Giovanna Bolognini lavora manipolando del filo di ferro cotto che le serve per delle sculture che curiosamente possiedono la caratteristica dote di leggerezza che le rende inconfondibili. Il risultato di piegare, battere e saldare il ferro, è ogni volta quello di opere che sembrano al contrario lavorate all’uncinetto, come i centrini che le nostre nonne amavano mettere sotto i bicchieri o i pizzi che in tempi andati hanno fatto il must dell’eleganza. Tecniche da fabbro, martorianti e gravose, per dei frutti lievi, di una delicatezza che non lascia sospettare il tormento a cui la materia è stata sottoposta per poter diventare espressione di qualche specifico momento dello spirito. Qualche volta le sculture di Giovanna Bolognini assumono le sembianze di qualche misterioso animale arcaico, magari estinto in ere lontanissime da noi, e dotato di una bellezza spontanea, come quella del pavone che ha degli «occhi» sulla coda aperta, o il riccio coi suoi aculei sparati verso il cielo. In altri momenti sono spazi dell’anima, luoghi del cuore, modi di essere in cui possiamo riconoscere qualcosa di cui andiamo pur sempre in ricerca.
Queste due sculture hanno il loro rispettivo titolo/indizio. «Il primo antro», si intitola quella specie di guscio/conchiglia sostenuto da cinque piedini che lo tengono eretto e rivolto come una bocca aperta verso l’osservatore. Il termine «antro» ci parla di uno spazio offerto per la protezione, per il riparo, per quel bisogno di rifugio e di pace in cui ci si può sempre venire a trovare, come quando da bambini ci si nascondeva sotto il tavolo, caverna improvvisata e più misura della nostra piccolezza. Un «antro» ha sempre anche qualcosa di sacro, dove non si può farla da padroni, e dove si indotti a stare attenti a dove si mettono i piedi, ospitalità che prevede atteggiamenti umili. Non è però un «antro» di quelli che spaventano, cupi e tenebrosi, perché possiede anche la forma del mantello, tipo quei tabarri di una volta che i nostri nonni portavano al posto del cappotto, caverna portatile in cui trovare rifugio dal freddo e dalla nebbia. «Libro aperto» è la seconda scultura, che ci parla di qualcosa che ormai conosciamo tutti bene, noi cittadini scolarizzati che abbiamo in dote il dono -a volte immeritato- della lettura. Anche il libro -se vogliamo- è a suo modo una specie di «antro», una cavità ristoratrice nella quale ci si può inoltrare, ritirati per un attimo, o per molti attimi, dalla diretta della vita, per una forma di ristoro della mente che significa quasi sempre anche rianimazione dello spirito. Immersi nel libro, si avrebbe l’impressione di rinchiudersi, ma in realtà ci si apre -come dice il titolo della scultura-, perché il libro -che sia un romanzo, un saggio, delle poesie, dei racconti- ha i suoi aculei e non ti lascia in pace (nella cattiva pace che è pigrizia mentale), e ha le sue finestre che ti cambiano l’aria (l’aria viziata delle cose risapute). Nella lettura, quando è lettura di parole che meritano gli sforzi di questo atto umano veramente miracoloso, ci sono nodi e durezze che bisogna essere capaci di raccogliere con la pazienza di chi spigola in un campo appena mietuto; e ci sono varchi, come questi cerchi aperti dell’opera, dai quali passano venti nuovi, aria fresca, quindi vita nuova.
«Il primo antro» e «Libro aperto» ci dicono che esiste qualcosa che possiamo chiamare «pace», essa si costruisce nel «prima» dell’umano coltivato nel sé, ognuno per sé per ciascuno per tutti, perché nei molti «dopo», che la storia continua a conoscere, tutto diventa più drammatico, e spesso tragico, soprattutto quando i rifugi vengono violati e i libri calpestati.
Progetto a cura di Giovanna Brambilla e Giuliano Zanchi
Ingresso libero
Orario di visite: tutti i giorni dalle 09.00 alle 18.00