18-08-2016
Care sorelle e fratelli,
abbiamo udito nelle parole del Cantico dei Cantici l’evocazione di una forza, una forza potente come quella della morte: questa forza è l’amore. Noi possiamo proprio riconoscere che le nostre esistenze sono segnate da una lotta che si ripropone ogni giorno e che vede protagonisti in noi la forza dell’amore e la forza della morte. Questa battaglia può diventare il criterio di interpretazione, il punto di vista dal quale osservare tutta la nostra esistenza. Noi stessi siamo coloro che sono capaci di esercitare la potenza dell’amore o di esercitare la potenza della morte.
Questo può riguardare le nostre vite singolari, lo possiamo anche riconoscere anche nella grande storia dell’umanità, dove questa battaglia, che vede protagonisti gli uomini abitati dalle forze della potenza dell’amore e dalle forze della potenza della morte, continuamente si ripropone. A volte rimaniamo sgomenti di fronte a orizzonti del mondo che diventano per noi familiari perché la comunicazione li porta nelle nostre case, che sembrano tutti abitati anzi sottomessi dal potere della morte. Invece occhi non appesantiti, non disperati, non cinici sono capaci di osservare e vorremmo che spesso la comunicazione ci mettesse in grado di osservare anche tutti i segni della potenza dell’amore, che sempre – lo possiamo dire – si manifestano pure in contesti che ci sembrano tutti segnati dalla morte.
In questo momento – e lo dico perché rappresenta una specie di parabola – la città di Aleppo diventa una specie di grande icona di questa lotta, di questo potere della morte, ma vi assicuro, anche per rapporti di cui sono grato al Signore con coloro che in questo momento lavorano da cristiani (preti, frati, vescovi, suore, laici) che vengono anche dai nostri paesi, che loro e con loro tanti cristiani locali stanno dando splendide testimonianze della forza dell’amore. Lo possiamo dire non enfaticamente o retoricamente, che alla fine la forza dell’amore vince, perché ha vinto già definitivamente in Gesù e nella sua croce. Lì si è combattuta la battaglia decisiva tra la potenza dell’amore e la potenza della morte, quella che vediamo poi dispiegarsi nei nostri giorni e nel corso della storia fino al suo compimento. Ma lì è già avvenuta la vittoria definitiva di Cristo sul potere della morte.
Questa vittoria è affidata al grembo di Maria. Il grembo di Maria nella croce di Gesù – come vediamo nella venerata immagine che verrà poi portata in processione – raccoglie non soltanto Gesù morte, ma la potenza della morte di Cristo Gesù. È proprio molto emblematico che proprio da quel grembo da cui è venuta la vita venga la nuova vita. La nuova vita è rappresentata dal Cristo risorto, ma anche dalle parole del Cristo crocifisso che consegna a Maria dei nuovi figli: proprio nella morte di Cristo nasce una nuova generazione di figli. L’angelo si era presentato nell’annunciazione a Maria dicendo: “Non temere, Maria!”: Non temere, Maria, perché da questo tuo figlio morto e con il potere della sua morte nasce una nuova generazione di figli che nel tuo grembo continuamente troverà speranza. E la ritroverà nel grembo della Chiesa.
Donna ecco tuo figlio. In Giovanni noi tutti diventiamo figli di Maria. Questa vita nuova che ci è comunicata dal Cristo crocifisso e risorto, per cui siamo figli di Dio, ci raggiunge attraverso questa relazione così intensa di sentimenti, di affetti, di devozione, di fiducia attraverso la custodia di Maria, che Gesù stesso ci dona. Ecco tuo figlio.
Cari fratelli e sorelle, quello che vi ho evocato si accompagna in maniera molto immediata all’esperienza della paura. Più che essere ispirati della potenza dell’amore, noi siamo spaventati dalla potenza della morte. I nostri discorsi quotidiani sono molto ricchi di questo sentimento ed è una cosa preoccupante. Noi siamo abitati da preoccupazioni che a volte ci spaventano, ma il fatto che siamo così abitati diventa un’ulteriore preoccupazione. Che cosa trasmettiamo ai nostri figli? Cosa trasmettiamo a coloro che non credono? Cosa trasmettiamo al mondo? Trasmettiamo le nostre paure?
Anche a Maria, come a noi, dice Dio il Signore: “Non avere paura!”. L’amore è più forte della paura: della paura del domani, la paura della fine di un amore coltivato per anni, la paura dell’abbandono, la paura per un figlio che non trova lavoro o di chi lo ha perduto o lo sta perdendo, la paura per le strade a volte inquietanti che i nostri figli sembrano a volte percorrere, la paura per la salute che declina, la paura per la vecchiaia che indebolisce e ci rende non più autosufficienti; la paura del terrorismo, della guerra, dello straniero; la paura per l’insicurezza diffusa, per la violenza; la paura delle notti della vita, la paura non solo della morte ma delle tante morti.
L’Addolorata è una madre che raccoglie tutte queste paure. Le ha vissute ma le ha anche vinte. L’Addolorata è anche la madre del coraggio: del coraggio di un amore che è più forte della morte ed è più forte della paura.
In questo santuario ciascuno di noi ritrovi il coraggio dell’amore, riscoprendo i versetti di un salmo che Maria avrà ripetuto tante volte: “pur se andassi in una valle oscura non avrò da temere alcun male perché tu sempre sei vicino a me”. Così pregava Maria, così preghiamo anche noi: se dovessi andare in una valle oscura, non avrò paura perché tu sei con me. Non dice che non attraverseremo la valle oscura, ma che potremo vincere le nostre paure perché Dio è con noi.
Giovanni Paolo II in una delle sue tante meditazioni su Maria la indicava come modello per coloro che non accettano passivamente le avverse circostanze della vita personale e sociale.
Cari fratelli e sorelle, in questa Eucaristia eleviamo la nostra preghiera a Maria, donna coraggiosa: “tu che sul Calvario, pur senza morire, hai conquistato la palma del martirio, rincuoraci con il tuo esempio a non lasciarci abbattere dalle avversità, aiutaci a portare il fardello delle tribolazioni quotidiane non con l’anima dei disperati, ma con la serenità di chi sa di essere custodito nel cavo della mano di Dio”, quel cavo della mano di Dio che per noi è diventato il grembo della Vergine Maria.
AL TERMINE DELLA PROCESSIONE
Abbiamo accompagnato questa effige della Madonna Addolorata, a cui molti hanno rivolto il loro sguardo: una delle immagini più intense e diffuse della madre di Gesù, evidentemente perché è capace di raccogliere quelle dimensioni della vita sofferte e provate che ci fanno provare il senso del nostro limite, a volte dentro dolore intenso, che mettono alla prova anche i nostri convincimenti più forti, che nascono dalla fede più umile.
È un’occasione preziosa quindi quella di poterci soffermare con uno sguardo che si indirizza a questa immagine capace di parlare anche alle donne e agli uomini del nostro mondo contemporaneo.
Quest’anno abbiamo compiuto un itinerario diverso, rispetto ad altri anni, toccando luoghi significativi della comunità cristiana e del borgo, calcando le strade di questo quartiere, attraversando le vie, vedendo le case e anche tutte quelle attività che rappresentano la laboriosità della nostra cittadinanza e finalmente quei luoghi propri di unione e condivisione che scaturiscono dalla fede della comunità cristiana.
Mi ha sempre colpito nella figura dell’Addolorata l’immagine del grembo che accoglie quel figlio morto, che dallo stesso grembo era venuto alla luce. L’immagine del grembo dice l’accoglienza e la capacità di generare: due connotazioni che una comunità viva è capace di riesprimere continuamente e che nel momento in cui non riusciamo più a ravvisare in termini intensi ci fanno dubitare della vivezza di una comunità.
Accoglienza e capacità di generare sono certamente la figura di una nuova creatura che viene al mondo, ma lo sono anche soprattutto della necessità di generare speranza, prospettive, voglia di futuro, strade che si possono aprire per i nostri figli.
Generare, care sorelle e cari fratelli. Un grembo ha bisogno di essere seminato con ciò che genererà nuova vita e nello stesso tempo ogni grembo è una grande immagine dell’accoglienza. Un’accoglienza che siamo chiamati ad esercitare nei modi più diversi. Un’accoglienza alla quale forse ci siamo disabituati. Non pensiamo soltanto alle persone che bussano alle porte del nostro Paese, ma pensiamo alle persone che vivono nelle nostre case: forse non siamo più capaci di accoglienze grandi perché ci siamo disallineati rispetto alla possibilità di accoglienze quotidiane, quelle nei confronti della donna e dell’uomo che vive con noi, dei nostri figli e dei nostri nipoti, dei vicini di casa, dei colleghi, di coloro che lavorano vicino alle nostre case e lungo le nostre strade, di coloro che abitano le case lungo le nostre strade.
Accoglienza vuol dire superamento di quei ripiegamenti individualistici ai quali tutti siamo esposti e che a volte reclamiamo imponendo un interesse particolare che deve misurarsi con altri interessi particolari verso una situazione di conflitto che non ci porta a generare vita. Il grembo dice generazione e dice accoglienza.
Questo grembo è il grembo di Maria, è la mano di Dio che si fa grembo per l’umanità e alla fine, cari fratelli e sorelle, tutto questo ci fa pensare ad una convivenza comunitaria nella quale una ogni persona possa sentirsi accolta e generata. Questa è la comunità che noi stasera vorremmo rinnovare, riconoscere, rappresentare.
Accompagniamo Maria, guardiamo a questo grembo pietoso e lasciamoci interpellare per essere una comunità, come grembo che accoglie, che educa ad accogliere e grembo capace di generare proprio perché accogliente. Non genereremo nulla se non accogliamo.
- In questa comunità, quest’anno, a conclusione di questa processione, permettete di farmi voce di questa grande famiglia e dell’intera città – che saluto in tutte le sue rappresentanze – per dire un grande grazie al parroco mons. Andrea. Un grande grazie corale a lui che ha servito questa comunità per tanti anni. Ora si conclude la sua presenza qui, ma non il suo ministero. Desidero proprio che lui avverta il nostro affetto: l’affetto del Vescovo, della diocesi, delle diverse realtà che lui ha servito e finalmente di questa comunità di Santa Caterina e della città di Bergamo. Grazie, caro don Andrea! Sono vicino ai portatori, che ringrazio perché è veramente bello vedervi ogni anno compiere questo servizio. E mentre loro portano l’immagine della Madonna, si alternano numerosi, con diversi compiti, si danno il passo, si fermano e ogni tanto suona quest’ordine da chi li conduce: “cambio!”. Don Andrea, cambio! E lo so che non è facile. Cambio significa lasciare il posto ad altri e qui abbiamo anche tra noi chi verrà, don Pasquale, che pure salutiamo con affetto, che viene come parroco lasciando il compito di rettore del Seminario. Cambio però vuol dire che ci sia sempre qualcuno disposto a dare il cambio a chi si carica dei pesi della comunità. Cambio vuol dire servizio. Servizio non è semplicemente l’organizzazione dei servizi, ma è l’espressione di persone che incarnano la loro vita nello spirito dello servizio, come consacrati, come laici, come persone che hanno responsabilità pubbliche e persone che curano la loro famiglia e il loro lavoro. Cambio non è semplicemente una risposta all’esigenza di modificazione di una realtà, ma significa disposizione al servizio. Non solo a compiere un servizio, ma ad entrare nello spirito del servizio, ad incarnare un servizio nello spirito del Vangelo.
(trascrizione da registrazione)