – con tutti i nostri limiti ma anche con la sincerità del nostro cuore – che siamo chiamati a offrire questo dono. Abbiamo sentito il Vangelo delle opere di misericordia: avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero in carcere, ero malato, ero straniero e mi avete soccorso. Il gesto misericordioso del Vangelo diventa un gesto che genera relazioni nuove.
 
Nel momento in cui io aiuto ogni persona, qualsiasi persona, anche la più vicina che appare nella mia esistenza chiedendomi aiuto, non sto semplicemente rispondendo a un suo bisogno, ma sto creando una relazione nuova, sto creando un mondo nuovo. Non finiremo mai di farlo, molte volte non succederà così, ma quando io esercito la misericordia in quel momento sto creando la condizione di un mondo che non è sotto il potere del peccato. A volte il gesto può essere minuscolo, ma è così.
 
Accanto al gesto misericordioso dell’aiuto al prossimo c’è un gesto ancora più grande: è il perdono. Il perdono ci avvicina al comportamento di Dio. Nell’inno del Giubileo abbiamo cantato: “misericordiosi come il Padre”.
 
Care sorelle e cari fratelli, tutto questo voi lo vivete ogni giorno in quella che più che una professione è un servizio. Il motivo che ispira il vostro essere venuti comporta che questi convincimenti profondi e interiori ispirino la visione dell’uomo e la visione della giustizia. Ci sono delle mediazioni concrete da compiere perché siamo chiamati ad affrontare nella storia i problemi che fanno parte del vostro servizio. C’è una diversità rispetto a chi non si dispone liberamente e coscientemente a questo che noi crediamo? La diversità consiste semplicemente nel fatto che nell’esercizio di un servizio che probabilmente svolgiamo nello stesso modo, con gli stessi valori di riferimento, ci sono particolari motivi ispiratori, profondi, quelli che ispirano il nostro modo di vedere e quindi anche il nostro modo di agire. Che il Signore non solo vi raggiunga con la sua grazia misericordiosa, ma anche con la gioia interiore di questa grazia.
 
(trascrizione da registrazione)