03-11-2016
Care sorelle e fratelli, abbiamo ascoltato la parabola della pecora perduta e ritrovata, che ci dice di questa passione del pastore per le sue pecore e in modo speciale per quella che si è perduta.
La pecora perduta rappresenta una condizione non scelta. È la condizione di chi sperimenta lo smarrimento, appunto. Non si smarrisce soltanto la pecora: nel corso della nostra esistenza tutti quanti siamo esposti al pericolo o alla sofferenza di sentirci smarriti. Un pericolo e una sofferenza che si accompagna a quel senso di solitudine così diffuso attualmente al quale con grande facilità ci sembra di poter essere esposti. Una solitudine che a volte viene alimentata dalla consapevolezza di essere abbandonati, di non essere ricercati da nessuno, di non contare veramente per nessuno. Questa condizione viene ulteriormente aggravata dalla constatazione della propria debolezza e spesso anche dal sentimento della paura.
L’immagine evangelica assolutamente semplice della pecora smarrita è capace in realtà di evocare condizioni umane estremamente frastagliate, nelle quali ogni persona può riconoscersi.
Il pastore cerca la pecora. Tale ricerca è manifestazione della comprensione dei sentimenti che ho appena ricordato: il pastore è colui che non sottovaluta quel dolore. È come se se si mettesse nei panni della pecora interpretando la sua attesa profonda, quella di essere ritrovata, di non essere più smarrita o dimenticata.
Tutto questo si conclude con una grande gioia. Una gioia così grande quella del ritrovamento che non è solo la gioia della pecora, ma è la gioia del pastore. Una gioia così grande da diventare una festa.
Rallegratevi con me – dice il pastore – facciamo festa! La gioia quindi non solo come un sentimento intimo, non solo come una condizione individuale, ma proprio perché frutto di una esperienza autenticamente umana, è una gioia propensa a diffondersi, a coinvolgere altri. La gioia che si diffonde diventa festa.
La festa ha dei segni espressivi. Se la gioia è un sentimento intimo, la festa invece diventa espressione di questo sentimento attraverso gesti, segni, parole, canto. Tra questi c’è il mangiare. È proprio da qui che parte Gesù per narrare la parabola, proprio dall’accusa che faceva festa mangiando insieme ai peccatori. In ogni civiltà e in ogni tempo il mangiare bene e insieme è espressione concreta della gioia, è il modo per far festa. Non ci si sta sfamando, ma si corrisponde non ad un bisogno materiale come è la fame, ma ad un bisogno spirituale, quello di esprimere con altri la propria gioia.
Tanto più il motivo della gioia è stato sofferto, tanto più era insperato, tanto più diventa potente e la festa diventa significativa.
D’altra parte proprio la festa può diventare uno scandalo. Non sto parlando delle feste scandalose, non sto parlando delle feste che ci sembrano semplicemente espressione di una trasgressività che ci sgomenta qualche volta. Sto parlando dello scandalo della festa evangelica, che i farisei e gli uomini della legge denunciano nei confronti di Gesù.
Ad esempio mi sembra a volte di avvertire che ci sia una certa sorpresa, qualche volte un po’ di sconcerto, qualche volte un po’ di incomprensione e anche di insofferenza per questo Papa che preferisce far festa sempre con i poveri. Nelle sue visite mangia con i poveri, quando fa un invito invita i poveri. Insomma è una bella cosa, ma – qualcuno dice – vorremmo che qualche volta potesse rientrare un pochino in quelli che sono i criteri del vivere comune, di quelle che sono le attenzioni e le abitudini un po’ più consolidate dalle tradizioni. La festa può diventare uno scandalo ed è esattamente ciò che è avvenuto con Gesù nel condividere la gioia con chi alla fine riteniamo non se la meriti. Bisogna essere condiscendenti con tutti, comprensivi con tutti, però insomma – dicono i ben pensanti – non bisogna nemmeno esagerare.
Veramente, senza accorgerci, tante volte noi rientriamo in questi criteri, per cui facciamo festa volentieri con quelli che sono come noi, con quelli che condividono il nostro lavoro e il nostro pensiero. Non è che proibiamo agli altri di fare festa, o forse le organizziamo anche le feste per gli altri, ma il principio evangelico è ben diverso.
Care sorelle e cari fratelli, mi sembra che dentro questo orizzonte della pecora ritrovata e della festa celebrata si iscrivano alcune linee che vorrei consegnarvi evocando quale è il compito del Vescovo.
Proprio nelle letture di questi giorni per la commemorazione dei defunti, si ascoltava questa parola del Signore: “Non sono venuto per fare la mia volontà del Padre mio e la volontà del Padre mio, che io desidero e voglio adempiere, è che nessuno vada perduto”. Eccola qua la questione della pecora.
Il compito del Vescovo – e insieme con lui del presbiterio – è che nessuno vada perduto. E nel momento in cui qualcuno si perde, la missione del Vescovo è quella di cercare chi è perduto “finché non l’ha trovato”. Non semplicemente cercare e poi ad un certo punto si arrende. Cercare finché non l’ha trovato. E la gioia del Vescovo è proprio quella di trovare chi si è perduto.
Penso ai nostri Vescovi, penso al compito che loro hanno adempiuto perché nessuno andasse perduto e nel momento in cui qualcuno andava perduto, la loro missione è stata di andare a cercarlo finché non l’avessero trovato. Penso alla gioia intima, a volte condivisa fino all’Eucaristia celebrata in questa Cattedrale, del Vescovo per tutti i peccatori che si sono convertiti.
C’è un ultimo tratto che è legato a questa parabola e alla figura del Vescovo. Ho parlato del compito, della missione e della gioia del Vescovo, ma vi parlo anche della sorpresa del Vescovo. La sorpresa del Vescovo è che nella sua debolezza è cercato e trovato dal suo popolo. Questa è la sorpresa del Vescovo perché anche lui qualche volta è smarrito. E chi va a cercare il Vescovo? Il suo popolo.
È ciò che stiamo facendo anche adesso, non lasciando i Vescovi che ci hanno preceduto nel deserto dell’oblio e della irriconoscenza.
(trascrizione da registrazione)