26-05-2016
Care sorelle e cari fratelli,
abbiamo udito dalle parole dell’Apostolo la consegna del gesto di Gesù alla comunità dei cristiani che viene incastonata nella lettura del dono dell’offerta e della benedizione dell’antico re e sacerdote Melchisedek e nel racconto evangelico della moltiplicazione dei pani. Questa trilogia assume un particolare significato per i gesti che stiamo compiendo, particolarmente la celebrazione dell’Eucaristia che continua nella processione.
Questo antico re e sacerdote diventa rappresentativo di una forma di sacerdozio nuovo, di cui tutti ora siamo partecipi. L’immagine che tutti – anche le persone più distratte o lontane o perplesse – portano del sacerdote è quella di un uomo che ha a che fare con Dio. Care sorelle e cari fratelli, ciascun battezzato è un uomo e una donna che ha a che fare con Dio e rappresenta un punto di unione tra terra e cielo.
Certamente lo sono in modo peculiare i consacrati per i quali vi chiedo di pregare e di pregare anche perché i giovani possano raccogliere questa chiamata del Signore al servizio del sacerdozio che noi preti incarniamo. Questo non toglie nulla alla novità di un sacerdozio esistenziale. Gesù non appartiene alla categoria dei sacerdoti: Gesù è sacerdote “secondo l’ordine di Melchisedek”. Non rientrava nella grande tribù sacerdotale. Il suo è un sacerdozio tutto fatto dalla sua persona, dalla sua vita, dalle sue parole e dalle sue opere. È il nostro sacerdozio, care sorelle e cari fratelli, quello che ci unisce tutti.
Quando celebriamo l’Eucaristia il prete o il vescovo presiede la celebrazione, ha ricevuto il dono per opera dello Spirito Santo di raccontare le parole di Gesù e mentre avviene questo racconto, avviene Gesù nel suo corpo e nel suo sangue. Ma poi tutti ci mettiamo in adorazione, senza più alcuna distinzione: vescovo, preti e laici. Tutti percepiamo come da questo dono di Dio ne nasce un sacerdozio nuovo, è il sacerdozio dell’esistenza, della nostra persona, dei nostri gesti più minuscolo al più impegnativo.
Proprio alla luce di questo ricordo di ciò che noi siamo che possiamo comprendere il valore dell’annuncio del Vangelo della condivisione del pane. È un Vangelo evocativo: i cristiani hanno riconosciuto il quel segno miracoloso l’annuncio di una Eucaristia che è pane per la vita dell’uomo, ma che è pane che diventa vita perché è frutto di una condivisione. “Abbiamo solo cinque pani e due pesci”, ma saranno proprio quelli che alimenteranno tutti perché condivisi.
La misericordia è proprio realizzata attraverso i segni della condivisione. Tra di noi questa sera c’è Padre Ibraim, sacerdote di Aleppo. Poco fa mi raccontava come si vive ad Aleppo, e di come veramente i cristiani sperimentano in maniera concretissima i gesti della prima comunità, anche attraverso il miracolo della moltiplicazione dei pani che nasce dalla condivisione di quel poco che si scambiano gli uni gli altri fraternamente.
Lo ricordiamo in questo momento, lo ricordiamo solennemente, ma fratelli e sorelle questo è ciò che segna la nostra coscienza di cristiani ogni giorno. Ce lo dobbiamo ricordare ma non solo attraverso la mente. Lo dobbiamo assimilare ogni giorno, anche quando non ce ne ricordiamo: noi viviamo secondo questi criteri.
Criteri che ci fanno dire che come l’Eucaristia è dono, così lo è la vita di un discepolo del Signore: la cifra interpretativa della vita è il dono. Questa cifra che interpreta la vita di tutte le persone umane, anche di quelle che non sono cristiane, noi la dobbiamo testimoniare, non come sforzo o come impegno, ma come espressione di una convinzione.
Dire che la vita trova la sua cifra interpretativa decisiva nel dono e quindi nell’Eucaristia – il dono radicale, Dio che si fa dono – significa che scandiamo la vita con questi atteggiamenti: innanzitutto l’atteggiamento della gratitudine e poi quello della gratuità e poi finalmente quello della grazia. Gratitudine, gratuità, grazia.
Gratitudine, gratuità e grazia sono le modalità attraverso le quali noi rendiamo concreta una esistenza che diventa dono.
La gratitudine. Ricordavamo prima il Cardinale Loris Francesco Capovilla che il Signore oggi ha chiamato a sé, ma quante persone hanno appartenuto alla nostra vita, hanno fatto la nostra vita, hanno fatto anche la nostra fede. Vivere con gratitudine – permettete – è proprio un bel vivere. È quella gratitudine che a volte diventa ancora più intensa nei momenti oscuri, nei momenti in cui sembra non ci sia alcun motivo per essere grati, ma appunto il dono di Dio e la fede con la quale lo raccogliamo ci rende capaci di leggere pure le vicende oscure non sotto il segno della disperazione, ma sotto il segno della possibilità di trasformarle in motivi di profonda e ricca umanità.
La gratuità. La caratteristica della vita cristiana deve essere la gratuità. La gratuità di noi preti innanzitutto, ma la gratuità che ispira la vita di ogni cristiano, dove il mio interesse e il mio tornaconto non diventano il criterio decisivo di ogni azione: dalla famiglia, al lavoro, all’impegno nella società. È il segno di un disinteresse personale che diventa non distacco, non indifferenza, ma piuttosto appunto un interesse per il bene dell’altro, degli altri che alla fine veramente riconosco anche come un grande dono per me.
E finalmente la grazia. La grazia di Dio che però non rimane soltanto il dono che Dio ci offre, ma diventa la scelta della fede con cui io accolgo questo dono. Allora vivo veramente una vita continuamente rinnovata, non dai miei sforzi, non dalle mie perfezioni, ma dalla grazia misericordiosa.
Care sorelle e fratelli, la festa del Corpus Domini la Chiesa ce la restituisce per richiamare alla coscienza dei cristiani la reale presenza di Cristo nell’Eucaristia. Se reale è la presenza di Cristo nel suo dono altrettanto reale deve essere la presenza dei cristiani nel mondo e della loro vita che si fa dono.
(trascrizione da registrazione)